Il filosofo boxeur

Muhammad Ali e l’operaismo

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Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito, 2017 - veduta dell'installazione, Museo Madre (Napoli) - Courtesy l'artista e Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee. Foto: Amedeo Benestante.

Anticipiamo un estratto da Il sofista nero. Muhammad Ali oratore e pugile,  il nuovo libro di Marco Mazzeo  in uscita in questi giorni nella nostra collana per DeriveApprodi: Ali anticipa il mondo presente, perché prima degli altri capisce che il lavoro sarà legato sempre più allo sfruttamento della capacità umana di parlare. Muhammad Ali non è solo l’antesignano della boxe, ma del mondo del lavoro di oggi: non anticipa semplicemente Mike Tyson ma l’economia dei call-center e di Amazon centrata sulla parola.

Darsi una tradizione non significa darsi delle arie. È un atto di modestia.
Paolo Virno
 

Né analitico, né continentale, né storicista, né scientista esiste un filone di ricerca irriducibile alle categorie oggi in voga. Di questo filone non troverete quasi2 traccia nella storia della filosofia, per altro documentatissima, di Franca D’Agostini1 uscita vent’anni fa. Non ne troverete neanche nell’elogio della filosofia analitica scritto da Diego Marconi2. Si tratta di una linea di ricerca così assente dai manuali da costringere all’incertezza sul suo stesso nome: «operaismo italiano», «marxismo eretico», «pensiero radicale» sono alcune delle etichette possibili. Questa incertezza, che impone denominazioni generiche o troppo ristrette, è essa stessa sintomatica di un’emarginazione storiografica che ha origine fuori dalla teoria: dalla sconfitta, negli anni Ottanta, dei movimenti rivoluzionari del 1968- 1977.

Negli ultimi decenni, specie nelle accademie, alla filosofia legata ai movimenti politici più radicali del secondo Novecento è stato riservato un trattamento linguistico rivolto storicamente ad altre figure. Si tratta dell’enominazione dei nomi propri. Il pirata, ad esempio, non abbisogna di specificazioni che ne indichino l’identità individuale, il nome e il cognome, poiché per etichettarlo è sufficiente una denominazione che indichi in modo ammiccante il gruppo d’appartenenza. Il pirata è definito in modo generico (non per questo neutro) «predatore dei mari», «filibustiere» o «corsaro» poiché non trova collocazione giuridica nel diritto internazionale tra Stati. Si pensi, di nuovo, al nostro Muhammad Ali. Per anni, giornalisti e commentatori si rifiutano di chiamarlo con il nome che egli ha scelto per sé. Rifiutarne il nome significa non accettare il significato etico-politico di un pugile scomodo, di un nero che stranamente parla3.

Cos’è l’operaismo italiano? È il pensiero critico che parteggia per le figure sociali di cui Clay prima e Ali sono l’emblema 

Propongo di guardare a questa tradizione, filosofica e politica, secondo una chiave di lettura parziale e, proprio per questo, specifica. Cos’è l’operaismo italiano? È il pensiero critico che parteggia per le figure sociali di cui Clay prima e Ali sono l’emblema. In queste pagine conclusive, provo a organizzare qualche argomentazione in grado di corroborare un’affermazione non proprio intuitiva. L’operaismo costituisce una versione eterodossa del pensiero critico. All’interno di questo quadro, figure come quella di Cassius Clay/Muhammad costituiscono un campo di applicazione teorica e, contemporaneamente, un termine di paragone per comprendere cosa voglia dire «far filosofia».

Ripartiamo da un dettaglio biografico. Nella vita del pugile, più di una volta fa capolino un particolare osceno per la condotta alimentare di un atleta. Nonostante molti ribadiscano che «nessuno di noi, singoli atleti o squadre, prendesse la boxe sul serio quanto lui», alle Olimpiadi di Roma il pugile non nasconde la sua vera passione. Per celebrare la vittoria, a Cassius Clay viene offerto del vino. Il pugile rifiuta, preferisce ordinare Coca-Cola: «tre bottigliette se le scola a filo una dietro l’altra» ricordano, ancora attoniti, i presenti. Per digerire un pasto pantagruelico, ne chiede addirittura dell’altra. Ma come? Parteggiare per uno che beve il liquido gasato della multinazionale più efferata? Sulla rivista «Metropoli», Lucio Castellano chiarisce il senso di un particolare stonato solo all’apparenza. In polemica con il marxismo ortodosso «austero non per necessità ma per convinzione», l’operaista prende tutt’altra strada:

