Contro l’autoritarismo della Storia

«L’inarchiviabile» di Marco Scotini

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Mao Tongqiang. Theatrical Piece (2017) - Foto: Courtesy Anren Biennale.

Recentemente è stato pubblicato il libro di Marco Scotini «L’inarchiviabile. L’archivio contro la storia» (Meltemi, 2023), che sarà presentato martedì 23 presso il Campus NABA (ore 18.30, Via Ostiense 92 Roma). Con Scotini interverranno Nicolas Martino, Marcelo Expósito, Carla Subrizi, Silvia Simoncelli. Un testo dedicato a un tema, quello dell’archivio, che emerge con sempre maggiore centralità nelle pratiche artistiche ed espositive del presente. Nella prospettiva dell’autore l’archivio diviene la prospettiva attraverso la quale costruire narrazioni controegemoniche in grado di restituire alle pratiche artistiche una vocazione critica. Sul libro e su questi temi proponiamo un intervento di Marcelo Expósito* .

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Vorrei iniziare la mia lettura de L’Inarchiviabile facendo un passo indietro. Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici (DeriveApprodi, 2021), ripubblicato da Marco Scotini due anni fa, problematizza il modo in cui l’egemonia neoliberista si esprime da diversi decenni come macchina per la produzione di pseudo-sfere pubbliche apparentemente democratiche. Artecrazia ne rende conto dal rovescio: attraverso la costruzione di sfere pubbliche alternative non neoliberiste nelle pratiche che emergono dalla congiunzione di arte, politica e attivismo durante il ciclo degli anni Novanta e Dieci. E in continuità con questo, in modo coerente e complementare, mi sembra che L’inarchivabile affronti il modo in cui l’evoluzione autoritaria del neoliberismo in crisi oggi distrugga anche quell’apparenza democratica, in maniera tale da normalizzare la storia dell’autoritarismo e l’autoritarismo della storia. Nel senso che, ad esempio, la naturalizzazione della violenza fascista, da un lato, e la difficoltà di assimilare le insurrezioni radicali dopo il 1968, dall’altro, sono le due facce dello stesso problema in Italia e nel resto d’Europa.

Un problema a doppia faccia che le pratiche dell’inarchiviabile, così come concettualizzate in questo libro, cercano di ribaltare: per snaturare sia l’autoritarismo della storia sia la naturalizzazione della violenza storica fascista, è necessario riattivare, aggiornare e riattualizzare le radicalizzazioni emancipatrici degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

Questo libro rappresenta un culmine straordinariamente complesso e potente di un fenomeno che ha cominciato a delinearsi in modo molto evidente a metà degli anni Novanta. Si tratta della svolta simultaneamente documentarista e archivistica dell’arte contemporanea, svolta che ha avuto un forte impulso con la realizzazione di documenta X nel 1997. Il primo libro citato da Scotini ne L’inarchiviabile è Mal d’archivio, di Jacques Derrida, che è stato pubblicato nel 1996. Derrida ha anche pubblicato, nel 1993, Spettri di Marx, che ha costituito una risposta al libro del politologo neoliberista Francis Fukuyama La fine della storia, pubblicato nel 1992. Il 1998 è anche l’anno in cui Jean-Luc Godard (parlando di archivi e di inarchiviabile) ha terminato le sue Histoire(s) du Cinéma. La rivolta zapatista ha avuto luogo in Messico nel 1994, facendo esplodere – allo stesso tempo – la teleologia storica della modernità e la pretesa neoliberista che la storia fosse stata sospesa perché l’ipotesi della lotta di classe era stata sconfitta con la caduta del muro di Berlino nel 1989.

La sofisticazione de L’inarchiviabile, quando si tratta di tessere le interconnessioni tra la svolta documentarista e la svolta archivistica dell’arte contemporanea, ci fa comprendere oggi retrospettivamente la profondità e l’altezza delle sfide che si stavano mettendo in gioco in quel momento originario della metà degli anni Novanta sulla natura della storia e sull’importanza emancipatoria di riattivare il discorso storico dopo il XX secolo.

Nello stesso modo in cui negli anni Novanta inizia a prendere forma nel sistema dell’arte un’articolazione tra la svolta documentaristica e quella archivistica, in un clima in cui la resistenza critica contro il neoliberismo iniziava ad acquisire per la prima volta uno spessore filosofico e un’articolazione politica globale, è iniziata di conseguenza anche un’articolazione tra la svolta archivistica e quella che potremmo definire come una «svolta periferica». Questa svolta periferica ha due aspetti opposti, ma che costituiscono il dritto e il rovescio di uno stesso fenomeno:

Uno, l’emergere principalmente di discorsi critici decoloniali e anticoloniali – a questo proposito, si dovrebbe ricordare la documenta11 di Okwi Enwezor e il suo team co-curatoriale – e più in generale le rivendicazioni critiche delle periferie geopolitiche costruite lungo l’intera storia della modernità capitalista; un’emergenza delle periferie che trova la sua epitome nelle rivoluzioni globali attorno al 1968, che in genere erano rivoluzioni di natura antimperialista – ma qui occorrerebbe pure segnalare come questa irruzione delle periferie geopolitiche vada di pari passo storicamente anche con le insurrezioni delle «periferie» razziali e sessuali.

