La scissione

Senza solidarietà non c’è redenzione

Claire Fontaine, We are with you in the night  (2008). Courtesy of rhe artist and and Dvir Gallery Tel-Aviv
Claire Fontaine, We are with you in the night, 2008.

Senza dubbio le immagini delle scorse ore, che mostrano frotte di giovani che assaltano stazioni e aeroporti del nord per fuggire dalla quarantena e arrivare a sud prima che scattasse la chiusura della zona rossa decisa dal governo, suscitano un senso di sconfitta e di frustrazione. In un momento in cui si chiede responsabilità e consapevolezza per cercare di rallentare la diffusione del virus ed impedire che il sistema sanitario collassi, queste immagini ci dimostrano che tanti continuano ad essere interessati esclusivamente alla propria condizione, e che i bisogni della collettività non rientrino minimamente nel proprio raggio d’azione.

Eppure, le reazioni istintive hanno sempre un che di unilaterale e ingannevole. Guardando più a fondo, dietro le persone che corrono, si colgono ambienti e atmosfere familiari, che ci strappano a quello che sta succedendo e ci riportano di forza in quei luoghi. I colori e le scale della stazione di Milano, i sedili consumati degli InterCity Notte, stretti l’uno all’altro, lungo corridoi infiniti, lanciati da un capo all’altro dell’Italia.

La maggior parte di noi ha conosciuto quei luoghi e quei vagoni, in cui almeno una volta ci siamo sentiti un po’ stranieri, quando li abbiamo attraversati per studiare, lavorare, fare un colloquio. Le grandi stazioni delle città settentrionali, sullo sfondo dei video che in queste ore ci mostrano giovani che corrono verso il sud, hanno il sapore di una «mancanza», che ci restituisce un po’ la cifra di quel nostro stare nei tanti «nord» del mondo, senza mai riuscire ad abitarli fino in fondo. Quei luoghi portano il segno di una scissione. Spesso ci hanno separato da casa e affetti, facendoci sentire un po’ soli, anche quando ci hanno donato nuove speranze e relazioni, che nei nostri «sud» non avevamo trovato.

Oggi si chiede a tutti di saper stare ancor più soli, di affrontare con responsabilità un problema collettivo per tornare alla vita normale quanto prima. Ma non è la prima volta che sperimentiamo la solitudine. Tanti, fra quelli che oggi chiedono impegno e responsabilità per il bene di tutti, per anni ci hanno raccontato che successi e fallimenti personali sono l’effetto della nostra capacità di investire su noi stessi e basta. Hanno invocato muri e frontiere per difendere i propri privilegi da chi bussava alle porte del mondo. Siamo stati chiamati a vincere sugli altri anche a costo di sperimentare la «scissione» come condizione d’esistenza permanente. La scissione innanzitutto da quella parte di noi che non ce la fa a schiacciare l’altro per affermarsi, che non riesce a stare bene facendo stare male gli altri, che è sempre in difficoltà ad essere il «nord» di qualche altro, ma che è sempre stata troppo a «sud» per riuscire a non cedere a questo ricatto. Eppure, oggi l’unica possibilità è proprio la solidarietà. C’è chi la chiede per rimettere in moto la corsa, per far tornare tutto come prima: del resto, già da parecchio tempo la solidarietà e la cooperazione sono state messe a valore quando favorevoli al profitto.

Ma in tutto ciò sembra celarsi un’opportunità diversa. Nel romanzo capolavoro «La montagna incantata», Thomas Mann ha rappresentato un sanatorio, negli anni che in Europa precedevano la prima guerra mondiale, in cui i malati di tubercolosi, borghesi facoltosi che potevano permettersi le cure della ricca istituzione, erano dediti alla perdita di tempo e alla soddisfazione delle esigenze biologiche, continuamente esasperate. La malattia, lì su quella montagna fuori dal mondo, veniva assunta come stato di elezione. Eppure, essi erano malati già prima di accedere al sanatorio, cullati dagli agi dell’esistenza borghese, senza alcuna intenzione di prendersi la responsabilità di fare qualcosa, in una scissione fra corpo e spirito che la montagna incantata ha soltanto amplificato e fatto venire alla luce. Sarà solo quando si troverà più vicino alla morte che Castorp, il protagonista del romanzo, si avvicinerà al positivo, abbracciando la vita nella sua totalità, che significava cogliere le sfide del proprio tempo, ricomponendo la scissione.

Recuperare la totalità dell’umano avrebbe significato, per Mann, negli anni seguenti, opporsi con forza al fascismo: una rivoluzione «della pura violenza», un «nulla spirituale», una malattia che scinde gli uomini dal loro spirito, proprio come aveva fatto il morbo sulla montagna incantata. Siamo oggi davanti ad una sfida cruciale. La solidarietà, l’adozione dei comportamenti indispensabili per frenare il virus, non servono a ripristinare l’ordine interrotto. Significa, invece, schierarsi in una lotta comune per un’umanità diversa, che sa stare da sola, se questo serve a far star meglio gli altri. Che sa vivere nei recinti, se questo può servire, quando tutto sarà finito, ad abbattere i muri e a costruire insieme un mondo in cui nessuno resti escluso. Che sa abitare la «mancanza», perché ha già sfidato i confini, e sa che la nostra esistenza è segnata dagli altri. Siamo tutti fragili, ospitati da un mondo che ci espone ad eventi e situazioni di cui non siamo padroni, e senza solidarietà non c’è redenzione.

 

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