Disidentificarsi dalla donna

Monique Wittig e il femminismo materialista

Florencia Martinez gda_donnedicolore-35
Florencia Martinez, Carritos: la leggerezza (2015) - Foto di Giovanni De Angelis.

Questo articolo è apparso sulla rivista Le Nouveau Magazine Littéraire il 25 settembre 2018. Sam Bourcier ringrazia Federico Zappino per la traduzione dal francese.

Il femminismo della differenza è moribondo. È una questione generazionale. È anche per questo motivo che l’articolazione del femminismo attorno alla «donna» – a «la-donna» avrebbe scritto Monique Wittig, con un trattino –, o al «mito della donna», non regge più: esistono le donne ed esistono forme della femminilità non ancorate alla «biologia», e ancora meno definite dalla maternità. La femminilità, del resto, vacilla come la maschilità: non appartiene né alle donne né agli uomini. E con buona pace delle femministe trans-escludenti, vi sono molte persone trans* che sono femministe, e il transfemminismo è ampiamente diffuso. Il residuo essenzialista e biologizzante del femminismo della differenza – quella corrente psicoanalitica del femminismo riservata a un’élite di donne bianche ed economicamente benestanti, molto influente in Europa, in America Centrale e in Sudamerica fino agli anni Novanta – si annida oggi nel femminismo riformista, nel femminismo governativo, o in quello sovranazionale (all’interno, cioè, delle organizzazioni non governative, dell’Onu o dell’Unesco), con il suo afflato stupidamente paritario e, in quanto tale, ben arroccato sulla differenza sessuale. Ecco cosa resta oggi del femminismo della differenza, che per quanto affaticato continua a essere tuttavia egemonico – innanzitutto, a livello di rappresentazione mediatica.

Le donne, al plurale, le/gli omosessuali, le lesbiche, le persone migranti, quelle giovani, e precarie: ecco chi ci ricorda invece che il femminismo non è né la celebrazione né la protezione de «la-donna» bensì la persistenza del materialismo all’interno del femminismo, come forza politica – nel senso esteso che il concetto di «politica» assunse negli anni Settanta, con l’apparizione di quei nuovi soggetti politici. Anni in cui si assiste all’emersione di nuove forme di vita e di organizzazione politica che scommettono sulla dimensione collettiva (sul «movimento», come si diceva allora), sulle assemblee generali e sulle azioni dimostrative, come quella sotto l’Arco di Trionfo a Parigi, o quella dell’assemblea non mista all’università di Vincennes. Lontano, molto lontano dalla cattura del desiderio militante e femminista che, troppo spesso, riuscì a conseguire Psych et Po – gruppo settario, dedito all’ossessione maternalista e genitalista di Antoinette Fouque, nonché alla privatizzazione del movimento. E agli antipodi anche rispetto alla sindrome legalitaria della Lega dei diritti delle donne proposta nel 1973 da Anne Zelensky e Simone de Beauvoir, ancora piuttosto maldestra rispetto all’azione politica femminista.

«Siamo tutte frigide», «siamo tutte isteriche», «siamo tutte puttane»: ecco cosa si poteva leggere sulle magliette delle partecipanti all’assemblea non mista di Vincennes dell’aprile del 1970. E si trattava di un’idea di Wittig. Wittig la troveremo anche, insieme ad altre, a portare una corona di fiori alla memoria di una persona ancora più ignota del milite ignoto: sua moglie. Nel mentre, firmava il testo collettivo Pour un mouvement de libération des femmes, e lo pubblicava su «L’Idiot International», diretto da Jean Edern Allier1. Insieme a molte altre, Wittig militava nel femminismo autonomo e materialiste delle Femministe Rivoluzionarie. A differenza delle correnti riformiste e differenzialiste alla francese (quelle, cioè, che si servivano strumentalmente della psicoanalisi per appropriarsi del potenziale politico dei gruppi di autocoscienza, e per distruggerlo), quella materialista – fondata sulla revisione femminista del marxismo – proponeva una lotta politica antagonista. E ciò perché vi era evidentemente un antagonismo di classe tra la classe delle donne e quella degli uomini, con tutto il peso che in essa vi giocava la differenza sessuale – dalla quale dipende la divisione iniqua del lavoro, il «lavoro servile», il lavoro gratuito della casalinga –, ma vi era anche un antagonismo più ampio: quello cioè concernente il modo in cui le donne e le lesbiche – che, come ha dichiarato Wittig, «non sono donne»2 – lottavano contro il capitalismo e contro le varie forme di oppressione. «Che l’antagonismo si manifesti in tutta la sua luce»: non c’è frase più appropriata di questa, pubblicata su «L’Idiot International», per riassumere il significato privato, politico e collettivo del femminismo rivoluzionario e del materialismo lesbico. Tre sono le pratiche decisive portate avanti da Wittig che consentono di corroborare oggi il lavoro politico dei collettivi e il femminismo biopolitico, queer, transfemminista, materialista, autonomo.

