Il cinema politico nasce di fronte al mare

Il cine-capitale di Gilles Deleuze secondo Jun Fujita Hirose

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Glauber Rocha, Barravento (1962).

«Il cinema ha guardato il mondo meno di quanto non abbia guardato il mondo che lo guardava»
J. L. Godard
«Mettere al riparo tutte le immagini dal linguaggio e servirsi di esse perché esse sono nel deserto dove bisogna andare a cercarle»
J. Genet 

Ad avere la potenza del soffio del Barravento – quella tempesta che, nel portoghese del Brasile di Glauber Rocha, è inesorabile per chi va per mare, travolgendo d’ansia le filhas de santo, le veggenti – è Le ciné-capital: d’Hitchcock à Ozu. Une lecture marxiste de Cinéma de Gilles Deleuze di Jun Fujita Hirose che possiamo fortunatamente leggere nella bella e recentissima traduzione italiana per Ombre Corte con il titolo Il cine-capitale. Il Cinema di Gilles Deleuze e il divenire rivoluzionario delle immagini,(qui un estratto). Abbiamo forse compreso come il possibile abbia bisogno di un respiro nuovo, in grado di non farci soffocare da operazioni teorico-critiche asfittiche e stagnanti.

Non siamo nuovi, d’altra parte, a una certa letteratura critica deleuziana di tonalità più che altro mimetica e molto lontana dal quel rispetto che per il filosofo francese era la cifra caratteristica di ogni ritratto. Il saggio di Jun Fujita Hirose ha il merito non scontato di proporre un’originale tassonomia in cui le immagini dialogano con il marxismo radicale contemporaneo: non una semplice rilettura, né un commentario bensì un’altravisione all’opera nella stessa produzione di immagini. All’interno della cartografia deleuziana, la pubblicazione datata Ottanta della diade dedicata al cinema – o meglio alle immagini-movimento e immagini-tempo – ha coinciso, volenti o nolenti, con una grande apertura di senso relativamente – e forse, adesso, ancora di più – al discorso sul Cinema e del Cinema, se non come domanda su quale ruolo abbia nelle innumerevoli possibilità d’essere (d’esserci) nel fulgore lacerante del reale. Come sottolineato in maniera esemplare da Ubaldo Fadini nella prefazione al volume, infatti, l’autore “coglie nell’immagine il lavoro vivo e la comprende così, anche e sopra ogni cosa, nelle sue combinazioni/composizioni, in quel “fisso” che però – nella produzione odierna delle immagini – si qualifica sempre per il rinvio nonostante tutto a quell’essere di fantasia che pare identificarsi ancor di più rispetto al passato con il soggetto contemporaneo, con la sua individualità comunque sociale, in forme oltretutto particolarmente variegate e innovative.” (p. 9)

Il cinecapitale – il capitalismo che, fin dal suo nascere, accompagna la produzione cinematografica – ha dunque un suo preciso modo di produzione che attraverso la continua estrapolazione di plusvalore dalle immagini è in grado di coartare il proprio pubblico di spettatori assoggettati alla logica riproduttiva di valorizzazione. Questo rovescio di ogni immagine, il denaro, viene mostrato al dritto grazie al montaggio nelle cui operazioni di rappresentazione violenta diventano evidenti i vincoli a cui le immagini sono costrette nella loro riproduzione ordinaria. Hirose sottolinea che “il cinema estrae plusvalore dal lavoro collettivo delle immagini ordinarie. È forse qui che si trova il rapporto più intimo tra cinema e capitalismo: cine-capitale (Cinema= Capitale). E per Deleuze, è questa la ragione per cui il cinema può essere chiamato arte industriale” (pp. 18-19).

