Una relazione

Che cos'è un'OperaViva?

Claire Fontaine, Redemptions (Horde), 2013. Courtesy of the artist. (1000x667)
Claire Fontaine, Redemptions (Horde), 2013.

L’opera viva per eccellenza è l’essere umano nato da donna, ovvero, vista dal lato del soggetto invece che dell’oggetto, l’opera creatrice materna. Il fatto è tanto evidente quanto rimosso nella storia del pensiero occidentale, che in materia di (pro)creazione ruba al materno tutte le metafore possibili (un’opera si concepisce, si partorisce, talvolta si abortisce; un’idea è in embrione, in gestazione, in incubazione, e via con i lapsus) mentre non cessa di disconoscerne il valore di principio, in tutti i sensi del termine, dal più concreto al più astratto.

Per intanto, non è mai un’opera individuale 

Ma non è di questa rimozione e di questo disconoscimento, già ampiamente denunciati dal pensiero femminista, che voglio parlare, né dell’idealizzazione che spesso l’accompagna trasformando la madre da principio vivente in icona mortifera; bensì di come, se rimossa e disconosciuta e idealizzata non fosse, l’opera creatrice materna molto ci direbbe di che cos’è un’opera viva. Per intanto, non è mai un’opera individuale.

Domanda un concepimento, con (almeno) un altro; procede con la gestazione, che è la forma paradigmatica di una relazione necessaria e imprescindibile, di mutua dipendenza ma anche, e contemporaneamente, di conflittuale alterità; prosegue dopo la nascita, in un corpo-a-corpo che non si lascia decidere con la «soluzione» edipica, e in cui l’impronta della matrice e l’unicità della creatura, la rivendicazione del sé e l’incombenza dell’altro, l’affermazione del proprio e il sentimento dell’espropriazione non cessano di incontrarsi, scontrarsi, rinegoziarsi, nel teatro dell’inconscio più che sullo schermo della ragione. A dispetto della finzione individualistica e competitiva dell’ontologia liberale e neoliberale, la forma della vita, così come procede dalla gestazione e dalla nascita, è relazionale: si dà quando, come sintetizza Roberto Esposito, «l’altro è la forma stessa che assume il sé, laddove l’interno si incrocia con l’esterno, il proprio con l’estraneo, l’immune col comune».

Viva è quell’opera che mantiene traccia delle relazioni e dei contesti in cui nasce, che è capace di evocarli e rimetterli in gioco, come in una danza in cui entrano in circolo il visibile e l’invisibile 

Non è questa anche, precisamente, la forma dell’opera viva? Viva è quell’opera che mantiene traccia delle relazioni e dei contesti in cui nasce, che è capace di evocarli e rimetterli in gioco, come in una danza in cui entrano in circolo il visibile e l’invisibile. È l’opera che della relazione con la sua matrice mantiene l’impronta, senza che questa impronta si fissi in una proprietà. È l’opera rispetto alla quale la soggettività della matrice, o dell’autore, mantiene un resto e un’eccedenza; ma che a sua volta la eccede, staccandosene e vivendo di vita propria, e offrendosi all’interpretazione, ai sensi e al desiderio di altri.

L’opera viva vive di un regime di pluralità ed eccedenze, di desiderio e di dissipazione, di espropriazione e condivisione 

È l’opera, infine, in cui c’è, e respira, dell’altro, qualcosa che il suo autore o la sua autrice non ha previsto né progettato, la lingua dell’inconscio da cui è parlato/a e che gli/le fa chiedere se sia stato proprio lui, o lei, a scrivere quel testo, o a dipingere quel quadro, a scattare quella fotografia, a inventare quel teorema, a disegnare quella casa. L’opera viva vive di un regime di pluralità ed eccedenze, di desiderio e di dissipazione, di espropriazione e condivisione. È irreggimentabile nelle discipline e nelle competenze, irriducibile alla contabilità produttiva, poco spendibile nel mercato: non è dell’ordine della produzione, ma della generazione.

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