I, The White Working Class

Ken Loach e la nostalgia (post)laburista

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Sándor Pinczehelyi, Sickle and Hammer, 1973 - Marinko Sudac Collection.

Il cinema in se stesso, non è poi così importante
Ken Loach, 1998

A Loach, quel che è di Loach: Ken Loach è sicuramente quello che Godard, Truffaut, Rohmer e altri chiamavano, nei tempi d’oro dei Cahiers du cinema, un Autore. Secondo la concezione della Nouvelle Vague, dobbiamo riservare la categoria di autore soltanto per quei registi che nei loro film riescono a fondere in un modo del tutto singolare due elementi: una visione (politica) del mondo con una visione (estetica) del cinema. Nei film d’autore, visione estetica (la forma cinematografica, secondo Einsenstein) e visione politica (il senso cinematografico, sempre secondo Einsenstein) vengono a intrecciarsi in un modo così spontaneo e compiuto che diviene difficile distinguere l’una dall’altra: così com’è difficile capire se è l’estetica a essere al servizio della politica, o la politica al servizio dell’estetica.

In Loach, questa seconda questione è, da tempo, di facile soluzione: è l’estetica a essere al servizio della politica. Il cinema è puro mezzo, non fine: è questo il suo modo di intendere l’ingiunzione benjaminiana alla «politicizzazione dell’arte». È così che dopo aver fatto i conti con un proprio tentativo di «estetizzare» la sua particolare «politica della rappresentazione» (sulla traccia aperta dalla stessa Nouvelle Vague e dal Free Cinema inglese), la scelta formale di Loach è andata in favore di un «realismo» sempre più «essenziale», per così dire, e, consapevolmente «populista». Il Loach più sperimentale e forse più stimolante – quello dei film per la BBC, come Cathy come home (1966), At the Junction (1967) e In Two Minds (1967), o delle prime opere cinematografiche come Poor Cow (1967), Kes (1969), Family Life (1971) e perfino il più tardo Looks and Smiles (1981) – è andato «austerizzando» il suo cinema fino a divenire il Loach che più conosciamo.

Il Loach «classico», diversamente da quello dei primi film, andrà spogliando sempre di più il suo taglio sulla realtà sociale da ogni ingerenza estetica: non si tratterà più di interrompere il rapporto di compartecipazione tra film e spettatore attraverso una ricerca formale eccessivamente estetizzante, ma piuttosto il contrario: mettere a punto uno stile volutamente non sofisticato, sobrio, limitato; la sua narrazione cinematografica dovrà risolversi, come egli stesso ebbe a dire, in una «resa espressiva quasi-documentaristica della luce cruda».

Sta qui il nervo centrale del suo «populismo»: nel farsi di un cinema «militante» fondato, almeno nelle sue intenzioni, non tanto su ciò che la macchina da presa fa, ma su ciò che fa vedere. Questa progressiva soppressione «volontaria» di qualsiasi protagonismo (borghese?) della macchina da presa, ridotto sempre di più a un semplice ritratto piano e frontale del proprio oggetto, a un uso assai limitato delle carrellate e di altri artifici tecnici, colloca il cinema di Loach non solo nel genere del cosiddetto «documentary drama», ma anche nella vecchia tradizione del documentario sociale inglese attiva sin dagli anni ’30 (vedi i filmati del Mass Observation Social Research Group, del British Documentary Film Movement lanciato da John Grierson, ma anche ai più noti film di Humphrey Jennings).

Sia chiaro: «populista», visto dalla soggettiva del suo cinema, vuole dire una cosa ben precisa, e non certo negativa: immedesimarsi-identificarsi nelle sofferenze del «popolo»; non del popolo in «astratto», stando alle specificità dei suoi film, bensì dei segmenti della working classe più spossessati dalle diverse modalità di sfruttamento del sistema capitalistico. Questa immedesimazione/identificazione viene concepita da Loach come il mezzo più efficace per una comprensione (o presa di coscienza) politica del presente. Sta qui un secondo elemento del suo «realismo populista»: al diavolo con le mediazioni o gli intellettualismi; la coscienza politica, il desiderio di cambiare il presente, deve emanare direttamente dai sentimenti, da un coinvolgimento emotivo (viscerale) sia con le sofferenze che con le resistenze degli ultimi. La forza del cinema di Loach sta proprio nel suo limite: nel populismo romantico e laburista della sua narrazione, in una visione umanistica e culturalista della lotta di classe assai sedimentata nella storia e nella tradizione di buona parte della sinistra britannica; basti pensare agli scritti di E.P. Thompson, E. Hobsbawn e dei primi cultural studies di Richard Hoggart sulla produzione e resistenza, della (cultura della) classe operaia britannica, ovvero a una corrente di pensiero che Raymond Williams aveva denominato nel suo primo testo (Cultura e rivoluzione industriale, 1961) la «culture and society tradition». Si tratta di una connotazione del cinema di Loach ben colta dalla recensione di I, Daniel Blake di Tiziana Terranova.

