Attraversare il deserto

I limiti del linguaggio secondo Stefano Oliva

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Gian Maria Tosatti, Damasa - Galleria Lia Rumma, Napoli (2018).

Fratello ateo nobilmente pensoso
alla ricerca di un Dio che io non so darti
attraversiamo insieme il deserto.
Di deserto in deserto andiamo
oltre la foresta delle fedi
liberi e nudi verso
il nudo Essere e là
dove la Parola muore
abbia fine il nostro cammino.
D.M.Turoldo 

Per molti anni, in sostituzione del crocifisso sul letto, ho tenuto questa poesia incorniciata. Il quadretto è andato poi perso in un trasloco ma da quando ho conosciuto Stefano Oliva e soprattutto ora che è uscito il suo libro Il Mistico. Sentimento del mondo e limiti del linguaggio (Mimesis, 2021), questa meravigliosa poesia è tornata piena di senso per me perché ricapitola con millimetrica precisione sia il quid del libro sia la nostra amicizia. L’espressione «la ricerca di Dio» è solitamente preda di un sentimentalismo decadente, laddove è invero una questione tremenda. È uno stato eccitativo, uno stato infiammatorio cronico dell’animo umano al cospetto di un’equazione logica e matematica che non arriva mai al punto: la totalità conclusa. Purtroppo no, carissimo Turoldo, all’ultimo verso non si arriva mai da vivi se non per qualche fuggevole attimo, all’acme dell’esperienza erotica, come sospetta Bataille, o tutte le notti all’atto di addormentarsi. Quel cammino finisce solo da morti.

Anzi, a sentire i buddisti, io, certo, morirò, ma le mie parole, i miei atti, il mio karma – direbbe qualcuno iper-antico – i miei significanti – direbbe qualcuno iper-moderno – non muoiono mai, sono l’unica cosa che mi sopravvivrà in eterno. La parola ha, sì, un limite, ma questo limite non è la morte. Da umani vivi e loquaci si arriva sempre e continuamente a ridosso di questo limite. Un limite che l’uomo ha bisogno di rappresentare e affabulare (noi lo affabuleremo come un bivacco dove i tormentati di tutti i tempi si interrogano e attendono nelle loro solitudini), ma va cercato nel posto giusto e il posto giusto non è da qualche parte nel mondo ma ci palpita a fianco, sotto forma di sentimento, come un angelo custode: è l’impossibilità delle parole a dire tutto quello che si vorrebbe dire, nonostante i poeti.

Il mistico arriva e sbatte sul non dicibile. Se così è, allora il libro di Oliva è abusivo e Oliva lo sa perché già nelle prime righe fa sue le parole di Michel De Certeau che a pagina uno del suo Fabula Mistica scrive: «Questo libro si presenta nel nome di un’incompetenza: è esiliato da ciò che tratta». Non si può parlare di mistica perché non si può parlare dell’oltre-parlare. Questo è il senso del celeberrimo aforisma di Wittgenstein. Ciò di cui non si può parlare si deve tacere non è una prescrizione, un divieto ma una presa d’atto. Si dovrebbe tacere quello che non si può dire e invece l’umano non lo tace per la condizione imbarazzante in cui, a sentire Qoelet, lo avrebbe messo Dio stesso: «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine» (Qo: 3,11). Qoelet descrive quella che gli atei pigri e malmostosi chiamerebbero la canagliata di Dio il quale ha dato all’uomo la parola, cioè il senso del limite, della morte e quindi dell’eterno (sub specie aeternitatis, ci ricorda Oliva) e poi gli ha detto: «ora arrangiati!». Ma come è stato possibile? Mistero.

Mistero, si vede a occhio nudo, è parola consanguinea di mistico, ha la stessa radice e quella lettera M, unico segno alfabetico proferibile dall’uomo a bocca chiusa – un suono che parla tacendo – e così, non casualmente, rappresentato nella parola Mamma. Il mistero non è il genere di cosa che si dice o si svela (quello si chiama segreto), ma il genere di cosa che non si saprà mai, e questo per un motivo molto semplice: dietro il velo del mistero non c’è qualcosa. C’è un’assenza. Ma poi, vai a vedere, e inizi a sospettare che quella assenza non è il disperante punto di (non) arrivo ma il vitale motore che tutto spinge da tergo. Dio? Lo cerchi avanti, al termine e invece lui, in-vedibile (non: invisibile) spinge da dietro; Oliva sulla quarta di copertina: «Questa circolarità imporrà un quesito: qual è la differenza tra l’inizio e la fine del percorso?».