Nel cinema classico dominato dallo schema senso-motore, legame organico tra soggettività e mondo, le immagini movimento hanno un costo e il cinema compra tutte le immagini che gli servono. Immagini-catena all’interno dello spettacolo standardizzato del capitalismo; il movimento sfrutta e impiega il tempo di ogni immagine – il suo tempo di vita costretto al lavoro – per il reclutamento di maggior pluslavoro. È quanto emerge nel primo capitolo di Cine-capitale nel quale l’autore analizza in maniera intelligente il lavoro introiettato dal e attraverso le logiche capitalistiche nelle immagini ordinarie: quali sono le immagini ordinarie? Sono semplicemente le immagini di quello che ne L’immagine movimento di Deleuze era il cosiddetto cinema classico? Le immagini ordinarie sono semplicemente le immagini del cinema: è attraverso la collettivizzazione e l’accumulazione transindividuale – come vorrebbe Simondon – di queste ultime che si produce il plusvalore straordinario in modo che degli uccelli qualunque diventino sullo schermo gli Uccelli di Hitchcock. Il pluslavoro dell’immaginario cinematografico non si realizza nello scarto che, secondo il marxismo classico, opera nella differenza tra il tempo di lavoro necessario e il tempo di un’intera giornata lavorativa, bensì nello stato di coalescenza tra attuale e virtuale, tra l’azione lavorativa e la forza-lavoro. Il cinema, ci ricorda Hirose, compra l’attualità delle immagini, paga per il loro aspetto attuale, sussumendo la portata virtuale delle immagini all’interno dello stesso processo di produzione. L’indagine non risparmia dettagli rilevanti, cercando di scandagliare, soprattutto nel primo capitolo, le ragioni delle immagini ordinarie che, assoggettate, agiscono nella catena cinematografica classica. Ma quando le immagini prendono posizione, o in altri termini, come organizzare le nuove armi della loro ribellione?

Hirose coglie il cuore di Immagine tempo dove Deleuze con straordinaria cura affettiva fa emergere le temporalità differenziali delle nuove immagini del cinema moderno, i cristalli di tempo. «La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi»: l’isterismo della storia, che il Barthes de La camera chiara slegava da uno sguardo che è affrancato dall’appartenenza, come se soltanto nel non-luogo del distacco ci fosse la forma vera delle cose, la loro dinamica, muove dagli occhi, dalla voragine delle pupille dilatate: a patto di restare lontani, esclusi appunto dalla trama degli accadimenti, per essere trafitti dalla visione, e inondati da pezzi di mondi, da pezzi di vite e pezzi di sguardi. Annullando gli schemi senso-motori e acuendo la distanza fra immagine e realtà, il tempo come misura cronica si annulla in quanto fondamento dell’azione e rappresentazione nell’immagine. I cristalli di tempo, le immagini non derivate secondo la splendida definizione di Maurizio Grande, rompono la catena di produzione classica a favore dell’emergenza dell’immagine-corpo singolare, eccedente.

I corpi del cinema moderno sono le immagini restituite alla vita: i veggenti del neorealismo di Rossellini, ad esempio, non hanno più un corpo in quanto concreto soggetto d’azione, i protagonisti della ballade della Nouvelle vague non conoscono un orientamento preciso nello spazio, vanno a zonzo, le immagini del cinema di Resnais conoscono temporalità statigrafiche e leggibili, più che visibili. Colpite da quello che Bergson descriveva come un deficit del riconoscimento attento e che nelle penultime pagine de L’esausto di Deleuze si configurava come un esaurimento delle possibilità, le immagini in rivolta della modernità coincidono con situazioni ottico-sonore pure. Sfuggono, in altri termini, al processo coartante che mostra l’attualità di un tempo a discapito di un sommerso in potenza, virtuale. La funzione sintomatologica di una clinica così concepita – nelle immagini del cinema, come nella letteratura e quindi nella politica – ha alla base, come voleva Georges Canguilhem, l’anomalia in quanto fenomeno di variazione individuale necessario alla dinamica della vita stessa. Spesso, è l’anomalo a inventare nuove forme di sopravvivenza e altrettante forme di vita, potenziali di contestazione e, dunque, concreti desideri di creazione.

