Autocoscienza per immagini

Intervista a Paola Mattioli di Raffaella Perna

Paola Mattioli, Sara è incinta, 1977, stampa baritata, cm 11,8x17,6
Paola Mattioli, Sara è incinta, 1977, stampa baritata, cm 11,8x17,6 [1 di 16]

Paola Mattioli – Da allora non ho più smesso di partecipare alla politica delle donne: i miei lavori si sono rivolti a tanti temi diversi, ma hanno sempre mantenuto un punto di vista radicato in quella che oggi è la teoria (e la pratica) della differenza sessuale. 

Paola Mattioli, nata a Milano nel 1948, studia filosofia con Enzo Paci e si laurea con una tesi sul linguaggio fotografico. La serie di ritratti di Giuseppe Ungaretti realizzata nel 1970 – pubblicata da Vanni Scheiwiller insieme al carteggio tra Enzo Paci e il poeta – inaugura la sua sperimentazione fotografica. La prima importante esperienza espositiva è la mostra Immagini del no, tenutasi nel 1974 alla Galleria Il Diaframma di Milano, diretta da Lanfranco Colombo: in quest’occasione l’artista espone cinque sequenze, una delle quali a colori, che documentano la realtà sociale e politica legata al referendum sul divorzio a Milano.

La mostra al Diaframma nasce a seguito dell’uscita del libro omonimo, realizzato insieme ad Anna Candiani, pubblicato nel 1974 nella bella collana «All’insegna del pesce d’oro» di Scheiwiller. Recentemente Martin Parr lo ha definito uno tra i libri fotografici più interessanti stampati in Italia negli anni Settanta. Come nasce l’idea di questo piccolo volume, che misura solo 10 centimetri per 7,5 ?

È vero, il libro è molto piccolo, ma non è poi così piccolo se si pensa che è stato pubblicato da Vanni Scheiwiller «editore in 32°» ‒ come amava definirsi (diceva anche che i suoi libri servivano a non far ballare i tavoli, con un incantevole tratto finto svalutativo) ‒ e in particolare nella collana «Occhio magico» che lui dedicava alla fotografia; pochi anni prima erano usciti in quella stessa collana Con Marianne Moore (’68) e Allegria di Ungaretti (’69) di Annalisa Cima entrambi con fotografie di Ugo Mulas, e nel ’72 Giuseppe Ungaretti, Lettere a un fenomenologo, con un saggio di Enzo Paci e 16 fotografie di Paola Mattioli. Avevo 23 anni e mi sembrava di toccare il cielo con un dito! Rimpiango la straordinaria apertura di quell’ambiente intellettuale nella Milano degli anni Settanta che dava un credito tanto generoso a una studentessa alle prime armi.

Progettare questi due libri con Scheiwiller mi aveva fatto vedere per la prima volta la sapienza tipografica: forbici, colla, fotocopie, sembrava di giocare ma dietro c’era la scuola semplice e precisissima di chi sa come si fa. Certo, quando è stata decisa la copertina verde dell’Ungaretti ho sofferto un po’ (la «mia» fotografia su cartoncino verde?! nooo!), ma anche le correzioni autografe del carteggio Ungaretti-Paci erano stampate in verde (grande raffinatezza!) quindi…

Per Immagini del no la sperimentazione si era appoggiata a Giovanni Anceschi: un altro generoso, che ha letteralmente insegnato a me e ad Anna Candiani il proprio metodo per mettere delle fotografie in sequenza ‒ metodo che uso ancora adesso ‒ e di lì il passaggio alle 5 strisce tematiche, i relativi incroci anche in verticale, l’azzardo dell’inserimento di una striscia a colori perché necessaria, il rapporto con lo spazio espositivo; insomma Anceschi ci ha sollecitato a problematizzare il tema della sequenza, sperimentando nuove possibilità linguistiche, e questo non era sfuggito a Quintavalle che nell’introduzione alla mostra parlerà «dell’invenzione di un discorso narrativo polifonico». Non fu possibile travasare la polifonia nel libro, che uscirà quindi in modo un po’ più tradizionale, con i suoi 10 centimetri di altezza e «molti no».

