Jamais le hasard ne abolira un coup de dès

Wenn aus dem Himmel: film di Farbizio Ferraro

Mazzoleni1978fronte7543
Libera Mazzoleni, Narciso contro Narciso, 1979, fotografie (4 elementi)

In un letto gli amanti cercano una promessa, quella di una reciproca licenza. Promettono che quel momento, nel quale possono mutualmente andare l’uno verso l’altro senza incontrare limite, affondare le mani nelle carni senza ritegno, sarà lo stesso per sempre. Talvolta si dà l’incontro di corpi nel quale la libertà dell’uno non è il limite di quella dell’altro. Il gesto non ha vincolo alcuno e qualunque sia il luogo altrui della sua espressione è sempre il luogo appropriato, perfetto. Il gesto è benvenuto, a prescindere dalla forma, dallo stile, e a riceverlo sta un’accoglienza. Puoi farlo, dice un corpo all’altro. Puoi farlo e non c’è da chiederlo, precisa. Puoi. Posso. È quel momento privo di regola e di soglie nel quale il gesto rivolto all’altro può tutto, e ciò non per adesione a un’idea libertina o a un’anatomia naturista dei corpi, ma perché semplicemente si dà. Talvolta. Non c’è ritegno, appunto. È la forma amorosa dell’improvvisazione. Si può giocare e il gioco è senza regola esplicita. Ogni lancio di dadi ha la perfezione del lancio di dadi e qualunque sia la costellazione del numero, non è mai inferiore al punteggio massimo.

Ma se promessa occorre è perché temono gli amanti che verrà un momento in cui il gesto potrà arrestarsi, sentire l’altrui contrazione e così tradurla nella propria, percepirsi aggressivo e così ferirsi. Sanno gli amanti che ciò che sembra accadere per natura potrà diventare materia di contratto. Che la natura è a rischio di rivelare uno strappo e ciò che era per grazia darsi per rinegoziato. Basterà una promessa a preservare ciò che può accadere senza regola, o con la sola regola dell’improvvisazione? Basterà il richiamo a un lancio perfetto per preservare la perfezione di ogni lancio successivo?

In una foresta tropicale gli alberi di Samanea saman si arrestano su una soglia: limitano reciprocamente la crescita delle fronde preservando uno spazio di luce. È una fissura ai margini della loro espansione. La si chiama anche relazione e la si spiega con la timidezza 

In una foresta tropicale gli alberi di Samanea saman si arrestano su una soglia: limitano reciprocamente la crescita delle fronde preservando uno spazio di luce. È una fissura ai margini della loro espansione. La si chiama anche relazione e la si spiega con la timidezza. Una frasca non procede oltre il limite di crescita che farà passare la luce. A vicenda gli alberi ridisegnano le loro forme a partire da un comune ambiente luminoso. È l’opposto del principio entropico che conduce alla selva, quello che per default si applica alla crescita vegetativa. C’è chi si chiede cosa accada tra questi alberi, se in qualche modo non comunichino, tra le radici e attraverso il suolo o sulle cime. Come faranno a dirselo, di fermarsi e di lasciare libero lo spazio in mezzo? Non è nuova la Samanea saman, sebbene pianta esuberante dall’ombrello che dispiega fino a 80 metri, a questo comportamento: se isolata di notte lascia entrare anche la pioggia, flettendo le foglie e consentendo all’erba di crescere folta fin sul tronco. Una pianta per natura relazionale o empatica di suo?

È anche questione di cosa si guarda: quella fessura lasciata sgombra, perché mai non è invasa dalla Samanea saman? Nello spazio libero l’occhio coloniale, che per altro ha dato un nome latino alla pianta, vede ciò che resta da riempire e si chiede stupito perché la voracità vegetale non ne approfitti. È lo spazio sgombro della fessura a fare problema, quel vuoto che potrebbe essere pieno, in questo caso di verde. A ribaltare la visione, verrebbe da chiedersi invece cosa ricavi la Samanea saman da quello spazio che la fa da contorno, cosa le dia, di cosa sia pieno il vuoto tra lei e l’altro. Più che a uno scambio di informazioni per garantire un accordo – io non mi allargo così tu vivi meglio, si direbbero a vicenda – l’albero della pioggia sembra nutrirsi di ciò che sta in mezzo, dispiegandosi mentre si ritrae, con un movimento espansivo che crea distanza. In quello spazio che registra due e più inspirazioni, si dà qualcosa. Si dà, senza infliggere alla Samanea saman la sanzione temuta dagli umani di doverlo dire perché accada.

