La figura della madre

«Generare Dio» di Massimo Cacciari

Paola Mattioli, Sara è incinta, 1977, stampa baritata, cm 11,8x17,6
Paola Mattioli, Sara è incinta, 1977, stampa baritata, cm 11,8x17,6 [1 di 16]

Theotòkos, Haghiasoritissa, Panaghia Odigitria, Galaktoprophousa, Platytera; ma anche la Madonna del roseto e dell’umiltà, la Pietà e l’immacolata, la crocifissione, la natività, l’adorazione dei Magi, l’annunciazione, la nascita, la morte, l’assunzione. Si tratta solo di alcune delle più note immagini di Maria. Che davvero pervade l’iconografia cristiana, ai margini o al centro delle rappresentazioni, da sola, o tra santi e angeli. E soprattutto con il figlio. Tanti nomi quante sono le icone: per ogni movimento del volto e del corpo, per ogni gesto di compassione e affetto una didascalia che spieghi e nomini la figura, o meglio le figure della madre, che si moltiplicano, insieme ai titoli, nell’intreccio di culto ufficiale e devozione popolare, nella varietà di stili e stilemi che dispongono la relazione tra Maria e Cristo. È questa ricchezza iconografica lo spunto da cui muove il libro di Massimo Cacciari Generare Dio (Il Mulino/Icone, 2017). Una ricchezza che per l’autore sembra avere a che fare con l’eccesso della figura/icona di Maria rispetto alla parola (p. 11), con la sua capacità di accogliere l’invisibile nel sensibile (ibidem) e, così facendo, di mostrarlo.

E proprio la sua ricezione del Logos invisibile, a cui dà forma e carne, sembra essere in qualche modo il tratto precipuo di Maria, del suo ruolo nella storia e nell’arte cristiane. Dalla scena dell’annunciazione al canto del Magnificat (capitolo II), all’amplissima e multiforme iconografia della madre con il figlio (capitolo V) fino alla Sophia di Florenskij (capitolo IX), Maria diventa, pure nella varietà delle sue rappresentazioni, figura dell’assenso e della sintesi di visibile e invisibile, mortale e immortale, umano e divino. Così, «l’icona dipinge una relazione tra madre e figlio in cui […] l’unità del simbolo è unità dei contrari e unità di differenti momenti», dove Maria, la sua generazione, (il suo utero) rappresentano l’«ombra» (capitolo IV) che fa da contrappunto alla luce e allo stesso tempo funziona come prisma per la sua rifrazione. Antitesi del Logos quindi (ma come l’immagine lo è della parola), indispensabile al compimento del suo disegno di salvezza. Un’antitesi che peraltro sembrerebbe giustificare la distanza che separa l’arte cristiana occidentale – fatta di contrapposizioni e accostamenti paradossali di sofferenza e trionfo, morte e resurrezione – da quella orientale, dove tutto è luce, e tutto è medium della luce, in cui perfino ciò che nasconde in realtà rivela – come è nel caso dell’iconostasi (capitolo IX).

Ora, dei tantissimi modi in cui si può pensare, ed è stato pensato, il cristianesimo – dalla sincronia della fede (per chi crede le sue storie e i suoi misteri si ripetono identici nel tempo: l’eucarestia, la nascita, la morte e la resurrezione, mentre la salvezza è sempre di là da venire, una promessa di ritorno), alla diacronia della linea temporale teleologica o degli sconvolgimenti epocali – l’interpretazione che forse ha avuto maggior fortuna (quanto meno nel senso della continuità e della durata) è quella che legge, in occidente come in oriente, la vicenda storica dell’incarnazione e della morte in croce di Gesù dalla prospettiva del Logos e della generazione del Figlio dal Padre.