Mistico, il Mistico, la Mistica, Misticismo. Lo sciatto uomo della strada direbbe con pigrizia: «Mah, in fondo, sinonimi», invece Oliva che ha rispetto per le parole che usa in modo lindo, nel primo capitolo si fa enciclopedia, quasi glossario, e mette in ordine. Se non si mette ordine tra le parole a ridosso della loro morte, allora meglio andare in osteria. L’uomo di osteria forse ha letto Siddharta in gioventù, e allora ha un’idea di mistico come un Samana, vestito di stracci, con i capelli impolverati, che dice e soprattutto fa cose strane in un alterato stato di coscienza. Nulla di più lontano dall’idea di mistico che emerge dal testo di Oliva. Il mistico pratica, per quanto possibile, la chiarezza perché «solo vedendoci chiaro – dice Oliva – ci si potrà rendere conto del punto cieco di ogni visione trasparente». Chi legge il libro di Oliva apprende che la mistica è «scienza sperimentale delle cose spirituali». Una scienza che confina con la psicologia e con la teologia ma non è né l’una né l’altra. Un anelito ben riassunto da Wittgenstein: «L’impulso al mistico viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppur toccato».

Il termine del cammino di Turoldo somiglia così ad un bivacco dove certe solitudini tormentate si incontrano. Al bivacco il baccano del mondo si attenua e questo dà la medesima pace al cuore di quando un conduttore di talk show, nel cui gorgo siamo caduti in maniera malaccorta, complice il divano e l’ora tarda, chiede alla regia di togliere l’audio a ospiti bisticcianti che non sanno più tacersi. Al bivacco del mistico si parla poco e a bassa voce perché le parole sono ad un passo dall’umiliazione della loro vanità. Al bivacco del mistico, anime che non sanno andarsene, si fermano davanti all’incomprensibile, non davanti al non ancora compreso. Al bivacco del mistico non necessariamente si trovano credenti, le cose mistiche non sono confessionali, si trovano tormentati che non si fanno sconti. Si bivacca davanti al limite del non toccabile, il cui superamento è stato concesso solo a San Tommaso e, come si sa, a malincuore. L’inesorabile reciproco tradimento tra vista e tatto, rilevo leggendo la Weil, costituisce l’anima sensoriale della contraddizione mistica. Anche Enea, di passaggio nei Campi Elisi, abbraccia il padre tre volte invano: Anchise è lì, alla vista, ma sparisce al tatto.

Questo, io penso, è il Dio del mistico. Se occorre – è certo che occorre – baciamo e tocchiamo le statue, eppure Dio resta verità granitica alla vista ma aeriforme al tatto, chiede distanza, sta e deve restare nei cieli, come spiega la Weil in una sua potente rilettura del Padre Nostro. Al bivacco si anela alla meraviglia per l’esistente o alla totalità conclusa come tir alla dogana chiusa, come giovani in coda nella notte per il concerto della rockstar o come disperati a ridosso di un confine che si brama oltrepassare. Il mistico bivacca benché sappia che la dogana non aprirà mai, nessun concerto si terrà ed oltre il muro non v’è alcuna salvezza. Ma il mistico è portatore di un’urgenza e resta lì perché sa che la salvezza, se c’è, consiste nel farci qualcosa con il tormento, fosse anche solo un segno della croce o un inchino.

Il cammino di Turoldo procede di deserto in deserto. I capitoli di Oliva sono invece locande nel cammino dove ci attendono pensatori di ogni tempo per rifocillarci di senso. Wittgenstein, Weil (una luce, per me) Lacan, Heidegger e poi Melisseaux, De Certeau, Bataille. Oliva in questo volume ha un’abilità tutta materna di lenire con bibliografia il tormento mistico. Attenzione a non confondere! Molti intellettuali fanno del tormento una bibliografia che è tutt’altra cosa. La prima ha il merito di consolarti ricordandoti che non sei solo, che nella storia dell’umanità molte persone tormentate, poetiche e profetiche hanno detto lo stesso tuo tormento con parole inedite. La seconda strategia è un’evasione dal tormento, tutta maschile. Un hobby, come lavare l’auto la domenica in garage.

