La crisi dentro e fuori di noi
Critica al cinismo e alle paranoie astratte
Le conseguenze della pandemia sono molto diverse a seconda del gradiente di ricchezza lungo il quale si distribuiscono i paesi e i cittadini all’interno degli stati. Nei paesi con sistemi sanitari meno attrezzati, con fasce di popolazione più fragili a causa del loro stato di salute pregresso, o più esposte a causa del tipo di occupazione gli effetti della pandemia sono catastrofici (vedi ad esempio il caso degli afroamericani, dei malati di Hiv in Sudafrica, dei malati di tumori indotti dall’inquinamento, dei lavoratori dell’economia informale indiani, dei migranti prigionieri in Libia o dei lavoratori industriali lombardi).
Una catastrofe che spesso viene pagata in termini di vita vissuta, autonomia, privacy e libertà, a cui viene opposta la «tutela» della «nuda vita». In termini matematici, i paesi più poveri sono costretti ad abbassare la curva del contagio a bastonate, in quelli ricchi ci si preoccupa di meno dell’ampiezza della gaussiana perché essa non mette in pericolo il sistema sanitario. Mentre nei paesi ricchi e liberali la vita continua, come in Olanda e più in generale in Nord Europa, nel resto del mondo si sopravvive, nel terzo mondo a mala pena. Mentre nel mondo il «bene collettivo» schiaccia completamente l’individuo, «l’individualismo estremo è l’ultimo lusso che si possono permettere i mega-ricchi dei paesi ricchi»1. Esaltare il modello di risposta scandinavo, o quello made in UK o US che è solo una sua variante «privatizzata», è cinico e irresponsabile e non mette assolutamente in discussione la sostenibilità del sistema neoliberista globalizzato. Trarre vantaggi da questo sistema senza condividerne i rischi, le esternalità negative del sistema logistico e di produzione mondiale, è una nuova forma di colonialismo. Non c’è green new deal che tenga!
Altra lettura del momento da attenzionare è quella che potremmo definire paranoia, la tendenza cioè ad attribuire le colpe a qualche Wolf of Wall Street che specula sulle nostre teste. Personaggi che esistono veramente, ma il cui potere non è indipendente dal «cablaggio» tecno-finanziario inscritto nelle nostre reti neurali e virtuali e quindi vissuto nei nostri corpi. Siamo abituati a vedere il potere come un’imposizione dall’alto, eppure come ci insegna Foucault, il potere è una funzione che forma il soggetto, esso diventa la precondizione della sua esistenza e della traiettoria del suo desiderio. Una relazione che precede i relati. In un interessante articolo apparso su Jacobin il 25 Marzo, Il virus è un prodotto del Capitalocene, gli autori criticano chi, in seguito all’emergenza sanitaria ed economica che viviamo, ha attribuito la catastrofe ai processi di distruzione creativa dell’Antropocene, a cui partecipano pensiero, azione, affettività,, in breve lo stile di vita, di noi tutti.
Secondo gli autori considerare la crisi come un’esternalità negativa dell’Antropocene, anziché del Capitalismo, naturalizza un’antropologia votata al profitto che invece è peculiare dell’estrattivismo neoliberista e frutto di deliberate scelte politiche. Un secondo punto della loro critica riguarda l’ipotesi che infondo la crisi siamo noi. Questo tipo di narrazione secondo loro depotenzia la critica al sistema capitalista. In conclusione essi affermano: «Un passo fondamentale in questa direzione, però, è pretendere la piena legittimazione del carattere endogeno al sistema capitalistico della pandemia in corso. Il virus, diversamente da come molti hanno sostenuto nelle ultime settimane, non siamo noi.» La preoccupazione degli autori è comprensibile: evitare di identificare l’umano con l’individuo capitalista per non sottrarre spinta alla critica al capitalismo. Tuttavia, criticare un capitalismo astratto, altro da noi, sconnettendolo totalmente dal suo corpo sociale, noi, affievolisce anzi che potenziare una spinta trasformativa che ci vede tutti (finalmente!) collettivamente responsabili. Viene negato il fatto che il capitalismo di oggi si mantiene soprattutto tramite gli automatismi che abbiamo incorporato. Per iniziare, potremmo chiederci con Adorno e Butler se è possibile vivere una vita buona, vera e giusta in una società capitalista. In altre parole, chi sono i capitalisti? Siamo anche noi? Siamo tutti capitalisti se, e fino a quando, non ce ne renderemo conto.
