Dal diritto alla città alle città ribelli

Né Mafia-Capitale, né Capitale-Mafia

Claire Fontaine, Pay Attention Motherfucker (Neon) 2006
Claire Fontaine, Pay Attention Motherfucker (Neon), 2006.

C’était comme ça, en 1789. Tout est à réinventer !
#NuitDeboutPartout

Le linee dello sfruttamento sono, nelle città e nelle metropoli, linee di divisione sociale e spaziale. Lo spazio, la sua organizzazione, non è una premessa, ma una posta in gioco dell’azione politica istituente 

Il claim – o, come pure è stato detto, il «significante vuoto» – del diritto alla città, ha ottenuto un elevato grado di circolazione all’interno dei movimenti, almeno a partire dal 2011, esemplificando non solo alcune delle principali istanze rivendicative, ma un mutamento della stessa forma-movimento su scala globale. Le linee dello sfruttamento sono, nelle città e nelle metropoli, linee di divisione sociale e spaziale. Lo spazio, la sua organizzazione, non è una premessa, ma una posta in gioco dell’azione politica istituente. L’interminabile marzo francese è la dimostrazione più lampante di questo carattere, immediatamente creativo di spazio, delle lotte. Le piazze occupate non sono l’epicentro fisico di queste lotte, ma una delle forme politiche finalmente scoperte, mentre ricercano e trovano convergenze.

Negli ultimi mesi, un secondo claim, quello delle «città ribelli», sta ottenendo altrettanta circolazione, all’interno delle nuove sperimentazioni municipaliste nel sud Europa. Messi insieme, l’uno accanto all’altro, e guardando alla città di Roma, questi due claim ci aiutano a delineare la genesi e l’attuale sviluppo di quel percorso politico che lo scorso 19 marzo, in Piazza del Campidoglio, si è autonominato come Decide Roma. Il fatto, poi, che «diritto alla città» e «città ribelli» rinviino anche a due importanti opere che hanno avuto il merito intrecciare studi urbani e marxismo eterodosso, la prima di Henri Lefebvre, la seconda, più recente, di David Harvey, è rilevate nella misura in cui ci segnala che le lotte metropolitane hanno a cuore non solo la produzione di spazio, ma anche quella di sapere, vero campo di contesa con il progetto neoliberale, e con le sue macchine amministrative, tecniche e spoliticizzanti.

Volendo fare sinteticamente il punto sul percorso DecideRoma, occorre distinguere due momenti: quello della gestazione e quello della sua estensione. La prima fase si colloca nel corso – o meglio, nel decorso – della sciagurata giunta Marino, quando cominciano ad arrivare le prime avvisaglie di sgombero degli spazi sociali. Nasce così la Rete per il Diritto alla Città, che da subito si fa carico di un progetto politico più ampio: la resistenza è la precondizione, non lo scopo della Rete. Allo sgombero di Scup a mezzo di ruspe si risponde con l’istantanea rioccupazione di un nuovo spazio. La serie negativa di ritirate e sgomberi accumulati in quel periodo viene così interrotta.

A caratteri cubitali viene scritto sulle mura della ferrovia: Né pubblico, né privato. Comune! Un’indicazione programmatica, che dopo un anno e mezzo diventerà il simbolo di una battaglia sul tema del decoro urbano 

Quando, nel dicembre 2014, scoppia la bolla giudiziaria e mediatica di Mafia Capitale, la Rete convoca un corteo, ancora piccolo nei numeri, ma capace di delineare una traiettoria di lungo periodo. Si afferma, in quel corteo, contro le sirene legalitarie e le tonalità emotive prevalenti in città, fondate sul risentimento e sul moralismo, che corruzione è sottrazione della decisione dei molti a favore della decisione dei pochi e, di conseguenza, sottrazione di ricchezza sociale. Lo slogan che apre il corteo recita: né Mafia-Capitale, né Capitale-Mafia. La duplice critica è rivolta al sistema dei partiti e, più in profondità, alla variante sud-europea del progetto neoliberale, che organizza una specifica forma di estrattivismo, che coniuga rendita e corruzione. Quello stesso corteo si ferma a San Lorenzo, dopo aver sostato a lungo a Porta Maggiore. A caratteri cubitali viene scritto sulle mura della ferrovia: Né pubblico, né privato. Comune! Un’indicazione programmatica, che dopo un anno e mezzo diventerà il simbolo di una battaglia sul tema del decoro urbano, battaglia che non si è ancora conclusa. Nell’estate del 2015, al Pigneto, si sperimenta poi una TAZ, annunciata, con una campagna virale, come l’apertura di una nuova ZTL (Zona Temporaneamente Liberata).