Cosa non ha narrato da sempre Loach, figlio della classe operaia come Hoggart e Williams, se non frammenti contemporanei di questo processo? Chi è il personaggio principale della sua narrazione, se non la (sua visione della) classe operaia inglese? Alla passione operaia del primo Loach, dobbiamo il racconto cinematografico del rovescio della Swinging London e dei suoi miti; al Loach successivo, una delle prime contro-rappresentazioni del divenire neoliberale dell’Europa. Lo ripetiamo: la forza del cinema di Loach è tutta qui: nel suo tentativo di narrare dall’interno – si potrebbe dire in senso etnografico – il vissuto di operai, disoccupati, sfrattati, emarginati, e anche migranti (vedi il suo Bread and Roses, 2000) alle prese con i diversi processi di ristrutturazione del capitalismo anglosassone negli ultimi cinque decenni. Il «realismo populista» di Loach andrebbe dunque interpretato come una condensazione stilistica di questo sforzo di dare un volto, una storia e un nome (Cathy come Home; Riff-Raff; My name is Joe; I, Daniel Blake) a quella parte di umanità a cui la violenza del capitale non riserva se non quello che Marx chiamava la spettrale obiettività della merce. E tuttavia è nell’essenza stessa della forza poetica e politica della sua rappresentazione che si annida anche il suo limite.

I, Daniel Blake… And we?

La «contraddizione primaria» alla base del cinema di Loach (o la forza che rischia di tramutarsi costantemente in limite) si mostra in modo trasparente nel suo I, Daniel Blake; film vincitore della Palma d’oro a Cannes e accolto in modo entusiastico anche da una parte della critica politica e culturale del mondo della sinistra europea. Sulla forza del film, non è dunque il caso di soffermarci. Ci siamo già espressi abbastanza sulla potenza complessiva del cinema di Loach, e poi, su I, Daniel Blake in particolare, diversi commenti critici in Italia hanno già messo ampiamente in evidenza le sue qualità. Ci sembra altrettanto interessante, invece, concentrarci sui limiti della sua rappresentazione, su ciò che interrompe il gioco (populista) dell’immedesimazione/identificazione in Daniel Blake proposto da Loach. Si tratta di un sembiante del film assai problematico passato stranamente inosservato, pur se costitutivo del cinema di Loach, ed è proprio per questo che merita attenzione.

I, Daniel Blake è perfettamente inserito nella narrazione tradizionale di Loach: abbiamo ancora una volta il racconto di uno sconfitto; in questo caso di un operaio di Newcastle, ovvero di una di quelle aree meno «inserite» nel cuore pulsante della globalizzazione neoliberale. Può forse voler dire qualcosa che nel referendum sul Brexit, Newcastle, ex polo operaio e ora in via di transizione permanente al neoliberalismo, è stata una delle pochissime aree del centro-nord inglese dove il Remain ha vinto, anche se di poco, sull’Exit. Afflitto da problemi cardiaci, Daniel Blake viene espulso non solo dal sistema produttivo, ma anche dai benefits di ciò che resta del welfare a causa del processo di privatizzazione riguardante la gestione della previdenza sociale.

Loach costruisce Daniel Blake come una sorta di Joseph K. dei nostri giorni; si tratta di un uomo destinato a morire «come un cane», inghiottito dagli ingranaggi anonimi e disumani, non certo della weberiana gabbia d’acciaio burocratica moderna (come nel racconto kafkiano), bensì dagli algoritmi del postmoderno workfare neoliberale. Del tutto in linea con la narrazione tradizionalmente umanistica di Loach, Daniel Blake non può non combattere contro la logica di un sistema che lo riduce a «cosa»; eppure nella grammatica discorsiva del film, Blake non lotta per vincere, ma per morire, perché è impossibile piegare l’obiettività delle leggi del capitale (se si lotta) da soli, se non ci si organizza in «classe». Il cinema di Loach è stato sempre chiaro anche su questo punto.