La prima consiste nel sabotaggio epistemologico senza precedenti, che riguarda tanto il canone letterario (si pensi a opere come Virgile, non o Le brouillon pour un dictionaire des amantes), quanto il canone «scientifico», e sui cui Wittig ha gettato uno sguardo eminentemente politico, e inedito, su tutte le discipline (sulla storia, l’antropologia, la psicoanalisi, la linguistica ecc.), al punto che la si dovrebbe paragonare a un Foucault. Se l’eterosessualità è un regime politico – non semplicemente una forma di sessualità, ma un sistema sociale che giustifica la subordinazione delle donne in tutte le sfere della società, e che si fonda sulla complementarietà uomo-donna – allora occorre distruggere tutte le politiche del sapere che la supportano, ossia quel «conglomerato di ogni genere di discipline, teorie e idee che definisco pensiero eterosessuale»3.

La seconda pratica è la guerra mossa da Wittig nei riguardi delle politiche del pronome personale, la quale traversa da parte a parte la sua opera letteraria, e di cui possiamo oggi godere gli effetti benefici all’interno dei dibattiti sulla scrittura inclusiva, o sulla proliferazione delle autonominazioni trans* o non binarie. Nel romanzo del 1964, L’Opoponax, Wittig ha lavorato adoperando esclusivamente il pronome indefinito, non marcato dal genere, «on», mentre invece ne Les Guérillères (1969) ha universalizzato il pronome plurale «elles» («esse»), contro «ils» («loro»), solitamente usato per riferirsi all’umanità genericamente intesa, e tutto ciò l’ha fatto all’unico scopo di sopprimere il genere (che, per Wittig, non è che la versione linguistica della categoria politica di sesso) nel linguaggio. Con Wittig, la differenza sessuale e i generi diventano un campo di battaglia.

La terza, infine, consiste nella soggettivazione per mezzo di una disidentificazione. Di fronte a un marxismo a cui non importa un fico secco della questione del «soggetto» e di fronte a un femminismo invece lacerato dalla questione del soggetto e dell’oggetto del femminismo stesso, Wittig mette il carico da novanta con un formidabile gesto di disidentificazione: «le lesbiche non sono donne». E anche le femministe, non possono continuare a essere ciò che è stato loro imposto di essere, continuando a svolgere i compiti di riproduzione senza battere ciglio. Per essere femministe, infatti, occorre disidentificarsi dalla donna. Mentre il collettivo Psych et Po era tutto impegnato a sviluppare una «scienza delle donne», la «femminologia», o la «gineconomia», le brecce aperte dalla disidentificazione iniziavano invece a innescare tutta una serie di soggettività differenti, trasversali, trans-generi, di trasformazione della femminilità e della maschilità. Per dirla in italiano, organizzare delle «separ/azioni» [sépar/actions] conduce a delle riappropriazioni, a delle trasformazioni, a forme di vita diverse per i collettivi, nella loro moltiplic/azione.

L’obiettivo? La rivoluzione. O, almeno, la giustizia, e la trasformazione sociale. Le nuove soggettività sono quelle che diffondono la forza di abbandonare l’eterosessualità (e con essa, anche la famiglia tradizionale), e il coraggio di adottare una posizione antagonista. Fuori dalla fabbrica e fuori dalla case, né operaie né madri: «guerrigliere». Solidali nei riguardi di chi sciopera, proprio come le partecipanti all’azione sotto l’Arco di Trionfo, il 26 agosto del 1970, solidarizzavano con le donne in sciopero negli Stati Uniti – e solidali nei riguardi di chi sciopera dal genere, come accade nell’Italia femminista del XXI secolo. Ecco ciò che connette oggi le lotte, il pensiero, le forme di vita, di sopravvivenza e di organizzazione dei corpi lesbici, autonomi, materialisti, femministi, queer, transfemministi, e biopolitici, in Francia e altrove. Attraverso Wittig.

Note

Note
1Cfr. Marcia Rothenburg, Margaret Stephenson, Gille Wittig, Monique Wittig, Per un movimento di liberazione delle donne (1970), trad. it. di Deborah Ardilli, in Ead., a cura di, Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici. 1964-1977, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 231-251 (N.d.T.).
2Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale (1980), in Ead., Il pensiero eterosessuale, a cura di Federico Zappino, ombre corte 2019, p. 53.
3 Ivi, p. 47.

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