Virtù e improvvisazione sono i tratti del lavoro contemporaneo.
Il lavoro è virtuoso – dice Paolo Virno dall’inizio degli anni Novanta –, poiché non si esaurisce in un’opera, l’attività non ha un fine esterno all’attività stessa. Crollato il paradigma del manufatto, del fine e del mezzo per eseguirlo, ci si avvale di quello musicale. L’esecuzione è ripetibile, inesauribile potenza della ripetizione nella sua infinita variazione. Il lavoro esegue se stesso, un’attività che è insieme potenza e atto. Poco importa che resti un residuo, una vaga eco del fine, a ricordarci la sussistenza di un prodotto, di un Cd, di un biglietto per un posto al cinema o al concerto. Ma un lavoro siffatto – continua Virno – esige la presenza altrui. Il paradigma è quello della performance, e dunque l’altro è un pubblico: «In mancanza di uno specifico prodotto estrinseco, il virtuoso deve far conto sui testimoni»1. Da qui il tratto esplicitamente pubblico, dunque «intrinsecamente» politico del lavoro contemporaneo.

È la risposta cinematografica alla quotidiana esperienza del lavoro contemporaneo: chi vedrà la mia bravura? chi osserverà il mio successo? chi ammirerà la mia performance? Solo chi vi prende parte 

Eppure, Wenn aus dem Himmel è privo di pubblico, l’esecuzione c’è ma in una sala vuota. Non ci sono testimoni. È una diversa tensione quella che intende riprendere questo film, affatto divisa tra un polo attivo e uno passivo, tra un esecutore e un osservatore. È semmai proprio il tratto involontario della testimonianza, del ruolo dell’altro come riflesso e conferma di un’azione propria, del rimando specchioso nel quale si è impantanato con lo spettacolo il desiderio di fuga dell’attività dalla regola del lavoro, che questo film intende abolire. L’altro c’è ma non osserva, bensì suona, parla, maneggia, si sposta, ascolta, ribatte: l’altro è relazione. Ed è un’indicazione politica (dunque estetica). È la risposta cinematografica alla quotidiana esperienza del lavoro contemporaneo: chi vedrà la mia bravura? chi osserverà il mio successo? chi ammirerà la mia performance? Solo chi vi prende parte, risponde Fabrizio. La presenza dell’altro sta allora a indicare una dimensione politica, articolata non nella pubblicità, e nella relativa preminenza della visione, ma nella relazione. L’altro del quale oggi qualunque lavoro contemporaneo ha bisogno è l’altro di una relazione. Ammesso che ci siano mai tasti, non ci sono più testimoni (o almeno non volontari), solo esecutori.

Il lavoro contemporaneo è improvvisazione. Assenza di regola. Da qualche parte qualcuno, forse addirittura John Coltrane, ha associato l’atto di improvvisare al gesto di guidare guardando uno specchietto retrovisore: procedere rivolti indietro, come angeli di una storia minuscola, continuamente interrotta dal presente. La strada non si compone di rotte già segnate, di traiettorie prestabilite, ma di continuità e discontinuità, tessiture e fratture rispetto al tragitto che si è appena percorso, alla trama che si è appena disegnata. Più che seguire un disegno o «eseguire» qualcosa di già fissato nella mente, improvvisare significa percorrere ciò che si crea e si dispone dinnanzi, mentre si procede. E significa farlo con lo stesso ritmo e nello stesso modo in cui si seguono le regole di un gioco, ripetendole e disfandole «as we go along». E come ogni jazzista, ogni imbonitore e ogni ciarlatano sa o dovrebbe sapere, non c’è niente di improvvisato nell’atto di improvvisare: solo un enorme sapere acquisito, una tecnica archiviata e incorporata che produce sempre qualcosa di nuovo. Nel lavoro contemporaneo questo sapere ha il nome di «facoltà generica dell’intelletto generale», ed è la potenza di tutti.

