Ambivalenza di una pratica vivente

Un libro di Sandro Chignola

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Marta Roberti, Crying From The Third Eye (2019).

Mentre nel secondo quarto dell’Ottocento la più celebrata filosofia politica, soprattutto di area germanica, rimirava la maestosità dell’edificio statale di cui si era peritata da tempo di rafforzare le fondamenta e lucidare gli stemmi, negli stessi anni in Francia prendeva avvio una linea di pensiero tanto eterogenea quanto radicalmente alternativa (e alfine gloriosamente minoritaria, anche in patria). Ad accomunare i molto vari esponenti di una simile controspinta teorica è anzitutto l’intento, il più delle volte assunto in modo derivato, di riformulare altrimenti la primazia del problema dell’ordine (sociale e politico) nel novero delle questioni riconducibili alle scienze dello spirito. Quanto un approccio filosoficamente avvertito dovrebbe spiegare, secondo i difensori di un simile approccio, è non già come sia possibile il cambiamento, vale a dire una trasformazione, più o meno marcata, di un dato corso politico, ma al contrario come sia mai possibile un ordine in quanto tale, inteso cioè come cristallizzazione di un flusso altrimenti non discreto di pratiche sociali, pratiche che risultano peraltro già di per sé dai contorni (e dallo statuto teorico) tutt’altro che evidenti.

Le affinità, più che i debiti, con l’allora nascente sociologia sono, va da sé, innegabili, e tuttavia si tratta qui, semmai, di una problematizzazione in chiave (anche) sociologica della stessa sociologia. La questione non è tanto come spiegare il fatto che individui apparentemente irrelati si comportino di fatto in modi similari (se non identici), quanto piuttosto quello di rendere conto del perché appaia evidente una simile convergenza e in quali frangenti e contesti sociali essa risulti manifesta. La conformità delle condotte è, in altre parole, tutt’altro che assunta come tale: prima di dar conto della catena causale (o comprendente) che ne determina l’effettività, si tratta di provare che una simile conformità si dia ed enuclearne in qualche modo tanto lo statuto teorico quanto, per così dire, le agenzie operative.

La sfida, indiretta ma chiarissima, alla tradizione filosofico-politica tedesca è resa ancora più ultimativa per il fatto che la contro-storia sociologica, qui richiamata, dell’emergere di un ordine sociale ha il suo punto di fuga nella concezione di un diritto che Sandro Chignola ha assai felicemente definito «vivente», nel suo ultimo libro: Diritto vivente. Ravaisson, Tarde, Hauriou (Quodlibet, Macerata 2020). Dunque è proprio al diritto, di fatto sinonimo di politica in tutta la tradizione filosofica tedesca almeno moderna, che rimanda, in modi molto diversi, la riflessione di ciascuno dei tre autori convocati (e di questi solo l’ultimo, Maurice Hauriou, è un giurista, peraltro assai indisciplinato, quantomeno nei suoi scritti di teoria del diritto, quantomeno rispetto alle aspettative dei suoi colleghi). Un diritto che viene concettualizzato anzitutto come una sorta di diaframma, che coordina, regolandone il respiro, il costante fluire di pratiche sociali continuamente mutevoli con le esigenze di stabilità proprie di un ordinamento. Ma – ed è questa forse la caratteristica distintiva rispetto ad altri approcci, pur tangenziali, al diritto e insieme il denominatore comune della riflessione dei tre autori in questione – il diritto qui non è chiamato a dividere nulla (prassi informali e fattispecie regolate, sociale e politico, ordine dal basso e ordine dall’alto, ecc.). Il diritto pone piuttosto in essere, in modo performativo, quelle pratiche interazionali che esso stesso inquadra, definisce e struttura come tali, ovvero quali condotte regolari e reiterate che danno vita a un ordine, e che anzi sono quel determinato ordine. Il diritto, in quest’ottica, altro non è che la forma che una data condotta di azione, spontaneamente adottata per la soddisfazione di determinate esigenze da parte di un gruppo di individui, assume al fine di porre la pratica in questione nelle condizioni di perpetuarsi e al contempo integrarsi con altre modalità di interazione, adottate in risposta ad altre esigenze.

