Dal territorio all’ambiente

Agronomi a lezione di paesaggio

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Andreco, Cinque rami, 2017

Devo ancora decidere se il libro di Simonetta Lorigliola – È un vino paesaggio. Pratiche e teorie di un vignaiolo planetario in Friuli – è un caleidoscopio in technicolor o una buona ratatouille (storia, vita vissuta, Friuli, Lorenzo, Federica, vini, terra, vigne, gastronomia, frico, arte, Poldelmengo, ecologia e altro con prosa, e con mente, veronelliane).

Agronomia: qui salta fuori l’agronomia. Una disciplina nata e cresciuta per l’uomo, per passare quando i tempi lo richiedevano dall’empirismo alla scienza, tanto è vero che a nessun agronomo hanno intitolato una scuola elementare, mentre a chi ha inventato la bomba atomica, e se ne è compiaciuto, hanno dedicato vie e piazze e scuole: proprio dove la gente s’ammucchia e s’incontra.

Cinquanta anni fa, ma dovevate proprio ricordarmelo?, studiavo agronomia. Era ecologia applicata, quando il termine ecologia non era ancora noto. E ci insegnavano il ciclo del carbonio e il ciclo dell’azoto e il letame, ricchezza, andava trattato e accudito come un bambino. Il libro di Barry Commoner, Il cerchio da chiudere, arrivò in Italia (Garzanti), solo nel 1977 (e sono quarant’anni), ma non ebbe certo seguito tra i tecnici dell’agricoltura. Erano gli anni in cui la chimica e la meccanica facevano chiudere le aziende agricole (era il progresso, non era la perdita di posti di lavoro).

A febbraio e marzo, giornate come oggi di bel sereno, nelle campagne sentivi vocìo, grida, chiacchiere, canti, risate, vita… Ora è il più cupo silenzio che attende la barra del diserbo e il primo atomizzatore dell’anno.

Ogni tanto qualcuno ritorna, e Lorenzo Mocchiutti è uno di questi. Per lui la scelta dell’agronomia è stata obbligata, anche se quella scolastica era ormai degenerata nelle ricette NPK. Perché idee, ideali giovanili, scelte «alternative», filosofia di vita, etica personale (merce ormai quasi introvabile), dovere di genitore (eh, diamine, il futuro del pianeta e della società preoccupano, vero?) non gli consentivano di entrare nel mainstream neoliberista che dilaga anche nel giovanilismo del vino. Dalla sua c’è intelligenza e acume (ciò non scusa gli altri), capacità di osservazione, mente sgombra dai lacciuoli dell’ideologia produttivista di consorzi agrari, coldiretti, club 3P e compagnia cantante degli anni Sessanta (altro che ’68!).

I microbi li devi saper prendere, blandire, minacciare, indirizzare, instradare: lavorano per te da mane a sera e non sono neanche sindacalizzati, ma sono invisibili 

Lorenzo ha capito che esistono i microbi quando la biologia del terreno, nell’insegnamento e nel mondo agricolo, era stata surclassata, defenestrata e strozzata dalla chimica dei concimi (che te la impari in mezz’ora). E ha capito che i microbi, ma guarda che roba, da non credersi, chi l’avrebbe mai detto, esistono anche in cantina, proprio dentro le botti. E che pilotare i microbi non è un fatto meccanico che va a inerzia psichica, non è un’automobile o un bombardiere; i microbi li devi saper prendere, blandire, minacciare, indirizzare, instradare: lavorano per te da mane a sera e non sono neanche sindacalizzati, ma sono invisibili. Prova a far decollare un’astronave che non si vede, non si tocca, non si palpa, non fa rumore. Sono piccoli ma potenti i microbi, perché più son piccoli più superficie formano e il lavoro che fanno è proporzionale alla superficie che sviluppano. E non si vedono, dannazione.

E quelli del terreno, biomassa tellurica, si palesano ancora meno a chi non ha un virtuale microscopio collegato al cervello. E il letame, ch’era il loro cibo preferito (intendo di quelli che lavorano per noi) è scomparso perché le vacche sono morte, come il vino di Jonathan Nossiter.

Che fare per la sostanza organica, l’humus tanto dimenticato (e sia detto a loro ludibrio) persino vituperato dai chimicoaccademici? E se le viti hanno bisogno di riprendersi ci vorrà pur dell’azoto: nel letame ce n’era mezzo chilo per quintale, ma il letame è ormai leggenda da Once upon a time... A Lorenzo avrei consigliato i sovesci, sono un maniaco dei sovesci.

Lui, che è intelligente e ogni giorno ragiona dacché il sole illumina i ronchi, ha scartato l’ipotesi (lavorazioni del terreno con tutti i loro inconvenienti) e ha optato per un’altra tecnica dell’antica agronomia: la trasemina (= sparare sementi di ciò che voglio io in un prato che è venuto come vuole lui reagendo a umani maltrattamenti). Sementi di una leguminosa, of course, che faccia le veci del letame, cioè della vacca (per politesse borghese detta mucca). E non serviva andare lontano: lì nei pressi, a Premariacco (i nomi che finiscono in –acco sono noti ai maschi italiani che hanno fatto il militare quassù), è riuscito a ottenere dei semi dell’ecotipo adatto. Una semente che non si fa quasi più perché mancano le vacche (l’utilizzatore finale della superdietetica erba medica) e perché quella sementiera è diventata un’industria con tutte le regole a pro dei grossi gruppi.