“Senza la nostra profonda credenza in questo mondo, vale a dire, senza il nostro credere alla superficie metafisica come al legame tra noi e il mondo, quest’ultimo non ci apparirà mai come un brutto film. È il credere in questo mondo che ci permette di vederlo sotto il suo aspetto intollerabile, impossibile, per creare il possibile. Se c’è qualcosa di assurdo in una simile credenza è il fatto che essa ci spinge a creare da soli ciò contro cui resistiamo” (p. 80). Ha ragione da vendere Hirose quando sottolinea il carattere di problematicità rispetto alla credenza: la credenza non è compromessa da un’acquiescenza dell’esausto che ha perso ogni speranza bensì perché a mancare sono le condizioni di possibilità della stessa. È credendo alle immagini, vedendole come cliché che si esaurisce davvero l’impossibilità delle politiche neoliberali e, dunque, si tracciano le linee di ogni contro-effettuazione1. Ad essere colte dai processi di divenire rivoluzionari, sono le immagini degli indignati, di chi prova vergogna di fronte a ciò che è intollerabile perché “l’ignominia delle possibilità di vita che ci sono offerte appare dall’interno. Noi non siamo responsabili delle vittime, ma di fronte alle vittime”2.

Intollerabile allo sguardo (“ho creduto di vedere dei condannati” di Ingmar Bergman in Europa 51 di Rossellini, quando vede degli operai), alla visione stessa. Ogni atto di creazione è politico in quanto atto di resistenza: alla durezza dei muri su cui sbattere la testa come faceva McEnroe per far emergere l’immagine finalmente liberata, resa leggibile da e tra i cliché, del divenire rivoluzionario del popolo che è sempre a venire perché ancora manca, si inventa soltanto a partire da una linea di fuga all’interno dei gangli attuali del capitalismo. Tra l’immagine cliché che ci viene mostrata nel processo di finanziarizzazione e produzione (l’attuale) e l’intollerabile, quando noi vediamo quello che è, quando per un’anomalia noi riusciamo a riconoscere l’impossibile (il virtuale), vi è un’interstizio in cui si creano le immagini resistenti come altrettanti desideri di emancipazione. Come nelle strozzature della lingua impossibile si incuneava il movimento minore della letteratura di Kafka, così – ci dice Hirose – il cinema politico nasce di fronte al mare. È il Barravento a cambiare terra e mare nel Brasile di Glauber Rocha, il cinema novo le cui immagini vivono all’interno del paradosso capitalistico in cui la miseria, la fame è quel fatto negativo che diventa positivo, perché è a partire da questo che si possono organizzare le linee di fuga.

A partire dal primo film dall’omonimo titolo del 1962, dove non esiste più una rappresentazione della rivoluzione bensì sono le singolarità dei pescatori neri a diventare rivoluzionarie sotto l’effetto della tempesta che agita la terra stessa. Questo vento progressivamente attenua la sua portata ma increspa la superficie delle immagini del cinema politico di Straub Huillet che abbandonano le geografie costiere a vantaggio dei paesaggi tellurici siciliani. Hirose – continuando il discorso deleuziano de L’immagine tempo – sottolinea che è sotto l’effetto di una smarcatura temporale che i due cineasti, per radiografare moventi e soggetti sotterranei di lotta e cambiamento, c’è molto da disattivare dal visibile (per esempio, ricordando Foucault “l’indegnità di parlare per gli altri”: il cinema produce enunciati propri).

Alfred Hitchcock, Birds (1963).

L’immagine è frutto di ricerca d’archivio disgiunta, atto di resistenza tra la parola e l’immagine, tra l’immagine cinematografica e il mondo. Un’archeologia può arrivare a ricostruire i filamenti di questa matrice, e del suo patrimonio genetico, come delle sue potenzialità. Lo choc comunitaristico non può che essere inteso in questo senso: uno strano terreno che emerge e appare impastato di continuità e di discontinuità tra la Parigi di Benjamin e la Berlino weimariana – alla quale lo stesso Benjamin guardava come luogo delle rotture culturali – Hitler e la pubblicità dei pannoloni, la radio e la televisione, la comunità costruita dal lavorio storico del narratore e quella che emerge nell’immagine del cinema di Straub : strano terreno, tanto più strano tanto più vero.

