La natura è un campo di battaglia

Saggio di ecologia politica

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Fiamma Montezemolo, Le tre ecologie, 2015

Pubblichiamo qui un’anticipazione del libro di Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, in arrivo in libreria in questi giorni per ombre corte: Di fronte all’annunciato disastro ecologico, è largamente diffusa l’idea che l’umanità debba superare le sue divisioni e lavorare insieme per affrontare le grandi sfide del nostro tempo. Ma come mostra questo lavoro di Razmig Keucheyan, la realtà è molto diversa: lungi dal cancellare gli antagonismi esistenti, la crisi ecologica tende invece a renderli ancora più incandescenti.

Il capitalismo, afferma James O’Connor, ha delle «condizioni di produzione». Queste condizioni non sono propriamente merci, ma consentono che si possano produrre merci. Karl Polanyi, al quale qui O’Connor si ispira, le chiama «merci fittizie», per sottolineare che anche se sono considerate come merci, la loro ontologia è diversa da quella delle merci normali. Per esempio: il lavoro, la terra o la moneta. Man mano che il capitalismo si sviluppa, indebolisce e anche distrugge le sue condizioni di produzione. Se il petrolio – una merce fittizia, qualora ve ne fosse – a buon mercato ha permesso per più di un secolo il funzionamento di quella che Timotyh Mitchell chiama la «democrazia del carbonio»1, la sua diminuzione rende considerevolmente più costosa questa condizione di produzione. Questa spinta verso l’alto del costo delle condizioni di produzione, il fatto che il capitale abbia bisogno di queste ultime ma allo stesso tempo non possa far altro che esaurirle, è ciò che O’Connor chiama la «seconda contraddizione» del capitalismo, quella tra capitale e natura, la prima essendo quella che oppone il capitale e il lavoro2.

Queste due contraddizioni si alimentano a vicenda. Il lavoro umano, in quanto crea plusvalore – valore – trasformando la natura, è la categoria che garantisce come la storia naturale e la storia sociale siano la stessa storia, in altre parole come queste due contraddizioni siano intrecciate. La prima contraddizione porta a una caduta tendenziale del saggio di profitto, vale a dire alla comparsa di profonde crisi del sistema capitalista; la seconda, invece, comporta un aumento dei costi per il mantenimento delle condizioni di produzione, che influisce inoltre sulla diminuzione del tasso di profitto, dal momento che crescenti volumi di capitali impiegati per questo mantenimento, per esempio alla ricerca di riserve di petrolio di sempre più difficile accesso, non sono trasformati in profitti. Lo Stato moderno deve essere inteso come l’interfaccia tra il capitale e la natura, è l’organismo che regola l’uso delle condizioni di produzione affinché queste possano essere sfruttate dal capitale. Senza questa interfaccia, la natura consegnata al capitale sarebbe rapidamente distrutta. Se il capitalismo ha bisogno dello Stato, è dunque innanzitutto per una questione di autolimitazione, ma anche, come abbiamo visto, per costruire la natura. È per questo che il problema centrale di ogni movimento ecologista degno di questo nome dovrebbe essere lo Stato.

Riducendo la scala temporale, la questione può essere affrontato un po’ diversamente. Per il capitalismo, la crisi ambientale non è solo un problema da gestire, che incide negativamente sul tasso di profitto. Può essere anche una vera e propria strategia di accumulazione3. Come ha dimostrato Gramsci, le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo: se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove opportunità di profitti. La crisi ambientale non sfugge a questa ambivalenza. L’uragano Katrina ha per esempio distrutto colossali quantità di capitale, ma ha anche consentito l’espulsione e la messa a profitto di quartieri sino a quel momento popolari e dunque poco redditizi, come pure l’imponente privatizzazione dei servizi pubblici, in particolare le scuole. Ciò vale anche per lo tsunami del 2004 in Asia, che ha portato alla chiusura di numerose regioni costiere e prodotto l’insediamento di catene internazionali di alberghi e ristoranti. Tutti gli esempi citati in questo capitolo, dalle «obbligazioni catastrofe» ai derivati climatici, passando per i mercati del carbonio e gli species swap, dimostrano come il capitale tragga profitto dalla crisi ambientale in corso. Per il capitale, quindi, la crisi non produce solo effetti negativi. «Trarre vantaggio dal caos» è sempre una sua possibilità4. Questo punto di vista, in fondo, non contraddice quello di James O’Connor. Si tratta di due prospettive diverse su uno stesso fenomeno. Nel breve periodo, il capitalismo riesce a trarre profitto dalla crisi, ma la costante pressione che si esercita sulle condizioni di produzione lascia presagire che in gioco ormai ci sia la sua stessa sopravvivenza.

Conclusione

Riassumiamo il percorso compiuto sin qui. Lo sviluppo industriale – il capitalismo – è all’origine della crisi e delle disuguaglianze ambientali. Ma questo sistema produce anche, nello stesso tempo, gli «anticorpi» per poterle affrontare. La finanziarizzazione è uno di questi: protegge l’investimento dalle conseguenze del cambiamento climatico, ammortizza l’aumento del costo delle «condizioni di produzione» cui dà luogo, e consente nel contempo di trarne profitto, in un contesto globale segnato da una crisi economica di lunga durata. La finanziarizzazione è dunque una prima reazione del capitalismo di fronte alla crisi ecologica.

Si tratta ora di occuparsi di un secondo meccanismo che permette al sistema di premunirsi di fronte agli effetti di questa crisi: la guerra. A causa dell’aumento delle disuguaglianze che crea, la crisi ecologica origina nuovi tipi di conflitti armati e nuovi modi di esercizio della violenza collettiva, che inaugurano una nuova era nella storia della guerra. Oltre a finanziarizzarsi, la crisi ecologica si militarizza. I militari sono del resto consapevoli di questa evoluzione. Da alcuni anni, infatti, nelle loro analisi strategiche inseriscono le conseguenze del cambiamento climatico…

Note

Note
1Timothy Mitchell, Carbon democracy. Le pouvoir politique à l’ère du pétrole, La Découverte, 2013.
2O’Connor, Natural Causes, cit.
3Cfr. Neil Smith, Nature as accumulation strategy, in «Socialist Register», 43, 2007.
4Fletcher, Capitalizing on chaos, cit.

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