Si tratta, in altre parole, di indagare la «immediata, intrinseca, politicità delle pratiche giuridiche» (p. 10), vale a dire le potenzialità ordinamentali del diritto, la cui effettività non dipende – quantomeno non direttamente – dall’affermarsi di un potere sovrano, quasi quest’ultimo conferisse doti compositive a una realtà giuridica finalmente disincantata. Ed è qui che il diritto si apre alla dimensione temporale (e – azzarderemmo – viceversa): «Il diritto si intesse di durata. Esso riduce le incertezze del presente – più radicalmente ancora: riduce le incertezze di un presente che altrimenti si riaffaccia ogni volta di nuovo come un trauma – e lo assegna al ritmo che lo attraversa, agganciandolo a forme e a dimensioni di una continuità d’esperienza che viene, proprio per il tramite delle procedure e delle tecniche che al diritto pertengono, resa possibile» (p. 11). Le norme stabilizzano l’esperienza, dunque, e del resto è questa la loro funzione essenziale. E tuttavia – osserva opportunamente Chignola – bisogna guardarsi dal ridurre una simile prestazione a un conservatorismo fissista, secondo un non trattabile assunto che accomuna, tra gli altri, Freud ai maggiori esponenti dell’antropologia filosofica tedesca (per i quali ultimi le istituzioni non si discutono, e anzi sarebbe bene non metterle neanche a tema, pena il portare a coscienza quanto deve di contro permanere non problematizzato): «La ricorsività delle istituzioni – lingua, rito, tecnica – fornisce una durata che non inibisce la potenza che pertiene alla natura della socializzazione quando non sostituisce alla vita la sua immagine e non riferisce i suoi processi al loro modello geometrico» (pp. 11-12).

I meriti del libro di Chignola sono molti e molto vari. Iniziamo dal più immediato: vengono trattati e discussi tre autori assai poco frequentati in Italia. Se infatti si eccettuano alcune pubblicazioni degli anni Trenta del secolo scorso (nella gran parte non imperdibili, a dir la verità), le monografie dedicate a questi autori apparse in italiano si contano, letteralmente, sulle dita di una mano. Altro merito è quello di ricostruire, e discutere con rara acutezza, la cornice teorica, se non le basi, per la comprensione di due pensatori che vanno al momento – questi sì – per la maggiore: Henri Bergson (che di Ravaisson fu allievo e alla cui opera dedicò un saggio importante, edito nel 1904) e Gilles Deleuze (il quale riservò all’istituzionalismo francese più attenzione di quanta gliene abbiano dedicato i giuristi, nel tentativo – sostanzialmente riuscito – di mettere in luce il carattere creativo, ben più che conservativo, dell’istituzione). Ulteriore pregio della trattazione di Chignola è aver spinozianamente accresciuto le potenzialità delle rispettive prestazioni teoriche di Ravaisson, Tarde e Hauriou, appunto connettendone intuizioni e approcci secondo una linea di sviluppo tutt’altro che scontata: i concetti di abitudine, pratica sociale e organizzazione, per limitarsi ai più rilevanti da un punto di vista giuridico, assumono in questa prospettiva una rilevanza e un’originalità che qui è possibile soltanto sottolineare.

Ma il testo in discussione può vantare un ulteriore merito, forse il più pregevole in rapporto al tema trattato, ed è quello di offrire una prospettiva istituzionalista del diritto né irenica né riduttiva. Vale a dire che la costitutiva riformabilità di ogni concrezione istituzionale – e si intenda qui questa continua tensione a riformarsi anzitutto nel suo significato descrittivo – non solo non viene assunta come la panacea (pangiuridica) di tutte le storture relazionali interne al sociale, ma, quel che più rileva, viene inquadrata nella sua consustanziale duplicità: la dinamica generativa sottesa alle istituzioni, vale a dire alle componenti non ulteriormente scomponibili della realtà giuridica, è tanto ciò che potenzia quanto ciò che inibisce (e talvolta mette a rischio) i processi di socializzazione. Stabilità e mutamento (stabilizzazione e mutazione) sono le due facce di uno stesso processo che non può non darsi se non in questa duplice logica, il cui punto di equilibrio è a sua volta l’obiettivo fondamentale di ogni istituzionalismo e al contempo il momento da superare non appena reso effettivo. È a questa altezza, in questi frangenti (quotidianissimi), che il diritto si rende vivo: «La vita produce la propria regolazione in forza della potenza morfogenetica e trasformativa che le pertiene. Da un lato, essa sedimenta forme; dall’altro attraverso le forme provvisoriamente raggiunte, l’attività che in esse si deposita e si contrae, amplifica e rilancia la propria dinamica» (p. 12).