Tuttavia si può dire che nella narrazione di Loach, sempre coerente con i propri tradizionali presupposti «romantici» e «laburisti», a condannare Daniel Blake alla morte, è soprattutto il suo involontario precipitare in una condizione di anacronismo sociale rispetto al presente neoliberale. Carpentiere, operaio di altri tempi, Daniel Blake ha 59 anni e sa lavorare (e bene!) solo con le sue mani, non sa usare i computer, non sa fare un CV e, diversamente dalle soggettività tanto vuote quanto passive istituite dal neoliberalismo (rappresentate da quasi tutti gli altri personaggi del film), egli appare pervaso da un solido e impermeabile agire morale. È questa sua condizione residuale – questo rappresentare una sorta di «contemporaneità del non-contemporaneo», per usare la famosa espressione di Ernst Bloch – a segnare la sua sorte: non c’è posto per Daniel Blake (uomo semplice, integro, sincero, fedele, austero) in una società organizzata a partire dalla concorrenza spietata e dall’estensione della mentalità imprenditoriale a ogni ambito della vita, ovvero da una morale superficiale e meramente utilitaria.

Loach quindi ci narra la morte, prima sociale e poi inevitabilmente fisica, del suo personaggio non solo attraverso la solita potenza emotiva del «populismo laburista», ma anche con un tanto di nostalgia. Perché nel film di Loach con Daniel Blake non sembra morire soltanto un vecchio operaio impoverito, un altro dei tanti anonimi «dannati della terra» esclusi e uccisi da un capitalismo sempre più neoliberalizzato, ma soprattutto la vecchia «classe operaia inglese».

È proprio a questo punto che l’identificazione/immedesimazione nel Daniel Blake di Loach comincia a risultarci problematica: quando ci imbattiamo in quello che possiamo chiamare la colonialità del suo «populismo laburista». Daniel Blake è un operaio maschio, bianco, avanti con gli anni; non ci viene mostrato come un semplice «carpentiere», ma soprattutto come un soggetto (l’unico del film), poiché dotato, non solo di un solido agire etico-morale, ma soprattutto di «coscienza». È l’unico dei protagonisti de film a mostrarci il «dover essere», a porci davanti agli «imperativi categorici» dei nostri tempi; si tratta di un compito che Blake si prende anche nei confronti degli altri personaggi.

Al suo inquilino China, un giovane sottoproletario nero, insegna e costringe a fare la raccolta differenziata, ovvero il dovere di un buon cittadino. La distanza etico-morale che Loach pone tra il protagonista e i suoi giovani vicini sottoproletari è rappresentata anche dalla sua disapprovazione della volontà di China di arrotondare le solite paghe miserevoli vendendo nel vicinato scarpe di ginnastica fabbricate in Cina, così come dalla sua critica (simpatica, ma in realtà ironicamente sprezzante) dei loro post-moderni stili di vita e di divertimento. Agli occhi di Blake, operaio di altri tempi, si tratta, chiaramente, di passatempi tipici di un lumpenproletariat senza alcuna coscienza (etico-laburista) di sé. Ancora più eloquente, da questo punto di vista, è il suo rapporto con Katie: a lei, donna disoccupata e con due figli a carico, sempre sull’orlo del crollo emotivo di fronte alla durezza della propria condizione proletarizzata, Blake insegna a non abbattersi, e soprattutto, che non è degno prostituirsi come escort per vivere. In una delle scene a più alto tasso moralista del film, Daniel Blake riscatta in modo del tutto paternalistico Katie da una casa di appuntamenti.

Sarebbe ingrato pensare che Katie viene qui costruita (dallo sguardo di Loach) come un soggetto «debole» soltanto in virtù del suo essere donna, ma i dubbi restano: sta di fatto che la «coscienza», nel film, le è donata da Daniel Blake. Difficile anche non concludere che Katie, come d’altronde anche China, vengono posti da Loach sotto la tutela di un «padre». Detto di passaggio, andrebbe notato che uno dei due figli di Katie è mulatto, il che fa presupporre che l’uomo che l’ha abbandonata lasciandola al proprio destino (e che quindi non ha gli stessi principi morali di Daniel, ancora fedele alla moglie morta) è nero. Infine, è soprattutto Daniel a mostrare a Katie, ma anche a tutti gli altri personaggi, che la solidarietà e la cooperazione dal basso tra sfruttati è l’unico modo di resistere alla violenza disgregatrice del capitale. Si pensi qui a una delle più belle scene del film, in cui altri lavoratori e disoccupati plaudono entusiasti alla protesta di strada di Daniel Blake. Impossibile non valorizzare questa scena del film.