«Il punto è che alla rivoluzione industriale è stato messo fine, i capitalisti hanno cominciato a produrre Nutella per i bimbi proletari, Coca-Cola per i teen-agers e ottimo whiskey, in sostituzione dell’alcol etilico per i loro genitori. Marx sarebbe impazzito per la felicità: non avrebbe pensato che erano tutti operai alienati, solo che erano contenti. Contenti e minacciosi, la mano alzata nel segno delle busse, tutti intenti a spiegare ai borghesi riottosi le dure ragioni per cui conveniva trattare gli operai da clienti insostituibili: sulle guance di Keynes, Marx avrebbe visto subito il rossore dello schiaffo operaio»4. 

Il sofista nero non interpreta lo sport del pugno, bensì ne muta le coordinate di fondo. In modo speculare, l’operaismo fa propria l’ultima delle cosiddette Tesi su Feuerbach di Karl Marx: è una filosofia che non mira a interpretare il mondo ma a trasformarlo 

Si dirà che si tratta di un particolare marginale. È così, non c’è dubbio. Ma attenzione: l’episodio è come la bolla del morbillo, un sintomo. Figure come il sofista nero aiutano a far evadere la filosofia dal suo confine chic per una ragione che è possibile riassumere tramite un’equazione. Come Muhammad Ali ha fatto uscire la boxe dal ring portandola nel mondo della guerra e della segregazione, così una filosofia non subalterna è priva di speranze se ridotta all’interno del quadrato di un combattimento accademico. Il sofista nero ha fatto entrare nella boxe la parola e il conflitto sociale. In modo analogo la filosofia operaista accoglie a braccia aperte ogni fenomeno del mondo contemporaneo: le ricerche della biologia evoluzionista e l’implosione degli Stati nazionali; l’archeologia di una figura maledetta come «il pirata» quanto lo studio degli atti performativi di un pugile clamoroso. Il sofista nero non interpreta lo sport del pugno, bensì ne muta le coordinate di fondo. In modo speculare, l’operaismo fa propria l’ultima delle cosiddette Tesi su Feuerbach di Karl Marx: è una filosofia che non mira a interpretare il mondo ma a trasformarlo.

Animata da questo fine, la filosofia deve saper maneggiare la più vasta quantità di saperi e strumenti tecnici. Non per questo, però, è riducibile a un’attività specializzata di ordine artigianale. L’artigiano è attore con opera: produce oggetti fisici, frutti indipendenti dalla sua attività che si inseriscono in un tessuto economico già stabilito. Il filosofo è protagonista di una attività senz’opera, più simile a chi delibera in assemblea o decide in tribunale, ma anche a chi si gioca la pelle facendo a pugni contro l’avversario di turno. Il filosofo artigiano produce delizie, oggetti prelibati; il filosofo boxeur confligge con il mondo cui appartiene.

Alla filosofia Muhammad Ali offre, dunque, non solo un esempio applicativo ma un termine di paragone per comprendere il senso attuale di un’attività millenaria. Per un verso la filosofia ha la possibilità di trasformare le basi di una società (ben lo sapeva Platone, ex lottatore di pancrazio, che frequenta speranzoso tiranni siracusani). Per un altro, può divenire una forma contemplativa: la vacanza di un linguaggio che chiacchiera al bar di pugni scagliati, sì, ma da qualcun altro. I due volti dell’attività filosofica sono facce ambivalenti di un agire pratico che il pugilato ha il pregio di mettere a nudo, senza fondotinta né rimmel. A causa del suo esser attività di praxis, la filosofia che si rinserra in una torre d’avorio finisce con l’essere residuale come un dopolavoro ferroviario. Ben che vada, forma un gruppo di esperti che, invece di praticare uno sport estremo, si limita a commentarlo. La tradizione dell’operaismo predilige sintomi etico-politici efferati come Muhammad Ali perché è una filosofia combattiva: si tratta di un pensiero radicale che non ritiene sia possibile un pensiero «senza presupposti», per usare la celebre espressione di Husserl. Il pensiero che conosce i suoi presupposti è quel pensiero che conquista la capacità di non affidarsi al presente. È l’unica filosofia che può sottrarsi al compito subalterno, secondo la più classica delle fallacie naturaliste, di scambiare ciò che esiste con ciò che deve essere. Ali accetta la sfida della società dello spettacolo, con alterne fortune prova a conquistarla e a metterla in crisi. È questa la ragione per la quale il filosofo boxeur si contrappone al paradigma, nato in Italia all’inizio degli anni Ottanta, del «pensiero debole». Accettare il confronto con il mondo postmoderno non significa farne l’apologia. A tal riguardo, le parole di Paolo Virno circa uno dei libri più noti dell’operaismo italiano, sono eloquenti:

«Il libro Sentimenti dell’aldiqua naturalmente vuole essere anche una critica radicale del pensiero debole, del postmoderno italiano che è stata l’ideologia dei vincitori, l’ideologia della sconfitta dei movimenti di massa. La quale però, come tutte le ideologie vere, ha in sé un nucleo di verità, soltanto che esso non solo è deformato, ma soprattutto è apologetico, cioè tende a pensare che è così e solo così potrà sempre essere. Invece, la questione era riportare il cosiddetto pensiero postmoderno alla sua base materiale. La società della comunicazione generalizzata di cui parla Vattimo è la trasfigurazione deformata e apologetica di un fatto reale, cioè il plusvalore si produce attraverso il linguaggio». 

Ali incarna l’ambivalenza del mondo postmoderno: le sue crepe interne e le forze dominanti, le opportunità sovversive quanto la facilità di una resa incondizionata. Viceversa, l’entusiasmo del pensiero debole per la differenza si fonda su un presupposto fortissimo: l’appello a prender atto delle cose per come sono rischia di tradursi nella constatazione che la vita produttiva del capitalismo sia l’unica possibile. All’interno della galassia del capitale, si aggiunge, occorre solo fare un passo ulteriore e assorbire il maggior numero di variazioni etico-politiche.

L’atteggiamento ironico tipico del postmoderno è in linea con questa direttrice: per un verso scherza con il reale attraverso un gioco di allusioni e di rimandi apparentemente equanime; per un altro mira a non spostare le cose di una virgola. La nozione di «differenza» che emerge in riviste chiave della fase più recente dell’operaismo italiano («Metropoli», «Luogo comune», «Forme di vita») procede in tutt’altra direzione poiché prende in considerazione figure alternative a quelle della filosofia standard.

Ali mantiene la forza immaginativa e il gusto per la sfida di ogni infante: per conoscere ha bisogno di mettere alla prova, per capire cosa è reale insiste sulla necessità di strapazzare le fattezze di chi ha intorno. Ali è una figura utile per insistere sul fatto che un lavoro sulle differenze ha significato solo se non inclusivo 

Predilige, nell’ordine che si vuole, donne e neri, matti e bambini. Ali non è una donna ma di certo è nero. Da molti suoi contemporanei è considerato un matto che rischia la vita danzando di fronte a cazzotti pesanti come un treno merci. Ali mantiene la forza immaginativa e il gusto per la sfida di ogni infante: per conoscere ha bisogno di mettere alla prova, per capire cosa è reale insiste sulla necessità di strapazzare le fattezze di chi ha intorno (cap. ii, par. 3). Ali è una figura utile per insistere sul fatto che un lavoro sulle differenze ha significato solo se non inclusivo. Il nero non vuole recitare a forza la parte del bianco, la donna non ambisce necessariamente a divenire maschio, il bambino non fa la coda per ottenere la patente di adulto. Dal canto suo, il pugile di Louisville è stanco di fare la parte della tigre allo zoo. In più di una occasione, Muhammad traballa poiché è costretto a navigare a vista tra la Scilla della Nation of Islam e la Cariddi dell’individualismo spettacolare.

Proprio per questo motivo la sua è una figura significativa, il suo profilo è il ritratto di un’epoca. Il pugile che parla indica tanto una opportunità che un rischio. Fare della filosofia l’analogo teoretico della boxe può significare uscire dall’angolo e mettere in discussione il tempo presente. Allo stesso tempo questa opzione non elude, come fosse un vaccino, la più diffusa della malattie: il morbo che trasforma il filosofo nel più sublime dei commentatori poiché, dietro compenso, si prodiga in severe valutazioni del sudore altrui (in Italia questo club si identifica tramite acronimi: ANVUR, VQR, i nuovi metodi di valutazione della ricerca universitaria). Pugile fuori dal ring o commentatore della sera? Ecco il dilemma che Ali pone al filosofo.