Di recente Martin Parr, nel contesto di una ricerca volta al «mettere insieme una storia altra della fotografia, ponendo al centro di questa storia rivisitata il libro fotografico» ha selezionato e ripubblicato dall’Editore Steidl, con copie anastatiche identiche agli originali, The Protest Box, un cofanetto con i «cinque libri di protesta più significativi che siano mai stati pubblicati» (sic!).

No Images scrive Gerry Badger nel libro introduttivo che accompagna The Protest Box ‒ potrebbe quasi essere descritto come un libro fotografico «concettuale». Le fotografie documentano alcune delle molte manifestazioni organizzate dalla fazione del «No» prima del Referendum del 1974, e il motivo conduttore del libro contiene la parola «no», che appare in molte delle fotografie su striscioni, cartelloni e muri.

Quel che in superficie sembra la semplice cronaca di una campagna politica, diventa perciò molto di più. No Images non è soltanto un’opera significativa del movimento femminista italiano degli anni Settanta, è anche una meditazione sulla parola «no», è la reiterazione ancora una volta della forza visiva della parola scritta nel paesaggio, e conferma l’uso della fotografia documentaria per segnare una differenza, qui a sostegno di una lotta specifica ‒ forse sì, una lotta su una singola questione ma un’importante questione, per l’Italia ‒ che, come ha scritto Arturo Carlo Quintavalle, «ha causato una rivoluzione del sistema di classe».

La tua sperimentazione fotografica è cambiata in modo considerevole dopo l’adesione al femminismo: in che modo la pratica dell’autocoscienza ha influito sul tuo modo di percepire e di fotografare la realtà?

Immagini del no nasceva da un contesto politico vicino ai gruppi presenti all’Università, mentre rispetto al movimento delle donne si trattava di un primo approccio documentativo. Negli anni immediatamente successivi ero entrata in un rapporto più stretto con le fotografe e le artiste che facevano riferimento al femminismo. Proprio in quel momento il movimento stava cambiando volto: dalle posizioni emancipatorie della generazione precedente (che personalmente avevo un po’ snobbato perché già ampiamente presenti nella cultura della mia famiglia) il femminismo stava abbracciando posizioni ben più radicali. Quindi potrei dire che il mio percorso di autocoscienza non è stato quello tradizionale, ma si è svolto attraverso le immagini.

Intorno alla metà del decennio si era coagulato il «gruppo del mercoledì»: un piccolo gruppo che si riuniva appunto il mercoledì, fondato sul dibattito e sullo scambio di idee intorno all’immagine; lì avevo conosciuto Diane Bond. Ero rimasta impressionata dalla libertà e dalla forza del suo lavoro Le Pezze, un bucato steso nelle più svariate occasioni che invece di nascondere quello che di solito sta sotto la biancheria, lo mostrava con un misto di irrisione e sfrenatezza (il maggior impatto si era prodotto, secondo me, in situazioni di ufficialità culturale, proprio sulla testa dei conferenzieri che facevano finta di niente). Altre provenivano da un gruppo riunitosi nella comune di via San Martino, a cui avevano partecipato anche Marcella Campagnano e Silvia Truppi con esiti assai distanti: la prima con un lavoro che ha avuto nel tempo molta visibilità (i Ruoli), la seconda con un linguaggio stilisticamente più libero.

Parallelamente, in un ambito più legato al mondo della fotografia professionale, Lanfranco Colombo aveva proposto a Carla Cerati, Anna Candiani, Giovanna Nuvoletti e me di partecipare alla sezione culturale del Sicof del ’75, la fiera milanese annuale di fotografia; dopo qualche riunione tra fotografe avevamo deciso di realizzare un lavoro a quattro mani sul tema dell’isolamento della donna nella casa «individuando come primo campo di indagine la casa di ringhiera, cioè la struttura abitativa che dovrebbe dare maggiori possibilità di rottura a quell’isolamento. L’idea della mostra era sorretta dal progetto di raffronto dei modi espressivi di ognuna delle fotografe: quattro reportages paralleli per valorizzare le differenze di punto di vista, di approccio all’argomento, di specificità nell’uso del mezzo». Ho un ricordo speciale di quella mostra: salivo la scala mobile della fiera, dove si svolgeva il Sicof, con le foto da consegnare sotto il braccio, e ho avuto un giramento di testa, una leggera nausea; pochi giorni dopo scoprivo di essere incinta: una maternità non programmata, arrivata come un bellissimo fulmine a ciel sereno…
Anche la parola «lavoro» richiederebbe una precisazione: tutto era lavoro, sia quello professionale sia quello di ricerca, e le due cose erano davvero molto intrecciate, non c’era quel sottile disprezzo riguardo al lavoro «professionale», come del resto non lo aveva Man Ray…