La seconda fase, quella dell’espansione del percorso, si apre invece nel gennaio 2016. In poche settimane si determina un vero e proprio salto qualitativo. La destituzione dall’alto di Marino e l’instaurazione di un vero e proprio governo tecnico, provocano una stretta autoritaria (altrove abbiamo parlato di passaggio dalla politica alla police, preferendo le categorie di Rancière ai più edulcorati studi sulla governance urbana). Cominciano a piovere centinaia di provvedimenti di sgombero, accuse di morosità, azioni amministrative. Ad essere colpiti sono i centri sociali così come le tante associazioni che organizzano dal basso welfare, cura, produzione culturale, lavoro cooperativo. In sostanza, si assiste a una riorganizzazione disciplinare dell’intera filiera autogestita della produzione dell’uomo per mezzo dell’uomo.

Se da un lato la legalità costituzionale è usata come scudo, contro la «legalità» amministrativa, dall’altro si afferma l’esistenza di un «diritto sorgivo», che chiede la validazione istituzionale, ma che è già diritto, prima di tale validazione 

Nelle assemblee e nei gruppi di lavoro che si costituiscono si afferrà presto la radicalità della situazione e si comincia a parlare di «scomposizione dei poteri». Due prefetti, tra di loro in contrasto, un nucleo speciale della polizia municipale che scavalca le istituzioni municipali nell’esecuzione degli sgomberi, la Corte dei Conti che esercita un vero e proprio potere d’indirizzo politico sull’amministrazione. Si costituisce così la campagna «Roma Non Si Vende», frutto della confluenza di diversi percorsi cittadini, presenti nelle periferie come nei quartieri (mai del tutto) gentrificati: comitati di quartiere, associazioni, spazi sociali, lavoratori comunali, dei servizi e dell’accoglienza, sindacati di base. La campagna riesce a costruire l’imponente corteo del 19 Marzo. Parallelamente, nasce la Carta di Roma Comune, dispositivo programmatico e ricompositivo. La Carta non ricalca il tradizionale lessico dei diritti, ma ingaggia una lotta per il diritto. Se da un lato la legalità costituzionale è usata come scudo, contro la «legalità» amministrativa, dall’altro si afferma l’esistenza di un «diritto sorgivo», che chiede la validazione istituzionale, ma che è già diritto, prima di tale validazione. La Carta tutela così l’autonomia delle realtà sociali e «ne promuove lo sviluppo in quanto luoghi di autogoverno» (Undicesimo Principio).

Nell’ultimo mese, il percorso ha poi incontrato altre esperienze, Massa Critica di Napoli e Barcelona en Comù. Il primo momento di incontro si è tenuto a Barcellona. Il secondo in Place de la République a Parigi, nell’ambito delle due giornate di assemblea internazionale convocate dalla Nuit Debout, il terzo, sabato 21 marzo, in Piazza San Domenico a Napoli. Una prossima tappa romana è già prevista. Questi tre momenti hanno rappresentato delle prove generali di una convergenza o di una confluenza, secondo che si voglia optare per la terminologia che ricorre nelle piazze francesi oppure in quelle muncipaliste spagnole.

