La relazione fantasmatica

Il corpo e l'opera fotografica di Francesca Woodman

Francesca-Woodman-7

Trahit sua quemque voluptas
(Virgilio)
«Non mi spaventa la realtà, mi spaventa quello che ho nella testa»
(Francesca Woodman).
 

 

La voluttà possiede una forza in grado di trascinare chiunque. Ma da dove arriva questa forza misteriosa e potente e quali sono i suoi confini? Proviene dal soggetto che la subisce e la mette in atto, evidentemente, ma il soggetto stesso in qualche misura vi resiste. È la resistenza del corpo medesimo, della pesantezza della materia, della sua impossibilità a farsi corpo aereo. L’opera fotografica della Woodman si attua in questa resistenza del corpo; il corpo nudo vacilla, si perde, non si raggiunge, tiene per i capelli la stessa propria voluptas. Da una parte la mano tira la chioma verso l’alto, dall’altra il corpo sembra liquefarsi in una distensione quasi di sonno. Corpo teso e corpo molle convivono nella stessa posa, FW (chiameremo così il soggetto fotografico che corrisponde alla persona di Francesca Woodman) si ha e si dà nello stesso tempo, e in questo stesso tempo – inevitabilmente – si manca. È di lato rispetto a qualcosa che non c’è ma di cui restano i segni sul muro come una sorta di scrittura cancellata. Accanto c’è sempre un altro che manca.

Massimo Recalcati segnala che nel Lacan di Funzione e campo «il simbolico coincide con l’al di là del principio di piacere in quanto non è piegato alle esigenze del vivente, essendo piuttosto il luogo (…) di una mortificazione simbolica, appunto, del vivente stesso»1. La simbolizzazione sarà, allora, una funzione in grado di annullare il potere della Cosa, di «uccidere la Cosa»2. Tuttavia, aggiunge Recalcati, il Seminario VII di Lacan costituisce una svolta radicale all’interno della definizione dell’ambito del simbolico che, al contrario di quanto fatto in precedenza, stavolta viene associato al principio di piacere, mentre l’al di là è appannaggio del «registro del reale»3 in cui la pulsione di morte si trova giocoforza accanto all’«alterità radicale della Cosa (das Ding)»4.

In questo capovolgimento di prospettiva, «l’ordine simbolico si definisce come un’organizzazione difensiva rispetto al reale della pulsione di morte, rispetto al reale straniero interno della Cosa». Il simbolico, in questa nuova visione, non ha più il potere di mettere a tacere la Cosa, ma offre una sorta di scudo pieno di significati, una specie di zona franca in cui il simbolo sbarra la porta a quell’Altrove sul quale non si può posare lo sguardo. È un Altro – scrive Lacan nel Seminario VII – «preistorico impossibile da dimenticare (…) che mi è estraneo pur essendo al centro di me»5. Come considerare il corpo di FW all’interno di questo discorso di intimità-estimità? La spinosità della questione è tale perché ha come punto di arrivo naturale la radicale ridefinizione in tal senso dello statuto estetico stesso della fotografia.

Alla luce dei risultati dell’opera di FW possiamo affermare che la fotografia si colloca in un territorio di indecidibilità che si trova ai margini del simbolico e ai margini del reale (che secondo Lacan è sempre inaspettato e traumatico), senza far parte di nessuno dei due registri, senza avere le caratteristiche per essere assorbita nell’uno o nell’altro.