Al Sicof del ’77 Lanfranco Colombo ci aveva riproposto l’offerta di partecipare alla sezione culturale: intervengo con la serie Faccia a faccia, sette donne allo specchio alla quale stavo lavorando in quel momento; il contesto in cui nascevano quelle immagini si ritrova nel libro Ci vediamo mercoledì, gli altri giorni ci immaginiamo, pubblicato l’anno dopo. Credo che il Sicof non fosse l’ambiente più adatto per recepire quel tipo di sperimentazione: quando ho visto il mio lavoro esposto accanto a quelle stesse immagini contro cui mi schieravo (per esempio i nudi di donna di Franco Fontana che non si scostavano per nulla dallo stereotipo) mi sono sentita a disagio; d’altronde alle mostre del Sicof e a quelle del Diaframma è stato esposto di tutto, il bello e il brutto, lavori più e meno interessanti: Colombo non privilegiava una linea specifica, un taglio culturale, decideva lui con il suo entusiasmo un po’ onnivoro; il suo atteggiamento mi sembrava generoso, ma un po’ disattento.

Nel «gruppo del mercoledì» ho lavorato a tre temi: Sara è incinta (1977), Faccia a faccia (1977) e Autoritratto (1977). Sara è incinta racconta, con semplicità, l’incontro di un gruppo di amiche, una delle quali ha deciso di fare un figlio; l’impatto dei corpi nudi risponde alla sollecitazione di un testo di Lea Melandri a proposito della «mancanza d’immagine» delle donne, della loro storica «impossibilità» di vedersi e confrontarsi con la rappresentazione dell’origine, del corpo materno. Faccia a faccia parla invece del rapporto con la propria immagine; «non è mai possibile guardarsi veramente in faccia, percepire la propria mimica quotidiana; al massimo è possibile vedere se stessi mentre ci si guarda allo specchio, nel gesto di guardarsi allo specchio», e fa riferimento alle pagine che Merleau-Ponty dedica al tema del vedere. Autoritratto: il mio sguardo; ciò che avevo definito «guardante» ‒ me stessa in questo caso ‒ «che si nasconde e vive dietro l’occhio dell’obiettivo, come si rappresenta? come si colloca? qui, per me, in un’interrogazione che ammette la propria soggettiva parzialità».

Di poco precedente è Jouissance: sette piccole fotografie nate da una ricerca sull’immagine della donna nei giornali pornografici, condotta nel ’75 per le 150 ore: sono piccole perché, a furia di sforbiciarle (no, questa non posso proiettarla a una classe di operai, no qui è meglio eliminare, no questa è troppo volgare) sono rimasti soltanto i volti delle donne; sette donne messe in scena da professionisti del settore, uno sguardo ‒ come si diceva ‒ «per soli uomini»; una curiosa raffigurazione, vagamente mortifera (una interpretazione letterale della piccola morte) dietro la quale però si può scorgere, da parte delle protagoniste, un residuo di insubordinazione e di finzione, che può perfino apparire comico. Le ho raccolte sotto il titolo Jouissance, 1975; a chiusura, una fotografia del ’79, un uomo che esce da un cinema porno, una immagine scattata per le prime prove della rivista «Grattacielo, occhi di donna sul mondo» che comincerà a uscire nel 1980 e che ‒ anche se durerà solo pochi numeri ‒ rappresenta un fenomenale laboratorio di sperimentazione tra donne di scrittura e donne d’immagine.