Il problema è che qui, dato il regime di significazione di Loach e la costruzione del personaggio attraverso cui esso si mette in mostra, l’agency di Daniel Blake appare più come un’eredità culturale della tradizionale classe operaia industriale bianca (nel senso che appartiene alla sua storia e alla sua vita) che non come un aspetto spontaneo e orizzontale della lotta di classe di oggi. La stessa struttura presentava Bread and Roses, in cui era un giovane sindacalista statunitense bianco (Sam Shapiro) a organizzare i migranti e a spiegare loro in cosa consistono i loro diritti come lavoratori. In breve: stando al film di Loach, sembra che senza Daniel Blake, non resteranno che sottoproletari, neri e donne, alla deriva, ovvero soggetti del tutto incapaci di insorgere in modo efficace contro la logica neoliberale di distruzione sia della vita personale che della cooperazione sociale. Di nuovo: Daniel Blake è la «coscienza» del film; nella miglior tradizione del J’accuse à la Emile Zola, la sua lettera (letta da Katie) non fa che confermare questo suo ruolo: «Sono un cittadino. Niente di più, niente di meno». Come a dire, senza i Daniel Blake (la tradizionale classe operaia bianca?) non ci resta che la disperazione e la sconfitta. Non resteranno che «sudditi».

The Spirit of ’45, o Post-labour Melancholia

La stessa enunciazione finale di Daniel Blake è sintomatica del taglio nostalgico che pervade la narrazione di Loach: l’appello all’etica (borghese) della cittadinanza come strumento per la rivendicazione di diritti egualitari neutri e reali (Sono un cittadino…) ci appare indicativo del fatto che a mobilitare il suo personaggio non è tanto l’indignazione di fronte all’ingiustizia di classe strutturale tipica delle società capitalistiche, quanto la perdita di uno status o condizione sociale. Negli stessi termini di Loach, si può dire che a mobilitare Daniel Blake sia soprattutto Lo spirito del ’45, per richiamare qui il titolo di un suo documentario precedente, una sorta di nostalgia post-laburista del Welfare post-bellico, ovvero del vecchio compromesso fordista tra capitale e lavoro distrutto dalla logica neoliberale. D’altronde, come tutti i marginali del cinema di Loach, la condizione di marginalità di Blake non ci viene mai mostrata come il frutto di una sua indisciplina o di una sua volontaria resistenza all’omologazione o all’assoggettamento, bensì come l’effetto della sua espulsione dal sistema economico. In linea con il tipico «populismo laburista» della narrazione di Loach, Daniel Blake non è di per sé un ribelle (un soggetto), ma semplicemente una «vittima», in questo caso del workfare neoliberale: come buona parte dei personaggi di Loach, dunque, non è mosso da una passione in qualche modo antagonista, ma dal semplice desiderio di accedere a una vita normale, ovvero di essere «incluso» e vivere come gli altri.

Anche per questo, i tentativi non politicamente corretti di China di uscire dalla sua condizione di povertà, così come il «darsi da fare» ad ogni costo di Katie per dare da mangiare ai figli, in quest’ultimo caso anche attraverso la prostituzione e quindi al di là di qualunque limite morale, non vengono valorizzati nel film come «atti di resistenza» (anche se chiaramente problematici). È chiaro che non possono essere valorizzati come agency perché del tutto fuori dalla tradizionale etica culturale laburista del «dover essere» dell’operaio.

Nello sguardo di Loach, la tragedia di Daniel Blake deriva semplicemente dalla natura di un sistema divenuto perverso e, assurdamente, irragionevole; e di fatto Daniel Blake-Loach muore senza riuscire a comprendere fino in fondo perché il potere sia divenuto così disumano e cattivo nei suoi confronti; anche da questo modo di porre il discorso sul presente, non si può non pensare, per implicito, a una certa idealizzazione–nostalgica del momento pre-neoliberale, ovvero della società del welfare. Un’idealizzazione che era del tutto esplicita nel già citato documentario The Spirit of ’45 (2013).