E Federica Magrina che ci fa in una vigna? Che volete che ci faccia un’antropologa? Porta la cultura. Il mondo contadino aveva grande spessore culturale, ma non ne era conscio. Federica porta la cultura in modo cosciente.

Ogni azienda è diversa e ogni contadino (lasciatemi questo nome antico) deve far lavorare le proprie meningi, perché l’agronomia è ragionamento continuo su basi che cambiano nello spazio e soprattutto nel tempo 

Agronomia e cultura: un modello da trasferire! Sì, ma non in modo pedissequo, perché ogni azienda è diversa e ogni contadino (lasciatemi questo nome antico) deve far lavorare le proprie meningi, perché l’agronomia è ragionamento continuo su basi che cambiano nello spazio e soprattutto nel tempo. Il Théâtre di Olivier de Serres (il padre di tutti gli agronomi, ma loro non lo sanno) è un fatto pedoclimatico, cambia ogni 50 metri e cambia ogni anno. Niente ricette buone per tutte le occasioni e per tutte le stagioni. Come le borsette delle signore. L’agronomia è ragionamento continuo, compromesso, male minore, massimo vantaggio col minimo sforzo, è economia ché bisogna pur vivere (ma con la coscienza a posto) ed è soprattutto economia per l’ambiente, per l’umanità che bisogna pur tentare di far sopravvivere. Nel libro non vi sono perle di saggezza; emerge, invece, quella saggezza che è il concentrato di plurisecolare sapienza contadina.

E le api? Operaie per definizione. Ora che Mirafiori e Lingotto sono delocalizzati ci restano solo gli alveari. Stakanoviste e senza manie di profitto, senza falsi in bilancio, quindi pericolose, quindi nel mirino delle multinazionali coi neonicotinoidi. A scuola ci dissero che servono per l’impollinazione, Lorenzo dimostra che sono delle infermiere indefesse per l’uva. Un popolo di amazzoni del lavoro, senza bandiere, senza nazionalismi, solo amiche disinteressate, quindi appartenenti a un mondo che non c’è più. La finanza non capirà mai le ragioni delle api.

Mi è piaciuta la presentazione dei vini Vignai da Duline. Se c’è qualcosa di ripetitivo, irritante, scostante, palloso, segno dell’impotenza culturale e dell’infingardaggine del narrante è la presentazione dei vini aziendali che la detestabile letteratura del settore continua colpevolmente a propinarci. Qui, finalmente, qualcosa di diverso.

Trovo che l’enogiornalismo sia spesso becero, prezzolato, autoreferenziale, sbrodolante; non odora di terra e di lievito, puzza di mercaptani, non sa che cosa sia la luce del mattino filtrata dalle foglie nella vigna sul ronco, né il sole che al suo declino si attarda sull’ultimo filare del Pinot nero ché un ultimo raggio può fare la differenza. Giurie, giudizi, classifiche, bicchieri (ormai son tutti calici), assaggi, pompamagna, ma niente polvere di terra sulle scarpe. Il vino nasce per spontanea fusione di marziani frutti sconosciuti in luoghi, pure quelli superficialmente noti, detti cantine.

Ecco la nuova sfida per chi scrive di viti e vini. Ed è il messaggio che ci manda l’autrice Simonetta Lorigliola: qualche volta, al posto di «territorio» mettiamoci «ambiente» 

È l’incultura dell’agricoltura che domina l’enoica letteratura. E il mondo del vino si avvale tuttora di «una comunicazione vecchia e stanca» (lo dice Federica nel libro a p. 149), obsoleta, che stufa anche i santi. Un altro Luigi Veronelli non torna, ma ciò che si chiede è solo onestà intellettuale e, invece che ripetere incessantemente «territorio», tormentone e mantra e rosario che scaturisce da una invisibile ruota della preghiera, è meglio sporcarsi le scarpe. Ecco la nuova sfida per chi scrive di viti e vini. Ed è il messaggio, per nulla subliminale, che ci manda l’autrice Simonetta Lorigliola. Qualche volta, al posto di «territorio» mettiamoci «ambiente».

Il libro offre nondimeno un messaggio di salvezza per la viticoltura e, se lo capite, anche per l’agricoltura del Friuli. Una regione piccola in cui una politica agricola aperta all’ecologia e alla vera economia avrebbe buone probabilità di successo. Solo per il Friuli? Diamine no, ma io sono friulano e non posso parlarvi del Veneto o del Litorale adriatico (improvvidamente detto Venezia Giulia).

Ho fatto il possibile per non dirvi i contenuti del libro (la peggior cosa è sentirsi raccontare un film prima di vederlo); un trailer deve solo buttare un sasso nello stagno e incuriosire i molli batraci che lo frequentano.

Un unico appunto: a pagina 23 si dice che il frico ha un etimo misterioso. No, si tratta di un palese francesismo (fricot, come fricandeau). Ma i friulani non lo sanno; proprio loro che non hanno voluto chiamare Blanc il Tocai perché lo ritenevano un francesismo. In realtà il Blanc (e il Blanc de Blancs) francesi sono dei palesi friulanismi. Mandi frute (indirizzato a Simonetta).

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