In memoria dei tempi recenti

La fabbrica del ricordo di Felice Cimatti

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Claire Fontaine ed Helena Papadopoulos, Consumption (2011).

In questi giorni, chi di noi ha una casa in cui asserragliarsi – e abbastanza tempo da sottrarre allo smart working per riflettere su quel che lo circonda – si ritrova spesso invitato a pensare ai tempi che ci attendono, a preparare la fase 2 (e poi la 3…), in altre parole a progettare il futuro. Proposito encomiabile ma, sarà la pausa forzata, sarà la cesura che sembra aver interrotto il flusso delle nostre vite, viene il dubbio che quello da progettare sia in verità il passato. Più urgente del futuro da costruire è il passato da redimere, secondo uno schema che molto liberamente possiamo prendere in prestito dal Walter Benjamin delle Tesi di filosofia della storia.

Per argomentare quella che altrimenti potrebbe passare per la melanconica fantasia di uno sfaccendato, ci viene in soccorso La fabbrica del ricordo di Felice Cimatti, pubblicato per i tipi del Mulino proprio in questo tristemente memorabile marzo 2020. Cimatti si scaglia contro due pregiudizi che determinano la comprensione media di ciò che chiamiamo ricordo: in primo luogo che esso sia una cosa e, secondariamente, che un mucchio di simili cose sia stipato in un archivio all’interno del cervello che chiamiamo memoria. Distinguendo tra memoria implicita ed esplicita, vale a dire tra un saper fare inconsapevole e un sapere di saper fare linguisticamente mediato, l’autore strappa il ricordo dalla collocazione abituale, nei recessi della mente individuale, per restituirlo alla sua dimensione pubblica, esterna, comune:

La memoria, nel senso di ricordi che possiamo raccontare, a noi stessi come a un altro (cioè la memoria episodica e in generale quella semantica), è qualcosa che ha a che fare con il mondo esterno, non con quello interno e privato. In questo senso quello della memoria non è un fenomeno psicologico, bensì tecnologico e sociale (p. 47).

Contro l’intimismo della memoria rinchiusa chez soi, la linguisticità della memoria esplicita – quella di chi considera il proprio ricordo in quanto ricordo – garantisce la sua piena appartenenza al mondo di ciò che è da tutti fruibile perché socialmente costruito. Prevedibile obiezione dei fan degli scantinati psicologici:

Certo, tecno-sociale sarà il racconto del ricordo, la celebrazione che commemora, il monumento che fissa nel bronzo, di certo non l’evento che viene ricordato, né la traccia mnestica che conserviamo nel cervello». Ma, con un non trascurabile gusto del paradosso, è proprio questa la tesi che viene sostenuta nel libro: «Senza racconto non ci sarebbe memoria esplicita, cioè senza ricordare non ci sarebbe ricordo (p. 78).

Va bene, ma almeno la traccia mnestica, la base materiale e neuronale sarà qualcosa di precedente rispetto al ricordo? Qui l’argomentazione diventa serrata e, come è necessario in ambito filosofico, non si affanna a inseguire i dati sperimentali ma cerca piuttosto di conoscerli e di comprenderli portandone alla luce i presupposti concettuali spesso impliciti. Una traccia è un graffio, un’incisione tra molte altre incisioni; lo status di traccia le viene conferito solamente a posteriori da un atto di lettura. Nel campo della memoria, la traccia mnestica varrà come traccia mnestica solamente quando una mnemotecnica (una tecnica sociale di rammemorazione) la costituirà come mattone di costruzione del ricordo:

È la misura che istituisce ciò che viene misurato, è il memorizzare che istituisce il ricordo in quanto ricordo (p. 100).

Che il ricordo sia qualcosa da costruire (e non, come si ritiene abitualmente, soltanto da ricostruire) è un primo insegnamento tratto dalla psicoanalisi che Cimatti estende all’intero ambito della memoria. Sul lettino dell’analista, all’interno del setting (e dunque grazie a una specifica mnemotecnica) diviene chiaro che la traccia riceve il suo senso soltanto da una pratica sociale esterna. È il tema della freudiana Nachträglichkeit, del lacaniano après-coup o – più umilmente – del senno di poi che individua retrospettivamente il discorso di un primo ministro come un monito fieramente churchilliano o come una drammatica premonizione su se stesso. Il punto è che quel discorso, da solo, non era né l’uno né l’altro; solamente il secondo tempo proietta all’indietro il proprio antefatto, costituendolo come tale.

Né vero né falso, ma probabile come ogni costruzione, il ricordo costituisce a ritroso la sua stessa traccia affinché – secondo insegnamento tratto dalla psicoanalisi – la memoria ci liberi dalla ripetizione. Gli automatismi, i corsi e ricorsi di un passato mal digerito sono proprio quella memoria implicita, irriflessa, che può essere sconfitta solo tramite la decisione di ricordare:

La memoria implicita si ripete, e ci trascina con la sua ripetizione; la liberazione da questa condizione, cioè l’oblio della possibilità della dimenticanza, è condizionata dalla sua preventiva trasformazione in memoria esplicita (p. 164).

Torniamo ora all’idea con cui abbiamo iniziato: ciò che bisogna progettare è il passato. Dietro agli inviti a preparare il futuro, a prefigurare gli scenari del dopo, si annida il rischio di una coazione a ripetere le condotte passate che proprio in questi giorni mostrano con chiarezza la loro natura oppressiva. In fondo, non siamo arrivati fin qui proprio progettando costantemente il futuro e prefigurando scenari di crescita? L’enfasi sul dopo da programmare rischia di capovolgersi inavvertitamente nella ripetizione di un ritornello del passato: investi su te stesso, trasforma la difficoltà in opportunità, migliorati costantemente (lo fai per te, lo fai per il capitale).

La reclusione anti-virus rappresenta invece una cesura che segna l’inizio di un secondo tempo in cui interrompere questi automatismi attraverso la costruzione di un ricordo del nostro recente passato. Costruzione e non ricostruzione, dal momento che solo questo secondo tempo può istituire a ritroso il suo antecedente, che di per sé passava inosservato e non preludeva a nulla. Ora che siamo tutti, singolarmente, sotto coperta per paura del virus, possiamo ricordare che non molti mesi fa il Governo italiano teneva in sequestro dei migranti su dei barconi; ora possiamo ricordare che gli xenofobi di casa nostra vedevano lo straniero come virus mentre erano loro a costringere degli umani al chiuso, proprio come sta facendo in questi giorni il Covid-19 con noi. Ancora, è questo il momento di creare il ricordo di un recente passato in cui sanità e ricerca erano costantemente sottoposte a quei tagli che hanno reso così disperatamente difficile rispondere all’emergenza sanitaria. Oppure è a partire dallo sciagurato crollo del sito INPS sotto la raffica di richieste di bonus che dobbiamo costruire il ricordo di un sistema in cui la precarizzazione dei lavoratori ha creato un esercito di partite IVA, lavoratori autonomi, co-co-co che, a posteriori, sono stati l’avanguardia che prima di altri ha sperimentato l’insicurezza e la preoccupazione per il futuro che oggi sembra appartenere a tutti.

Costruire il ricordo per non ripetere coattivamente, ci suggerisce il libro di Cimatti. E questo ricordo ci potrà dischiudere quelle virtualità, quei percorsi possibili non sviluppati nel passato che potranno farci prendere strade nuove, al di là della retorica dell’andrà tutto bene.

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