Come è noto, però, la società del welfare non è nata, contrariamente a quanto suggerisce il documentario di Loach, dal felice sprigionamento di uno spirito socialista inerente alla tradizione sociale e culturale del laburismo britannico, ma dal disegno da parte delle élites degli Stati Uniti di un (allora) nuovo «programma del capitale» per il mondo: un programma fondato certamente su un patto sociale in qualche modo «eccezionale», ma che doveva restare temporalmente congiunturale, nonché geograficamente localizzato. Più che il prodotto di un presunto spirito socialista o laburista, dunque, il cosiddetto welfare state è stato un dispositivo biopolitico di dominio architettato dalle élites statunitensi non solo per rilanciare la supremazia del modo di produzione capitalistico nel mondo, attraverso lo sviluppo dell’industria, del mercato interno e del consumo di massa nelle aree globali strategiche, ma anche per conferire basi materiali e culturali solide all’allora emergente egemonia imperiale degli Stati Uniti. Ciò che Loach chiama lo spirito del ’45, nella sua reale configurazione storica, non fu che un tentativo consapevolmente momentaneo da parte del capitale anglosassone di contenere gli effetti planetari di lunga durata della Rivoluzione d’Ottobre; di più, il welfare state ha preso corpo proprio sul tradimento laburista di quello stesso spirito socialista valorizzato dal documentario di Loach, poiché è venuto a fondarsi sull’espropriazione dei lavoratori da qualunque strumento di «controllo reale diretto» sui processi produttivi e sull’organizzazione della società. E poi era stato il primo Loach, quello più libertario, a mostrarci i limiti borghesi di classe della società britannica del welfare (Poor Cow, Kes), così come gli aspetti disciplinari più annichilenti delle sue istituzioni fondamentali (Family Life).

Malgrado tutto, però, non possiamo non sentirci vicini e solidali a (ciò che rappresenta) Daniel Blake nella sua lotta contro la ferocia estrattiva illimitata del neoliberalismo; così come non possiamo evitare di andare a vedere, per piacere del cinema d’Autore e del suo impegno militante, ogni nuovo film di Ken Loach. E nel caso di Loach si tratta di due aspetti che restano, a differenza di tanti altri autori cinematografici, intrinsecamente connessi: basti qui ricordare il suo rifiuto nel 2012 a ritirare un premio del TFF (Torino Film Festival) come modo di denunciare il ricorso all’esternalizzazione del lavoro e quindi alla precarizzazione dei propri lavoratori da parte dei suoi organizzatori

 E tuttavia, è proprio alla luce dell’attuale costituzione materiale neoliberale, che la sua narrazione ci appare piuttosto problematica. È chiaro che lo spirito del ’45 è comunque sepolto per sempre: è la stessa radicalità della «guerra di classe» condotta dall’alto dal capitale globale neoliberale a rendere impensabile la riproposizione di qualsiasi riformismo pacificato. La nuova classe operaia, per riprendere il Marx de Il 18 Brumaio, «non può cominciare da se stessa prima di essersi spogliata di tutte le superstizioni relative al passato». La pretesa (nostalgica e paternalistica) centralità di Daniel Blake – operaio maschio e bianco – nella conflittualità sociale si è chiaramente dissolta nell’aria: anche perché altre figure sono insorte reclamando il proprio posto nella storia (globale e coloniale) della lotta di classe. Il padre (Blake) è stato ucciso anche dai suoi figli; oramai consapevoli, sulla traccia della filiazione Freud-Lacan, che l’unico padre buono è quello (simbolicamente) morto.

Ciò che ci ostiniamo a chiamare la «ricomposizione politica» di classe oggi non può non affrontare i dispositivi di razza e di genere alla base della gerarchizzazione neoliberale della cittadinanza. Qualsiasi pratica o discorso critico che ometta questo aspetto non può che restare all’interno, al di là delle intenzioni, dei dispositivi di potere delle società post-coloniali. Così, la nostalgia post-laburista di Loach rischia di divenire un’inconsapevole (e problematica) variante di ciò che Paul Gilroy aveva chiamato, nel suo After Empire (2005), «malinconia post-imperiale»; che altro non è che una malinconia post-coloniale (bianca) della vecchia Enghlishness coloniale. La forza del cinema di Loach, dunque, forse mai come in Daniel Blake, rischia pericolosamente di arretrare nel suo (intrinseco e coloniale) limite.

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