Filosofia, psicoanalisi, religione sono solo i tram che hanno portato me e Stefano Oliva al nostro appuntamento al bivacco. La ricerca dell’Io è, in un certo senso, ricerca di Dio, ineffabili entrambi. Tanto la prodezza dello Psicoanalista quanto quella del Mistico si compiono per via di lasciare e lasciare al momento giusto e non insistendo, trattenendo, correggendo, indicando, scoprendo, risolvendo, guarendo. È qui che lo psicoanalista anglo-indiano Wilfred Bion, certamente con Jacques Lacan il più mistico degli psicoanalisti, legge e cita il mistico renano medievale Meister Eckart ed è qui che io e Stefano Oliva abbiamo trascorso parte del nostro bivacco a scrivere, in un volume dedicato a Bion (L’eredità di Bion, curato da Antonio Ciocca, edito nel 2020 da Alpes), cosa del Mistico ha sedotto lo Psicoanalista. Per Jacques Lacan il muro dove sbatte il mistico è La Cosa (Das Ding), il Reale. Nel gioco, un po’ bisbetico, con cui Lacan ha maneggiato le parole (chi ha frequentato il suo gergo sa che la parola godimento, ad esempio, a dispetto del senso comune, è assai più affine al tormento del mistico che al sentimento dell’uomo in osteria a fine serata) il Reale, La Cosa, lungi dall’essere la dimensione più rassicurante della fragile condizione umana, è invece un punto cieco che «brilla per la sua assenza», non raggiunto dal tepore delle parole che hanno il compito di significarlo, di dirlo.

Bion, dal canto suo, chiama O, un buco più che un suono, l’inarrivabile, l’indicibile e raccomanda all’analista, durante la seduta, l’astinenza da memoria e desiderio se davvero intende disporsi con coraggio a vedere l’inedito, il non conosciuto dispiegarsi nella stanza d’analisi. Risuona con Eckart quando questi sostiene che se ci liberiamo di Dio (viene voglia di scriverlo con la minuscola!) nel profondo del nostro animo, Lui vi cadrà dentro per sottovuoto. Gli psicoanalisti professano un ateismo di ordinanza, quasi protocollare (anche originario, se pensiamo all’ateismo del padre fondatore) che ha una sua legittimità: lo psicoanalista nella stanza di analisi non può cedere a priori al ricatto di Barbablù: «Mettiamo in crisi tutto ma la porticina di Dio, quella no». Bion proporrebbe idealmente un patto al paziente: io lascio la psicoanalisi, la memoria ed il desiderio e tu lasci Dio e ci mettiamo alla ricerca assieme, ce la caveremo alla meno peggio in un brutto affare per poi accorgerci che c’è sempre dell’Altro… non Tutto. Che non tutte le porte del castello di Barbablù sono apribili, che non tutte le mele dell’Eden sono mangiabili, ancora una volta, non sono regole da osservare ma la fabulazione di una constatazione: al Tutto totale occorre rinunciare perché è impossibile e non perché è vietato. Se catechisti e psicoanalisti frequentassero con maggiore assiduità il bivacco mistico capirebbero che la porticina di Barbablù, la torre di Babele e la mela dell’Eden e tutte le infinite affabulazioni di «tutto ma uno no!» non sono divieti di un Dio abusante, come disse quel diavolo di serpente, o di un principe misogino e sanguinario, ma il semplice racconto della miseria umana, sentimento mistico per eccellenza – secondo Simone Weil – a cui il Tutto totale è precluso per statuto. Smisurate quantità di colpa sarebbero sollevate dal capo dell’uomo e la vita affettiva e relazionale del pianeta Terra sarebbe migliore, più gioiosa.

Sommessamente potrei dire che questo è l’obiettivo di un’analisi riuscita: dismettere onnipotenza, attenuare colpa e fare spazio a un certo tipo di miseria. Siamo mancanti. Siamo abitati dall’inconscio, facciamocene una ragione, arrendiamoci e diventiamo liberi.

Questo vuoto illude di essere riempibile in infiniti modi: con la cocaina, con un’opera d’arte, con un orgasmo, con l’istituzione di un rito o con una serata in osteria. Il mistico resta un passo di lato, per quanto può al riparo dal giudizio, con i potenti strumenti di cui dispone per abitare la miseria: silenzio, immobilità, contemplazione, ripetizione, astinenza. In queste pratiche trova il suo ristoro ed il suo premio per tornare rinfrancato nel mare delle parole, dei giudizi, degli altri, della storia.

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