In questo scatto, che fa il paio con il primo, la questione del corpo possibile aeriforme è scavalcata lasciandola intatta, irrisolta. Il corpo-Cosa di Francesca Woodman non risolve il buco nero dell’Altro attraverso una mortificazione simbolica, quindi attraverso l’ambito della parola – i tentativi di ricondurre la sua opera a un universo simbolico chiuso sono innumerevoli6 ma ci appaiono tutti forvianti – ma nemmeno fornisce una strategia di difesa dall’alterità assoluta. Il corpo-Cosa occlude la possibilità di farsi corpo-Posa, i capelli sono incredibilmente tirati da una forza invisibile che proviene da quell’Altrove di cui dicevamo, eppure il corpo di FW è lì, è ancora disponibile per sparire davanti ai nostri occhi. Nessun simbolo è attivo se non per duplicazione, per mesmerizzazione del vivente: lo specchio, il corpo-parete, i pesci, le conchiglie, i fiori, le lenzuola, le figure geometriche che delineano territori, i vestiti. Infiniti raddoppiamenti del vivente e del suo habitat, niente di più e niente di meno, nessun punto fermo, l’ambiguità della zona vitale è intatta.

È per questo che l’opera di FW continua a interrogare i critici, per quel tanto-poco che dalle sue foto non è possibile ricondurre a un ordine simbolico. Il suo corpo è dentro una dinamica di sparizione e, in quanto continuamente in procinto di sparire, esso si offre sempre come un oggetto particolare, un frame indefinibile, spostato, slabbrato. È in queste fotografie ai margini dello statuto fotografico che si attua in modo esemplare quella caratteristica dell’immagine che – col Sartre dell’Immaginazione – potremmo chiamare «un certo modo che ha l’oggetto di essere assente nell’ambito stesso della propria presenza».

La costruzione di questa zona terza di apparizione-sparizione ha molto a che fare con la relazione analizzante-analizzato nel teatro dell’isteria descritto da Lacan. Così come accade nella pratica analitica, anche in questo caso il soggetto osservato (la foto) prende il posto che l’analizzante deve occupare nella relazione di transfert. Spogliandosi dell’identificazione idealizzante del paziente l’analista diventa sembiante dell’oggetto del desiderio, instaurando così una relazione fantasmatica con il paziente. Attraverso una dinamica del tutto simile, FW si pone in posizione agalmatica, attirando lo spettatore nella condizione propria dell’isteria: come direbbe Lacan, il soggetto-osservatore si trova così a «imprigionare questo oggetto [del desiderio] dentro a un intrigo raffinato e il suo ego è nel terzo, grazie al cui medium il soggetto gode di quell’oggetto in cui s’incarna la sua questione».

Il medium è l’ego, ma in posizione di terzietà, quella posizione di oggetto che è l’analista a insegnare, così come è FW a insegnarci a coglierci come oggetti desideranti che, per rimanere tali, devono entrare direttamente dentro il perimetro dello spettacolo fotografico. L’isteria è fatta, il soggetto sfocato e senza sguardo di FW ha preso lo spettatore nella scena. Il corpo della fotografa nella scatola trasparente è precisamente il sembiante, quell’oggetto piccolo a intorno al quale succede qualcosa che resta imprendibile, addirittura indeterminato. Francesca piccola a è il corpo che sfugge, il corpo senza carne di cui non restano che le tracce sul pavimento. Francesca con la faccia contro il muro è l’isterica che sospende il proprio stesso guardarci.

L’oggetto di desiderio è oggetto di sparizione, la Woodman è desiderabile in quanto corpo non-eroticizzato, corpo bambino de-sessualizzato. Desiderabile solo in quanto è un corpo angelicato, un corpo, quindi, desiderabile solo fintanto che l’ego funge da medium e non da parte in causa, solo fino a quando il desiderio passa nelle maglie di un altro che ne filtra la portata. «I could no longer play»: il soggetto supposto sapere non è un soggetto, appunto. È solo un oggetto fotografico, è relazione fantasmatica pura. Non si può recitare (play) la scena, si possono soltanto esperire i suoi effetti, per cui agalma diventa una causa senza soggetto. Non si può giocare il gioco dei significati, ma solo quello dei significanti. «On being an angel», divenire angelo è proprio questo assurdo e insostenibile allontanamento dal significato; ecco perché il viso di FW ci parla continuamente senza poterci dire niente. «Se l’angelo ha un sorriso così stupido è perché nuota nel significante supremo», scrive Lacan nel Seminario XX, e cita a sostegno i due versi di Prevert «Être Ange C’est Étrange». La stranezza sta appunto nell’essere irrimediabilmente stranieri a sé stessi e agli altri.