Diritto vivente significa, insomma, che il diritto segue la vita e che la vita, intesa qui come forma allo stato liquido delle singole esistenze, si struttura pubblicamente come un insieme di prassi regolate che il diritto traccia e tracciando rende possibili, prima ancora che sancire. Diritto e vita si rivelano dunque coestensive, se della prima si fa rilevare quanto risulta necessario per il darsi di una struttura regolativa che concresce con le forme di vita che al contempo informa. Diritto vivente significa, ancora e da ultimo, un diritto che pone in questione, riacquistando l’orizzonte propriamente politico da cui si era qui partiti, l’insularità individualistica che è alla base della (impostazione uscita vincente dalla) filosofia politica moderna: l’individuo, concepito come soggetto di diritto previo rispetto a ogni più comprensiva dinamica interazionale, cessa di essere il termine di riferimento primo dell’analisi giuridica e quest’ultima di esaurire la propria prestazione in una composizione regolativa che procede per addizione di volontà e spazi di azione in sé conchiusi e indipendenti: «In questione entrano relazioni, flussi, affetti, la materialità della cui coniugazione smonta il geometrico meccanicismo del moderno dispositivo giuridico-politico» (p. 13). Il diritto vivente è, concludendo, «una politica immanente all’azione: il ritmo di composizione di singolarità ed eventi in pratiche moltitudinarie di verifica del limite delle forme sperimentate dalla socializzazione» (p. 14).

Stante la cornice che si è cercato in breve di ritracciare, una discussione delle singole piste di analisi e delle originali chiavi interpretative tramite cui Chignola approccia i tre autori messi a tema non è qui possibile (ma ci sentiamo di raccomandare, in particolar modo, i due capitoli centrali su Gabriel Tarde). Ci si limita, sicché, a richiamare l’attenzione su un punto, tanto cruciale quanto problematico nei suoi sviluppi. La messa in forma, che è prestazione prima del diritto, implica inevitabilmente una chiusura: quando si dà forma a qualcosa, si scartano necessariamente le parti che in detta forma non rientrano (perché incoercibili, perché sovrabbondanti, perché inapplicabili, perché strabordanti, ecc.). E questo tanto più per quella particolare forma che è l’istituzione, che richiede un’adesione almeno irriflessa, e che dunque tale adesione è chiamata a incentivare e rinsaldare. Il rischio, connaturato alla stessa logica istituzionale, è dunque quello di una reificazione delle forme interazionali cui l’istituzione dà forma (non è più l’istituzione a “essere al servizio” di un dato insieme di pratiche, ma viceversa: si perpetuano certe pratiche, anche se non più funzionali a una data esigenza diffusa, perché necessarie alla sussistenza dell’istituzione). Ora, come accennato, Chignola è perfettamente consapevole di tale possibile e minaccioso esito, che tuttavia pensa residuale o comunque non tale da poter pervertire la forma istituzione: «Ma questa chiusura, pur necessaria, non occlude affatto di per sé stessa la dinamica che vi è inclusa e che vi si sostiene. L’abituazione rende più facile un movimento; l’invenzione di una tecnologia mette a disposizione risorse per altre, impreviste, invenzioni; giocare secondo le regole di un gioco non significa inibirsi la possibilità di tutte le imprevedibili mosse che quel gioco e quelle regole rendono possibili» (p. 13).

Ora, che l’istituzione abbia in sé un potenziale creativo e riplasmante (che poi significa, anche, politico) è, a nostro avviso, indubbio. E tuttavia proprio qui sta il punto: la sclerotizzazione di una forma istituzionale è, proprio per il carattere routinario che informa quest’ultima (carattere su cui Chignola scrive pagine illuminanti, giocando sulla complementarità, che è al contempo un’opposizione, di abitudine e ripetizione), non solo uno dei possibili esiti di una regolazione istituzionale, ma anche il più probabile, vale a dire quello che la logica istituzionale prevede, per così dire, di default. Che l’istituzione stessa abbia in sé le risorse, simboliche e materiali, per rendere tale approdo non tanto evitabile (ché, almeno in certa misura, non lo è, proprio in quanto richiesto per il funzionamento della stessa istituzione), quanto costantemente riarticolabile, è la sfida che ogni istituzionalismo si trova di fronte. Un istituzionalismo che Diritto vivente riconnette, in modo assai convincente, alle sue fonti principalmente extra-giuridiche, per illuminare al meglio – e non sembri un paradosso – le potenzialità ordinamentali di esso, potenzialità che un esclusivo inquadramento giuridico non permette di cogliere a pieno.

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