As we go along, lo spazio non appare come costruzione di figure e di posizioni prestabilite, piuttosto come un oggetto flessibile, malleabile e manipolabile a cui ci adattiamo e che afferriamo, apprendiamo e nel quale ci ricollochiamo 

Come si improvvisa in due? Come ogni bambino sa, non si tratta quasi mai di un progetto deliberato, di un piano finalizzato, di un accordo sui passaggi, ma di una serie di gesti legati soprattutto all’aspetto delle cose, determinati dalla forma che si percepisce e si apprende. Dalla forma della relazione. As we go along, lo spazio non appare come costruzione di figure e di posizioni prestabilite, piuttosto come un oggetto flessibile, malleabile e manipolabile a cui ci adattiamo e che afferriamo, apprendiamo e nel quale ci ricollochiamo. C’è un canovaccio, che non verte sul contenuto della relazione, questo sì questo no, ma sullo stile. Lo stile della relazione ne fa la regola. Tra i bambini, e forse anche tra gli adulti, è la stessa, l’unica: desiderare di andare avanti. Niente di più noioso di un bambino maniacale che fa il catalogo della successione del gioco, fosse anche per l’istinto di reazione tipico dell’infanzia di provare a ripetere un’esperienza già vissuta di grande gioia. Niente di più noioso del fissarne la durata. Non si arriva alla gioia per regola, né per ripetizione di gioia, qualunque bambino lo sa. Replicare l’unicità non è sedimentarla in un fare, perché quella pratica una volta è stata unica: è replicare quell’angolo della relazione grazie al quale all’uno, all’altro, a entrambi, è dato di continuare a esperire la gioia della relazione stessa. Improvvisare in due non è la stessa cosa che improvvisare da soli. La relazione è insieme ciò che fa lo stile di un’esecuzione, di certo non la somma di due esecuzioni precedenti, ciò che consente, nel rilancio dall’uno all’altro, di produrre l’infinita unicità di ogni prassi, e il risultato stesso della relazione. La relazione è ciò sta prima e ciò che sta dopo. L’opera di una relazione è la relazione stessa, nella gioia della sua esecuzione.

Come ogni ragno fa e sa e come ogni musicista sa o dovrebbe sapere, la trama, la tela, è soprattutto una questione di ritmo, di misura e di frequenza. Per questo richiede e addirittura reclama una lettura implicitamente adeguata, un movimento e un sapere ritmati, una ritmo-analisi. Su una tela si procede così, senza altra bussola che non sia quella fornita dalla strada che si è già percorsa e da ciò che di volta in volta si incontra e si intercetta attraverso i sensi. Il tatto, prima di tutto, e cioè il contatto: le zampe/mani, che diventano veri e propri soggetti. Del resto, «le mani provano sensazioni. Esplorano. Fanno pratica. Ci danno un senso»2. E poi la vista, ma una vista a scartamento ridotto, a raggio breve, concentrata sul qui e ora, qualcosa di simile a un inconscio ottico che guida e riscopre continuamente, ogni volta di nuovo, ciò che vede senza guardare. E ancora il fiuto, come indicatore di paesaggi invisibili, sentieri olfattivi che si sprigionano e compongono direzioni: guidano, segnalano, indirizzano. E soprattutto il rumore invisibile che accompagna la produzione, l’incedere meccanico che le dà ritmo, la scandisce, la immerge nel tempo.