Una tradizione multiforme e risalente (nel cui orizzonte si muove per lo più anche il testo di Cacciari), che percorre l’arte e la teologia, che si è formata su di una dialettica antichissima e si è specificata in senso cristiano passando attraverso secoli di scontri dottrinari, eresie e concili che di volta in volta ne hanno ridefinito i termini. Una tradizione che, pure nelle sue complesse articolazioni e varietà dottrinali, pone l’accento sulla relazione atemporale tutta interna al Logos e alla generazione divina, in cui l’incarnazione rappresenta il momento sensibile e visibile di una vicenda che comincia altrove, fuori dalla storia e dalla carne. La formula del Credo ne rappresenta (al di là delle dispute teologiche da cui muove) la formulazione più icastica, in cui la sostanza teologica ruota attorno al rapporto di consustanzialità del Padre e del Figlio, e in cui l’incarnazione rappresenta un momento successivo, epifenomenico, di quel rapporto.

Esiste però un altro modo di leggere la stessa vicenda, o piuttosto un punto da cui osservare l’opposizione che anima, fin dal primo cristianesimo – e anzi, soprattutto allora – il rapporto tra il Logos, il suo linguaggio, la sua generazione da un lato, e l’esistenza materiale del corpo e della carne dall’altro, la loro fragilità e corruttibilità. Un’opposizione senza conciliazione e che anzi approfondisce e radicalizza il paradosso che fonda una delle principali dottrine cristiane, quella delle due nature di Cristo, divina e umana, separate e inconciliabili, che il cristianesimo ai suoi inizi affermava contro le eresie gnostiche che negavano la verità dell’incarnazione. È proprio a partire da qui che la nuova religione rompe in modo radicale con il pensiero antico, e con uno dei suoi assunti fondamentali: la priorità della forma, delle idee, dell’essere eterno e imperituro sul mondo dei fenomeni, secondo cui i principi immateriali e intemporali davano in qualche modo ragione – pur con tutte le difficoltà e gli impacci dell’esperienza. Una priorità che significa innanzitutto il silenzio e l’addomesticamento della materia, che, in quest’ottica, funziona come principio logico-ontologico della corruzione, «ombra» dell’eternità e della durata della forma (per inciso, molto ci sarebbe da dire sul tema dell’ombra a partire dalle fondamentali pagine che Irigaray gli ha dedicato in Speculum).

Ora, al cuore del cristianesimo, per la prima volta nel mondo antico, sta lo spettacolo di un corpo sofferente che muore, nel modo più ignobile, scegliendo nella ricchissima collezione dei supplizi romani – già capace di aprire uno squarcio nella dialettica classica di apollineo e dionisiaco, forma e materia, idea e fenomeno – il più infame e vile: la croce. Al centro della rivoluzione cristiana sta così la vicenda umanissima dell’agonia e della morte. È questa umanità che il figlio riceve dalla madre. La madre che, secondo la dottrina delle due nature, genera – per la prima volta – da sola, mettendo in forma da sé la materia uterina; e che parla (e deve parlare) una lingua differente da quella del Logos, che nomina la materialità della prossimità e del contatto, secondo i modi della metonimia – dove metonimia va intesa qui nel senso che le assegna Muraro in Maglia e uncinetto, come l’asse della significazione che taglia e inquieta l’ordine metaforico. Maria dunque parla e genera, lontano dal Padre: ché le due vicende, perché ci sia davvero salvezza, non devono mai mescolarsi. D’altronde, ricorda Cacciari nell’ultimo capitolo (dedicato proprio alla relazione tutta umana che lega la madre al figlio), «nessun Logos potrebbe farsi carne da sé. Questo figlio è a sua [di Maria] immagine» (p. 100).

A partire da qui, da questa inversione dello sguardo, si comprende meglio perché la tradizione cristiana abbia elaborato così tanti modi di rappresentare Maria, e perché essa si trovi in ogni immagine – al centro o al margine delle scene della croce o della vita del figlio: perché la sua generazione rappresenta la possibilità stessa dell’immagine cristiana, che ha il suo fondamento e il suo cardine nell’Urszene della crocifissione, cioè nella verità dell’incarnazione, della generazione materna. Icone e figure i cui nomi e titoli si moltiplicano nel tentativo di tradurne il linguaggio metonimico in linguaggio del Logos, in una riduzione impossibile dell’uno all’altro. Se allora dalla parte del Logos e della sua economia divina Maria genera Dio, nel tempo della storia e del corpo a essere generato è soprattutto l’uomo.

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