In appendice, due conclusioni. Da un lato il progetto di un mondo godardiano, dove a circolare non sono più le parole che prezzano, valorizzano le cose, ma le immagini come monete vive in quanto atti di resistenza alla comunicazione. L’autore rinnova la convergenza tra la funzione-filosofia e la funzione-cinema, tra Deleuze e Godard, la resistenza del pensiero alla sciatteria della comunicazione (la stupidità, di nuovo, in cui siamo vergognosamente compromessi) e quella delle immagini del cinema perché eccedenti di informazioni. La lezione di Godard, la pedagogia del vedere, un esercizio continuo di presa politica delle immagini nel contemporaneo. Penso anche all’ultimo Godard, che da Adieu au langage arriva Le livre d’image (2018): che il cinema sembri aver rinunciato alla funzione-pensiero – in quanto finestra aperta sul reale e sulla Storia – per ripiegare sul racconto di storie, poco importa, se quest’ultime si accordino, come diceva Michel Mourlet all’inizio de Il disprezzo, ai nostri desideri. Riprodurre il visibile, insomma, non significa necessariamente riuscire a fermarlo e dunque a guardarlo, al contrario. Solo il montaggio, «dolce affanno», può salvare la vita di queste immagini, elaborando il lutto della cecità e permettendo il passaggio dall’invisibile al visibile, dal nulla all’immagine.

Tutto comincia dalle mani: come montare una serie di immagini applicandole sul suono? Presto detto: sviluppando un suo vecchio detto “idee confuse su immagini chiare”, Godard mescola senza soluzione di continuità (oppure seguendo una sua logica) immagini ad altre tratte da film che ama, accompagnate da musica classica fermata bruscamente da dissolvenze in nero. In tal modo afferma, come ha fatto qualche anno fa Resnais in L’Amour à mort, la morte del cinema, intesa come arte capitalistica, e la (ri)nascita dell’arte filmica come installazione visiva e non più come narrazione. In tal senso, il salvataggio di Madeleine da parte di Scottie in Vertigo si apre su un’immagine di Marilyn che a sua volta si lacera per liberare gli uccelli hitchockiani, senza dimenticare la morte di Nosferatu e l’occhio tagliato di Un chien andalou come allegoria della non-visione a cui siamo stati oggi obbligati da un capitalismo in decadenza.

Ed è anche la più direttamente politica dall’epoca de La Cinese. Eppure, le immagini che superano il “vecchiume” e passano al reale mettono in scena un mondo in agitazione privato di una propria autonomia. Ma la visione di Godard è pur sempre cinematografica, anche se non ha niente a che fare con il cosiddetto cinema del reale. E da, ultimo, un divenire giapponese che trascina con sé anche Deleuze. È noto l’amore del filosofo francese nei confronti del cinema di Ozu di cui sottolinea una curiosa posizione: inventore di situazioni ottico sonore pure all’interno del cinema classico americano, fondato sullo schema senso-motore. A fare la differenza una modalità percettiva caratteristica dei giapponesi, capaci di cogliere l’inesorabile banalità quotidiana e contemporaneamente il cambiamento all’interno di tale orizzonte.

“Così nel suo studio sul cinema, il filosofo francese, che sa benissimo di essere occidentale (non cessa di dire noi), diventa giapponese. (…) In altre parole, ciò a cui dà il nome di Giapponesi non è proprio ciò che chiama popolo a venire?” (p. 121).

Note

Note
1F. Zourabichvili, Les deux pensées de Deleuze et de Negri: une richesse et une chance , Multitudes 9, mai-juin 2002
2G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? Einaudi, 1996; p. 101

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