Ma il procedere singolare di un ragno predatore non è lo stesso procedere di un ragno sociale. Vi sono ragni che «sociali» lo sono per natura, è il caso dell’Anelosimus eximius che arriva a costituire colonie fino a diverse migliaia di esemplari. La socialità del ragno non è tuttavia fine a sé, la cooperazione è orientata: alla cattura delle prede e alla loro protezione da altri predatori, alla spartizione del cibo. Di certo il loro lavoro suscita meraviglia: si calcola che alcune ragnatele siano composte da filamenti che, disposti linearmente, possono arrivare a coprire fino a cinquecento metri, un filo lineare di mezzo chilometro con uno spessore di 0,2 millimetri, che occupa uno spazio variabile tra i 100 e i 100.000 centimetri quadrati. Ma ciò che sorprende non sono le dimensioni dell’opera, bensì la possibile conversione delle diverse specie di singoli ragni predatori alla socialità cooperante. In natura non è fenomeno poi così raro, la si chiama «convergenza evolutiva» e accade quando un medesimo ambiente determina in specie diverse comportamenti simili. In natura la relazione la fa la natura. Ma la tela resta. La tela ha preso forma, è diventata uno spazio prodotto, e questa forma invita all’uso, contiene in sé un’impressione che sollecita, interpella. Il ragno lo sa, lo fa, e vive su ciò che produce, nello spazio sospeso che costruisce: uno spazio che si attiva e che lo attiva.

Il potere di costruire spazi a cui aggrapparsi e in cui muoversi, e di produrli mentre ci si muove, è soprattutto una potenza: quella di creare le condizioni del proprio movimento e del proprio mutamento, di scrivere una storia diasporica dentro la diaspora, una trama di continuità e di trasformazioni 

Affordance, si potrebbe dire, per indicare la qualità percepita, l’esperienza tattile di un oggetto che suggerisce a un essere (umano o meno) le azioni appropriate per usarlo, costruirlo e abitarlo. Nel muoversi sulla tela di un ragno, c’è qualcosa di simile a una deriva, a ciò che, dopo Dada, lettristi e situazionisti, chiamiamo psicogeografia. Ma non solo, perché muovendosi il ragno crea le condizioni del proprio movimento, e da qui deriva anche il particolare fascino, il potere che gli è attribuito. Qualcuno, forse Roger Bastide, raccontava di come presso alcune comunità caraibiche e afro-brasiliane, in particolare nello stato di Bahia, fosse venerata l’immagine di San Sebastiano, trafitto da mille frecce e simile per questo ad Anansi o Anancy, potente divinità degli ashanti e di altri gruppi Akan nella regione degli attuali Ghana, Alto Volta e Cote d’Ivoire. E manco a dirsi, ragno. Il potere di costruire spazi a cui aggrapparsi e in cui muoversi, e di produrli mentre ci si muove, è soprattutto una potenza: quella di creare le condizioni del proprio movimento e del proprio mutamento, di scrivere una storia diasporica dentro la diaspora, una trama di continuità e di trasformazioni. Questo affaccendarsi ingarbugliato ha molto di umano e pure qualcosa di comico. Qualcosa che ci porta nei paraggi di Franz Kafka, in mezzo a uomini-insetti il cui «sforzo mostruoso di affermare un sé umano risulta in un sé la cui umanità sarà inscindibile da quello stesso sforzo». In fondo, il movente dei ragni e il rumore impercettibile che lo accompagna e lo scandisce ci suggeriscono anche questo, che «il nostro infinito e impossibile percorso verso casa, in realtà, è già a casa»3.

Il rovescio è un colpo, un gesto. E tutti quelli che giocano o hanno giocato a tennis sanno che non esiste, once for all, una cosa chiamata rovescio. Ma chi gioca o ha giocato a tennis sa anche che il senso di quella cosa o gesto o colpo, in qualunque modo venga definito codificato e insegnato, dipende dall’impugnatura, dall’inclinazione del polso e dal modo in cui si tiene la racchetta,  con la mano leggermente incurvata a fasciare il manico oppure tutta chiusa (al contrario del drive sempre più aperto – infatti stiamo parlando del suo opposto), prima e mentre si impatta la pallina.  Il peso della pallina può fare la differenza tanto quanto l’inclinazione del polso. E quindi, ovviamente, il senso non dipende solo da chi colpisce o risponde. A tennis si è sempre almeno in due, anche se si gioca da soli contro un muretto. Poi sarà il riflesso, l’occhio, lo sguardo nell’attimo dell’impatto, a guidare la traiettoria e a prevederne o auspicarne l’esito – che potrà essere sorprendente, letale, oppure no. Si può provare ad anticipare o invece aspettare. E si tratta di un piccolo spartiacque. Molti, oggi quasi tutti, accelerano, colpiscono prima che la pallina inizi a scendere. Ma alcuni preferiscono aspettare. È una questione di postura, di modi di stare che si apprendono col tempo (dressage), ma può essere anche una scelta dettata dalla situazione contingente, da sensazioni sul momento. Il fatto, vale la pena ripeterlo, è che non esiste un modo, una forma e neppure un termine: non esiste il rovescio in sé, se non in quanto opposto a ciò che si chiama diritto, colpo più esplicito, immediatamente autoevidente – per cui vale però la stessa regola diacritica. Ma se non esiste il rovescio, esistono mille modi di essere del rovescio. Infinite qualità, e una miriade di aggettivi per definirle. E infiniti possibili esiti.