…è interessante notare – me ne accorgo con maggior precisione adesso, ripensandoci – come in quegli anni fosse abituale lavorare a più mani, mantenere anche nel lavoro la coralità dei gruppi, quasi che la dimensione della creatività personale fosse un po’ soffocante. Ho mantenuto qualcosa di questo atteggiamento anche in molte altre occasioni, negli anni: poi è un po’ sfumato, chissà quanto per una necessità di espressione personale o quanto per il cambiamento dei tempi… Dunque ‒ anche se ho fatto un giro un po’ lungo per risponderti ‒ come vedi sono tutti lavori abbastanza lontani dalla forma tradizionale del «fotografico» (che in quegli anni si esprimeva soprattutto con un libro rilegato, una foto sulla pagina di destra, sinistra rigorosamente bianca, e breve testo critico) e di questo sono certamente debitrice all’incontro con il movimento delle donne. Da allora non ho più smesso di partecipare alla politica delle donne: i miei lavori si sono rivolti a tanti temi diversi, ma hanno sempre mantenuto un punto di vista radicato in quella che oggi è la teoria (e la pratica) della differenza sessuale.

Quali sono state secondo te le ragioni del mancato riconoscimento critico delle artiste donna in Italia? E come giudichi l’attuale interesse per l’arte e la fotografia degli anni Settanta e in particolare per la sperimentazione delle numerose artiste rimaste in ombra per decenni? Pensi che si tratti di una moda passeggera, di un fenomeno speculativo o di un reale interesse storico-critico?

Sono molto contenta che oggi si parli esplicitamente di «rimozione» a proposito di quel periodo e dei percorsi delle donne: c’è da riscrivere un’altra storia, come ha recentemente fatto a proposito del design la mostra alla Triennale di Milano Women in Italian Design a cura di Silvana Annicchiarico. Lì, oltre all’esposizione vivacissima delle opere, mi ha entusiasmato il reticolo ‒ proposto sul muro curvo che accompagna tutta l’esposizione ‒ che disegna con semplici fili bianchi e affascinanti specchietti tondi le relazioni interpersonali tra le autrici: un reticolo che, applicato al periodo, stravolge la storia «ufficiale» del design.

Così come del resto tu Raffaella hai cominciato a fare per le autrici che hanno usato la fotografia ‒ con il libro Arte fotografia e femminismo negli anni Settanta (postmedia books), con la mostra L’altra misura da Simone Frittelli a Firenze, con le molte iniziative che stai portando avanti, e così come altre storiche e curatrici hanno fatto. Penso a Gli anni ’70 di Cristina Casero ed Elena di Raddo, a Emanuela de Cecco con Anna Valeria Borsari e Maria Lai. Quindi sotto questo aspetto penso che si tratti di un vero interesse critico e storiografico che si avvia con la mostra L’altra metà dell’avanguardia di Lea Vergine, procede in modo carsico con tante piccole iniziative, e prende con la vostra generazione uno slancio formidabile.

D’altra parte però, a molti livelli sento anche arrivare una pericolosa ondata di sedicente moda: in realtà si tratta della libertà di mercato spacciata per libertà femminile. Penso, ad esempio, alle quote rosa nei governi, all’uso del corpo come una merce qualunque, al desiderio svincolato da qualsiasi aspetto relazionale, all’utero in affitto: parole d’ordine che simbolicamente rovesciano i grandi temi della libertà femminile; per affrontare questo pericolo è molto utile Il trucco, l’ultimo libro di Ida Dominijanni.

Torno alla parola rimozione. Mi fa sorridere il fatto che se c’è una rimozione ci deve essere un soggetto rimuovente, in questo caso un soggetto collettivo; beh, nessuno dei singoli soggetti rimuoventi si è ancora sentito in dovere (o in piacere) di partire un po’ da sé e di raccontarci come è andata storicamente questa faccenda. Se fossi in loro io avrei piacere a farlo. Ma forse nessuno di loro si sente implicato in prima persona… Con un ragionamento analogo ma rovesciato, prima di dare totalmente agli altri la colpa di questa rimozione noi dovremmo interrogare il nostro percorso: quante mostre abbiamo fatto in luoghi politici invece che in gallerie, quante opere fotografiche disperse e fatte girare senza richiederle indietro… Probabilmente non abbiamo saputo ‒ o non ci interessava più di tanto ‒ trovare interlocutori istituzionali e darci valore. Del resto non era così facile: «femminista» allora era quasi una parolaccia (nei salotti della borghesia milanese l’incipit di una parola di donna spesso era: «Io non sono femminista, per carità, però devo dire che…»), non era una parola sdoganata come è oggi.

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