Estetica e politica dell’orfismo

Un libro di Gianni Carchia

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Antonio Della Guardia, Alfabeto del potere (2018). Neon light - Foto di Danilo Donzelli.

Nelle tesi Sul concetto di storia Walter Benjamin proponeva la nozione di immagine dialettica, immagine fugace e involontaria del passato in cui appare il possibile che in esso non si è compiuto. Questa temporalità descritta in termini estetici è il contro-movimento che sottrae la storia alla sua continuità cieca, rendendo possibili immagini differenti da quelle della tradizione e riattualizzando le chances perdute. Proprio a Benjamin era dedicata la tesi di laurea di Gianni Carchia (1947-2000), come anche il suo ultimo libro pubblicato in vita, dal titolo Nome e immagine. E se il filosofo tedesco affermava le potenzialità rivoluzionarie del passato, per cui ogni momento possiede una vitalità residua, che va incontro ad una possibile azione redentiva, si potrebbe caratterizzare in questo senso tutta l’attività di ricerca di Carchia riguardante il pensiero antico.

Il libro Orfismo e tragedia – pubblicato la prima volta nel 1979 e oggi primo volume dell’edizione delle Opere complete di Carchia presso Quodlibet, a cura di Monica Ferrando – ha al centro uno di quei momenti dell’antichità misconosciuto dalla storia dei vincitori e carico di possibilità inesplose. Fin dalla sua comparsa nel VI secolo a.C. la dottrina orfica, con la sua credenza nell’immortalità dell’anima, il vegetarianesimo, il rifiuto dei rituali sacrificali, propone un modo di vita, nello stesso tempo poetico e politico, in conflitto con tutto il mondo antico. Come scrive Julien Coupat nella sua postfazione Dialogo con i morti, l’orfismo rappresenta una «via minore», una «biforcazione misconosciuta» tra l’umanità mitica e aristocratica dell’Iliade e quella razionalista e democratica della città classica, ovvero tra una presenza al mondo non soggettiva, estranea alla coscienza, e una esistenza che introduce l’interiorità, la morale come riflessione, l’arte come rappresentazione.

La domanda iniziale di Carchia è allora: «perché in epoca già pienamente storica emergono in Grecia – con la sapienza e poi la tragedia – dimensioni religiose e filosofiche che appaiono per taluni più arcaiche di quelle omeriche, spesso assai più razionali?» (p. 36) Nel rifiutare la città e il suo sistema di valori, nel rifiutare il logos strumentale e la mediazione dialettica, l’orfismo propone un genere di vita che vuole destituire una civiltà nel momento stesso della sua istituzione, riconoscendo nel nuovo logos semplicemente «la secolarizzazione della ambiguità mitica alla quale finge di opporsi» (p. 38). Proprio come nella discontinuità benjaminiana della storia o nel tempo non spazializzato di Bergson, filosofo cui Carchia aveva dedicato vari saggi, anche qui, nella forma di vita proposta dall’orfismo, l’autore va a cercare le aperture del tempo storico, «lo specifico di una temporalità non richiamabile né alla esteriorità strumentale della memoria mitica, né all’interiorità tutta asservita al Logos della memoria dei filosofi» (p. 43).

Come l’orfismo propone quindi una via d’uscita, minore e misconosciuta, dall’alternativa mito-logos, così la tragedia secondo Carchia – che qui segue l’interpretazione di Bachofen e prende le distanze da quella di Nietzsche – si situa in una posizione intermedia e ambigua. Ma questa ambiguità va mantenuta, va tenuto fermo il vincolo tra dimensione rappresentativa e teatrale e azione politico-religiosa, evitando cioè il duplice rischio di considerare la tragedia soltanto ritualità pura, culto, oppure, all’opposto, prodotto secolarizzato, fenomeno letterario, piacere disinteressato. «Solo in quanto è critica del mito e della ritualità, la tragedia può riuscire ad opera d’arte; al tempo stesso, opera d’arte essa è solo perché mantiene l’eco della cultualità che vanifica» (p. 55).

Come l’autore scrive nelle primissime pagine di questo testo, e come ribadirà in uno dei suoi ultimi libri, L’estetica antica, o nei suoi lavori sulla antropologia, è l’intreccio, la lotta con le altre sfere della esistenza umana ciò che conferisce all’arte nel mondo antico il suo carattere significativo e necessario, prima che lo sviluppo cristiano-borghese dell’estetica trasformasse la sua autonomizzazione in un alleggerimento, nello «svaporato contrassegno d’un ambito spirituale giurisdizionalmente formalizzato» (p. 21). Un’arte solida e potente, proprio perché al centro di dipendenze e condizionamenti, risultato della lotta con l’eteronomia, è ciò che l’autore cerca nel mondo antico e nello stesso tempo prospetta come nuovo inizio.

È evidente dalle pagine di questo libro che secondo Carchia l’antichità non sta dietro di noi, né davanti, ma è qualcosa di asimmetrico, da raggiungere con uno spostamento laterale e imprevisto. La possibilità di un vincolo saldo e fecondo tra diverse dimensioni, tra estetica e politica, tenute insieme non nell’armonia o in una mescolanza, ma nella tensione reciproca, è ciò che si può guadagnare con questo spostamento.

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