In molti intuiamo che l’esperienza che stiamo vivendo possa produrre uno scarto dagli automatismi tecno-finanziari fino ad oggi dominanti. Come ci ricorda Judith Butler, infatti: «quando e dove c’è sofferenza o precarietà, essa è presente per essere trasformata nella vita dell’azione e del pensiero». È difficile negare, come farebbe il materialista stricto sensu, che questo processo di cambiamento debba passare anche dal mondo delle soggettività mentre si compie nella realtà oggettiva. Il capitalismo è anche e soprattutto una mentalità e un atteggiamento, un sistema di relazioni di dominio in cui continuamente soggetti e oggetti si co-creano. Si co-creano capitalisti, capitale e perfino gli anti-capitalisti. Potremmo specificare, citando Fisher, che il realismo capitalista ha colonizzato i nostri corpi e le nostre menti: «È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione».
In questo modo la sussunzione mentale conforma gli orizzonti del possibile. La struttura del potere è quindi quell’immaginario sociale condiviso e atmosfericamente condizionato che definisce la probabilità di realizzazione degli stati del mondo, la loro potenza, definendo stati possibili, stati probabili e stati necessari. Non si può cambiare la realtà senza cambiare il potere, quella matrice di probabilità con cui le possibilità «sospese» nel presente vengono «pesate» nella loro proiezione futura. In base a questo processo le possibilità «precipitano» nella realtà solo se in un dato momento acquisiscono un peso specifico sufficiente affinché esse siano perseguibili dagli attori sociali interessati. In altre parole, un futuro diverso non esiste se non esistono donne e uomini che lo pensano possibile e quindi lo desiderano. E Per pensarlo (liberamente) abbiamo bisogno di conoscere (cum-gnoscere, conoscere attraverso i sensi) il presente, di accorgerci che, non essendo isole, ci siamo immersi tutti. La possibilità di penetrare cognitivamente le atmosfere emotive che condizionano la vita di intere comunità è una grande emancipazione della democrazia.
Tuttavia questa conquista non è definitiva e richiede una costante attenzione e curiosità rispetto alle «passioni» che collettivamente viviamo, tutti indipendentemente dalla subcultura di appartenenza, pena la possibilità di derive autoritarie. Sono un esempio di tali derive antidemocratiche la «rivolta delle emozioni» descritta da Colin Crouch nel suo Post-democracy, o il «furor di popolo» che secondo l’ultimo rapporto Censis ha spinto il 48% degli Italiani a desiderare l’uomo forte al potere. Il momento dell’emancipazione, tipico del dialogo democratico e della mediazione politica, segue necessariamente il «come ci sentiamo». Non accettare questo «noi», non riconoscere come tutti soffriamo (sub-ferre, letteralmente trasportiamo) il capitalismo, vuol dire eradicare la possibilità del cambiamento relegando sterilmente emozioni, sensazioni e sofferenza nell’immediato emergenziale di tanti «io» isolati.
Come intuì Spinoza: «è solo stando all’interno della relazione con gli altri che è possibile comprendere e relativizzare le nostre tristezze e le nostre paure». Questo vale anche per l’atmosfera di minaccia del realismo capitalista. Solo questo passaggio dal patico al logico, dall’immediato al mediato, questo incontro (ed eventualmente scontro) dell’io col mondo e con gli altri, fornisce nuovo carburante sensoriale e affettivo al General Intellect. Solo così possiamo allargare lo spettro del possibile.
Note
↩1 | Intervista di Marco Dotti a Miguel Benasayag, La nostra battaglia contro il niente, VITA, 23 settembre 2015. |
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