Due, il crescente interesse del sistema globale dell’arte (sia il mercato privato sia il mercato istituzionale) per gli archivi delle pratiche artistiche radicali degli anni Sessanta e Settanta che erano state espulse dalla storia dalla controrivoluzione neoliberista e neoconservatrice degli anni Ottanta. Una controrivoluzione alla quale, non a caso, Scotini attribuisce un’importanza fondamentale: individua in essa l’origine della sua biografia intellettuale, disegnandone una bella immagine nel libro quando afferma che la sua dedizione alle pratiche dell’inarchiviabile deriva dal suo originario desiderio di invertire la massiccia criminalizzazione che subì la militanza italiana post-68 quando fu sottoposta a processi e fascicoli giudiziari. Scotini si riferisce così implicitamente al modo in cui studiosi come Allan Sekula hanno individuato il costitutivo stretto rapporto tra fotografia/archivio/classificazione e controllo istituzionale delle soggettività non normative – cioè tra fotografia e polizia, per dirla in breve alla maniera di Jacques Rancière – nel fervore dello sviluppo industriale capitalista alla fine dell’Ottocento.

L’effetto che il mercato globale dell’arte ha avuto dagli anni Novanta su questi archivi è duplice. Da un lato li disintegra: li disperde, separandone le componenti, trasformando in oggetti d’arte commerciabili quelli che in origine erano materiali che formavano una parte organica e inscindibile delle pratiche artistiche anticapitaliste, antipatriarcali, anticoloniali. Dall’altro, interi archivi si reificano: diventano volumi di materiali istituzionali che, per fortuna, stanno finalmente acquistando visibilità, ma congelati nel tempo in modo tale che il loro potenziale critico per il presente risulti neutralizzato. Non a caso le pratiche archivistiche, critiche e curatoriali sviluppate da Scotini a partire dal 2004, di cui questo libro dà conto, suppongono esattamente un contromodello di questa duplice tendenza a disgregare e a reificare gli archivi, per anni invisibili, delle pratiche radicali degli anni Sessanta e Settanta. Si pensi principalmente alla sua curatela della mostra del 2016 che ha dato origine a questo libro, e che si è svolta in questo stesso centro d’arte FM: L’inarchiviabile. Italia anni ’70, ma anche alle precedenti mostre del ciclo Disobedience Archive, archivio video-cinematografico in crescita, mobile e transnazionale, ancora in corso, dalla sua prima versione a Berlino nel 2005 all’ultima della 17a Biennale di Istanbul nel 2022. Naturalmente, entrambi i casi sono evidenziati in questo libro.

Voglio infine richiamare l’attenzione sul punto seguente: non a caso una parte significativa degli archivi e delle pratiche attorno alle quali si combatte la battaglia tra questi diversi modelli e contromodelli di recupero archivistico ha avuto origine nei paesi del Sud Globale (come è stato il caso notevole dell’America Latina) o in paesi che, come la Spagna o l’Italia, in cui possiamo storicamente considerare in modo ambivalente il rapporto tra Nord e Sud, centro e periferia, colonizzatori e colonizzati, dominanti e subalterni. Il modo ostinato con cui Scotini si è dedicato a produrre contromodelli di riattivazione archivistica delle pratiche radicali italiane degli anni Sessanta e Settanta – dei suoi archivi – non può essere considerato affatto un interesse nazionalista. Piuttosto si tratta di una forma di consapevolezza molto acuta che la frequentazione del favoloso laboratorio estetico-politico italiano (estetico-politico in senso guattariano, a cui Scotini si riferisce anche nel libro) è un fattore vitale oggi. Da questo punto di vista Scotini e il suo libro si trovano proprio al crocevia dell’insieme dei problemi comuni che ho richiamato in questo intervento: 1) la disputa su come ricostruire un nuovo senso comune emancipatorio, eterogeneo e non lineare, ma neppure sospeso dalla storia; 2) la disputa su come ricostruire un immaginario geopolitico che capovolga l’ordine globale imperante durante il breve ciclo del neoliberismo, e naturalmente nel lungo ciclo della modernità capitalista, patriarcale e coloniale; 3) la concezione del lungo ‘68 italiano come un modo peculiare di rispondere all’appello di Derrida non solo rispetto al «male d’archivio», ma anche agli spettri di Marx. 4) l’evocazione, attraverso le pratiche dell’inarchiviabile, del fantasma delle insurrezioni emancipatrici, che ci permette di contrastare quegli altri fantasmi di violenza autoritaria per i quali, purtroppo, anche l’Italia è stata in passato, ed è ancora nel presente, un laboratorio.

*Testo tratto dall’intervento di Marcelo Expósito in occasione della presentazione del libro di Marco Scotini «L’inarchiviabile. L’archivio contro la storia», che si è tenuta a Milano presso FM Centro per l’Arte Contemporanea il 20 aprile 2023, a cui hanno partecipato, insieme all’autore e a Marcelo Exposito, Marcella Campagnano, Ugo La Pietra e Massimiliano Guareschi.

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