Il rovescio però è anche un’arte. Chiunque giochi o abbia giocato a tennis sa che l’esito di quel colpo dipenderà anche dal modo in cui lo si è assimilato, incorporato, fatto proprio. Può andare, naufragare sulla rete o finire oltre le linee, ma resta il segno inciso, come una trottola che a forza di girare solca e scava la terra fermandosi chissà dove.  Si tratterà allora di apprendere questo gesto, di abitarlo, conviverci e lasciare che ogni volta faccia il suo corso, che descriva la sua storia istantanea. Un colpo è quell’insieme di predisposizione e casualità che fa sì che qualcosa possa accadere. Ma resta tale, l’incontro di due corpi, al di là degli esiti possibili. Jamais le hasard ne abolira un coup des dès.

Una poetica che è luce rovesciata di gioia e delizia a indurre negli umani stupore, e un mondo comune. Non è la natura a fare il poema, e per gli umani non fa nemmeno il sensibile 

Ciò che fa la casa, vale per l’umano vale per il regno, non è allora l’ambiente, luogo di per sé adibito e naturalmente votato, bensì la relazione. Quella trama tessuta dalla relazione e attraverso la relazione che fa desiderare il divenire – «il divenire è sempre un divenire comune, essere accomunati con qualcosa, condividerla, volersi fare della stessa stoffa di cui è fatta la cosa desiderata»4. Torniamo ai bambini: la relazione e l’unica regola valida: il desiderio che continui. Torniamo al ragno: ai suoi sensi e al suo farsi di trama e non alla sua predazione. Fare la trama e farsi nella trama stessa è anche condividere un sensorium, uno spazio che interpella i sensi e produce le condizione della sensibilità, «capace di dare alle cose prosaiche la dimensione poetica attraverso la quale esse compongono un mondo comune»5. Una poetica che è luce rovesciata di gioia e delizia a indurre negli umani stupore, e un mondo comune. Nella misura in cui la poetica è il modo cui «la comunicazione specifica del poema proietta la possibile relazione tra gli umani». Non è la natura a fare il poema, e per gli umani non fa nemmeno il sensibile.

Da qui prende le mosse Wenn aus dem Himmel, nell’orientare (dresser) l’abitudine dello sguardo dal vuoto di verde tra l’uno e l’altro a quella relazione che, proprio perché li separa, fa essere l’uno e l’altro. Mostrare questo spazio fatto di «altri» – fatto di luce e suoni – capaci di improvvisare in cerca non di una regola ma di una gioia è la poetica di Fabrizio. Una poetica amatoriale. Saper dare al rovescio la giusta angolazione. Ogni lancio è perfetto: non si dà per natura.

da Wenn aus dem Himmel… Quando dal cielo, film di Fabrizio Ferraro, collana OPERAVIsiVA, DeriveApprodi

Note

Note
1P. Virno, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 20144, p. 40.
2M. McCullough, Abstracting Craft. The Practical Digital Hand, Mitt Press, Cambridge 1996, p. 1.
3D. Foster-Wallace, Considera l’aragosta, Einaudi, Torino 2006, p. 52.
4P. Godani, La vita comune, DeriveApprodi, Roma 2016.
5J. Rancière, Modernità e finzioni del tempo, trad. it. I. Bussoni in The Lasting. L’intervallo e la durata, a cura di S. Cincinelli, GNAM, Roma 2016.

Newsletter

Per essere sempre aggiornato iscriviti alla nostra newsletter

    al trattamento dei dati personali ai sensi del Dlg 196/03