I repertori obliqui che ci abitano

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Nicole Gravier, Riflesso/FINE. Mythes et clichés. Fotoromanzi, 1978-79, collage su fotografia, cm 100x70

Il cuore segreto, e obliquamente esposto, di questo nuovo libro di Paolo Godani è la glossa apposta da Franco Fortini a un celebre apoftegma adorniano: «Dice Adorno: non si dà vita vera nella falsa. Correggerei (tutto sommato, con Lenin): non si dà vita vera se non nella falsa».

Nel libro di Godani sembra che Spinoza (e Deleuze e Proust e Musil; e Sebald e Agamben e Benjamin) – più che non il parentetico Lenin fortiniano – guidi un esercizio tanto improcrastinabile quanto gratuito: restituire la vita al tessuto di concetti e affetti che la rende apprensibile nel tempo – il presente – che è il nostro. Il che, molto più trivialmente, vuol dire: piantarla di scrivere satire su come si vorrebbe (o si dovrebbe) che fossimo, di infliggersi il dovere della critica (sia pure: facendo la critica della critica) e impegnarsi nella lodevole, e in fondo festevole, impresa di deporre l’omiletica (sempre saccente, sempre puritana) per capire, standoci, dove siamo e cominciare a immaginare come starci meglio.

Il terreno della ricerca è perciò presto tracciato: il sensibile. I sintomi da repertoriare, anche: le preoccupazioni che ci affliggono, i luoghi comuni che ci orientano. La terapia si trova strada facendo, se l’obiettivo, come pare, è quel poco di felicità, quel poco di verità che sono le promesse già esaudite di una vita. Dunque: restituire al deciduo e al banale, all’ordinario e al saliente – ingredienti primi di una vita – il loro spessore facendo a meno della loro profondità. Si comincia dal contorno della vita non per attingere una sua più segreta sostanza, un suo più recondito alimento: ma per riconoscere in quel che c’è bastevole alimento e sufficiente sostanza per una vita che è già comune (non essendoci, alla lettera, nulla – una cosa, una causa – da mettere in comune per fare della vita qualcosa di più di quanto già essa non sia).

Le tristi sociologie impegnate a dipingerci liquidi, isolati, tristi, depressi, incattiviti, risentiti, deboli (e via sciorinando amenità) urtano con una filosofia che invece di farci la morale scopre che la vita seriale (che è la vita di oggi) è vita ricca perché può essere vita senza colpa e vita di scoperta, vita senza “proprio” e vita alterata da inanticipabili inciampi, illuminata da implausibili deviazioni. Una filosofia che è davvero normcore quando si propone di prendere sul serio quello che ci capita.

Godani – dopo un libro importante come Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo – radicalizza (e insieme, nella scrittura, rende più lievi) intuizioni cruciali per pensare (e praticarsi) la non specialità della vita. Il carattere comune di questa vita coincide infatti con nulla di meno che con la sua intransitabile singolarità.

È perciò che La vita comune è un libro singolarmente energetico: dice la co-appartenenza di singolare e comune a partire dall’esperienza – secondo i modi e nel tempo che la descrivono contingentemente. Le riflessioni su unicità e biografia alludono a un esonero del proprio che, invece di costringerci alle sale d’aspetto di un futuro che non viene o alle sagrestie dove si evocano tramontatissimi passati, permette, qui e ora, di alimentare forme di vita e di animare mondi che ci piacciano e che sostengano il bene (quale ne sia il gradiente morale) che attendiamo.

È allora tutto fuori che casuale che sia l’amore – questa esperienza che annoda come nessuna il ripetibile qualsiasi all’unico proprio così, lo stereotipico all’imprevedibile – l’experimentum crucis del libro. Lì dove ci pare che la nostra identità sia tutta quanta da provare e con essa l’autenticità del nostro desiderio, la proprietà (che è anche l’appropriatezza) del nostro sentimento, là è dove possiamo sperimentare la separazione di un carattere da un destino, di un incontro da una fatalità, di un contatto da una relazione, di un gesto da un’intenzione.

Il nostro desiderio non è costretto al lutto di un incontro finito né appeso alla necessità di ripetersi uguale, alla perfezione immaginata (che diventa miseria saputa) né all’attesa coccolata (che diventa consolazione pelosa). Il possibile dell’amore – che è la sua felicità e la sua finitezza – milita contro il destino e la fedeltà e attesta a chiare lettere che non siamo mai soli.

Questo articolo è uscito anche su il manifesto il 18.08.2016.

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