Qualunque sia la risposta, il sofista nero mostra che è sempre il linguaggio a prendere la scena. Se per il commentatore l’importanza della parola è ovvia, per l’atleta del pugno la scoperta sfiora l’osceno. Il sofista nero mostra il carattere poroso del pugno, potenziale spugna di aggettivi e proposizioni. Al contempo Muhammad esibisce il potere conflittuale di un linguaggio fragoroso come un gancio sinistro. Nel documentario Facing Ali, uno sfidante racconta: «Frazier non era capace di tenergli testa con le parole, così doveva dimostrarlo con i pugni». Il rapporto tradizionale tra i fattori parola/produzione è rovesciato: grazie al pugile di Louisville, la boxe diventa affare linguistico. «Il tuo ragazzo parla un po’ troppo» sbotta Rocky Marciano, simbolo prototipico della vecchia guardia.

L’operaismo guarda con rispetto ad Ali poiché è una tradizione che lavora a un movimento opposto e complementare: per essere efficace, una prestazione della parola come la filosofia deve cominciare a farsi boxe. Per comprendere il significato etico-politico di Muhammad Ali, torna particolarmente utile un concetto proposto da un Marx paradossalmente poco marxista. In un breve testo, ripubblicato diversi anni fa sul primo numero della rivista «Luogo comune» (il cosiddetto Frammento sulle Macchine), Marx descrive in modo fulminante lo scenario produttivo del tempo d’oggi: «il sapere sociale generale (knowledge) è diventato forza produttiva immediata e quindi le condizioni del processo vitale stesso sono passate sotto il controllo del general intellect». Marx individua nel general intellect un passaggio rivoluzionario in grado di scardinare alle fondamenta il sistema capitalistico. Se scienza, cognizione e linguaggio diventano fondamentali come nelle prime fasi produttive del capitalismo lo erano ferro e acciaio, il paradosso è inevitabile. Come è possibile impiegare unità di misura quantitative per vendere quel che, per definizione, quantità non ha (parole, pensieri)? Marx intravede in questa contraddizione una delle crepe inevitabili del sistema. L’operaismo italiano corregge la previsione.

Anziché lavorare prima e poi proferire parole, lavoro parlando: l’intelletto generale si incarna nella loquacità di un pugile che segna il tramonto dell’epoca di Henry Ford. Sotto le vesti di Muhammad il general intellect si mostra, osceno 

Occorre prendere atto che questo paradosso non ha scardinato il capitale, anzi ne ha rafforzato il dominio grazie alla quantificazione forzosa del nuovo lavoro linguisticocognitivo. Il sofista nero rappresenta una delle effigi più precoci di questo processo. Ali fa scandalo perché mette a tema il prezzo di un pugno, il valore merceologico di un trauma cranico, quale sia il premio di produzione degno del morbo di Parkinson. Quando il giovane Clay fa suo il nome più comune del mondo naviga nelle acque del general intellect e della sua ambivalenza. È il pugile che beve Coca-Cola, bibita del mondo operaio: il «Gaseous Clay» lascia l’austerità al monaco e alla sua cella.

È bevendo Coca-Cola che a metà degli anni Trenta i neri oppressi d’America festeggiano le vittorie di Joe Louis. Tuttavia, nel 2001, Ali diventerà testimonial della spietata multinazionale di Atlanta facendone subito lievitare il valore di mercato dell’1,5%. Si tratta, senza dubbio, di un fatto spiacevole. Proprio per questo, però, il sofista nero è una figura significativa. Con Ali anche la boxe diviene «una guerra di parole». Anziché lavorare prima e poi proferire parole, lavoro parlando: l’intelletto generale si incarna nella loquacità di un pugile che segna il tramonto dell’epoca di Henry Ford. Sotto le vesti di Muhammad il general intellect si mostra, osceno. Non profezia automatica di liberazione ma la fotografia anticipata del tempo di oggi.

Note

Note
1Franca D’Agostini, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Raffaello Cortina, 1997
2Diego Marconi, Il mestiere di pensare, Einaudi, 2014
3Da qualche anno, una parte di questo movimento teorico-politicolo si prova ad accogliere sotto l’etichetta di Italian Theory o, più di recente, di Italian Thought. Cfr. Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, 2010 e Id., Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, 2016
4Lucio Castellano, Scenari della crisi fiscale, in «Metropoli» n. 5, 1981, pp. 35 e36

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