Si tratta di tre esperienze molto differenti tra loro. A Barcellona il percorso sorto dopo il 15M, l’esperienza della PAH (Plataforma de Afectados por la Hipoteca), vera e propria forma di sindacalismo sociale metropolitano, le assemblee di barrios, ha poi dato «l’assalto alle istituzioni», non per prenderle così come sono, ma con l’obiettivo di decentrare il potere, con tutte le difficoltà e limiti che questo obiettivo comporta. A Napoli, invece, il percorso si organizza in assemblee nelle municipalità, mantenendo intatta l’autonomia nei confronti di un’amministrazione pure molto avanzata e spregiudicata. A Roma, se il percorso si sta articolando in maniera non dissimile da quello napoletano – con assemblee di quartiere e gruppi di lavoro – fino ad ora ha avuto modo di sperimentarsi solo in un contesto di amministrazione commissariale. Ma già nella grande assemblea del 14 maggio al Cinema Palazzo ha presentato un programma di autogoverno, molto più avanzato di quello dei candidati sindaco presenti. Nonostante la diversità dei contesti, da questi incontri sono emersi  notevoli punti di confluenza/convergenza:

Alla sovranità si sostituisce l’autonomia, intesa sia come «darsi le regole sa sé» sia come «indipendenza relativa» 

1. La possibilità di mettere in rete, o meglio, di federare le città ribelli (processo da pensare in modo necessariamente estensivo, coinvolgendo nuovi municipi e nuove città) è la strada privilegiata per rimuovere il blocco, che sul piano dell’immaginazione neoistituzionale, si è prodotto dopo la débacle greca. La forma della federazione viene individuata come l’unica possibile: alla sovranità si sostituisce l’autonomia, intesa sia come «darsi le regole sa sé» sia come «indipendenza relativa»; il tema della rottura delle compatibilità imposte dall’Unione Europea può essere così ripensato, senza rantoli sovranisti o nazionalisti, partendo dal rifiuto del debito delle città. Consolidando così, sul piano orizzonte, forme di contropotere, in grando di accumulare forza, prima di ogni ipotesi di “verticalizzazione”.

La partecipazione è immediato rapporto/scontro tra «il basso» e «l’alto» 

2. Le esperienze neomunicipaliste conferiscono nuova centralità alla partecipazione, riportata al suo senso originario di pars capere. A differenza del passato, anche recente, la partecipazione non si presenta più come funzione integrativa o compensativa del circuito rappresentativo, ma come istanza immediatamente decisionale, e dunque alternativa alla rappresentanza «fiduciaria». La partecipazione è immediato rapporto/scontro tra «il basso» e «l’alto». Inoltre, il processo partecipativo-decisionale si articola in termini pienamente tecnopolitici, se con quest’ultimo termine intendiamo l’incursione nello spazio fisico, digitale e mediatico. La riscoperta del piacere della corporeità, dell’esperienza sensibile, e la costruzione di un ecosistema digitale, segnato da flussi e passioni affermative, sono immediatamente interconnessi.

Se il diritto moderno si basava sul grande dualismo tra beni e servizi, oggi è l’attività di uso del bene a determinarne la sua natura 

3. Infine, le esperienze neomunicipaliste stanno ricodificando la tematica dei commons, oltre la (falsa) alternativa tra beni comuni naturali e artificiali. I beni comuni urbani sono il prodotto dell’attività sociale. Se il diritto moderno si basava sul grande dualismo tra beni e servizi, oggi è l’attività di uso del bene a determinarne la sua natura. Al di là della titolarità della proprietà, ciè che importa è l’uso che di quel bene viene fatto. In questo modo, il diritto vivente diviene occasione di riunificazione delle lotte metropolitane per il sindacalismo sociale e le istanze democrazia reale. Le assemblee popolari, in prospettiva, dovranno sperimentarsi come prototipi consiliaristi.

Solo pochi appunti di lavoro, che nascono da un percorso che è un’opera viva. Per concludere, riportiamo un ulteriore incontro, del tutto aleatorio. Mentre proseguono i lavori di scrittura e condivisione della Carta, la scorsa settimana ci è stata recapitata una lettera, e un documento risalente al 1993. Si legge nella lettera: «Come d’accordo invio due documenti di Franco Piperno speditimi il 16.10.1993 sull’autogoverno di Cosenza e la tematica della democrazia diretta, la città come bene comune per eccellenza». La rilettura delle dodici tesi ciromiche sul buon governo di Cosenza meriterebbero un momento a parte. Il titolo di quelle tesi ci sembra che esprima lo spirito del tempo: «Il potere alla città, la potenza ai cittadini».

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