Lo sguardo di FW guardandoci ci manca, ci supera; dai suoi occhi si dipartono come delle linee di visione pura che, arrivando allo spettatore, non possono fare a meno di forarlo, di oltrepassarlo. FW è il corpo solare che fagocita qualsiasi possibilità di altra simbolizzazione attiva. I pseudo-simboli che vengono ravvisati nelle fotografie non sono altro che simboli passivi di un’apparizione agalmatica del corpo. «Questo è il morto che la soggettività prende come compagno nella triade istituita dalla sua mediazione nel conflitto universale tra Philia, l’amore, e Neikos, la discordia»7. Il morto è l’indecidibile, è ciò che sta angelicamente e animalescamente tra l’organico e l’inorganico. Quella di FW è, infatti, una crocifissione bianca: il corpo bianco reclinato di FW è il corpo che fa della propria morte una mediazione, è il corpo di una vergine de-posta, de-cristianizzata, di una madonna senza Cristo.

Manola Antonioli ha sottolineato un passaggio del romanzo L’Arrêt de mort di Maurice Blanchot, nel quale in una foto del volto di Cristo (colui che nella nostra tradizione è il vivente per eccellenza, sottolinea Antonioli) che appare sulla sindone, il protagonista del romanzo vede soprapporsi il volto severo della Veronica. Blanchot lo descrive come il viso di una donna «estremamente bella e allo stesso tempo superba, a causa di una strana espressione d’orgoglio». Antonioli commenta evidenziando che in questa sovrapposizione si «condensano in modo esemplare tutti gli aspetti di una ambiguità indecidibile tra vita e morte, presenza e assenza, ma anche tra maschile e femminile».

La stessa superbia di FW, diremmo, che in essa diventa quasi neghittosa, oziosa, distratta. Lo sguardo evanescente deposita davanti ai nostri occhi quasi un corpo-spoglia ma che, tuttavia, continua a incarnarsi incredibilmente in un divenire. Ciò che è sorprendente della produzione di Francesca Woodman sta proprio in questa facoltà di autosospensione sempre uguale ma sempre diversa. A differenza di molte operazioni neoavanguardistiche dello stesso periodo, la fotografa statunitense non ha bisogno di adottare uno stilema fotografico fisso, non fotografa per corroborare visivamente una teoria approntata ad hoc; al contrario, sembra che le pose si impongano autonomamente, al di là di ogni marca e di ogni modo, «là dove non v’è più modo» per dirla con Juan de la Cruz.

Corpo pneumatico, capace di gonfiarsi e sgonfiarsi senza sacrificio, se non del significato. Corpo alato di pura leggiadria. Seduta sulla sedia, completamente nuda, Francesca è assente come può esserlo solo chi era presente appena un attimo prima. La posa suggerisce calma, ma la posizione delle gambe e dei piedi fa pensare a un preludio di tensione, a qualcosa che sta per avvenire; metà sedia è vuota, l’altro è sempre accanto mentre il soggetto raffigurato è sempre diviso, preso in quella terra di mezzo in quella che abbiamo chiamato una zona terza.

Note

Note
1M. Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Bruno Mondadori, 2007, p. 9.
2Ibidem.
3Ivi, p. 10.
4Ibidem.
5J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, 2008, p. 84.
6Da quello della gender theory a quello più propriamente femminista, a quello che racchiude l’autorappresentazione del corpo dentro un discorso emancipativo a quello che farebbe di Francesca Woodman una vestale della purezza virginale, e così via.
7J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti. Volume primo (a c. di G. B. Contri), Einaudi, 1979, p. 312.

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