L’aderenza alle cose

Per un’eterotopia poetica

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Marta Roberti, Natural assemblage 3 (2019). Foto di Giorgio Benni.

Quando il senso di una crisi traluce nella povertà di un linguaggio, le risorse a disposizione sono minime. Ed è così che una tradizione più che secolare di teoria politica perisce perché priva di parole. Quella parola, d’altro canto, che è in continuo stato di accusa: si potrà mai dire «giustizia» o «pace» o «libertà» senza rischiare con ciò stesso di star prestando servizio al suo opposto?

Il secondo Novecento è stato il cinquantennio della messa a nudo più spietata della coscienza infelice del lessico democratico, soggetto sfuggevole eppure esposto allo scrutinio inclemente della critica decostruttiva, che in esso ha trovato l’ennesima forma malcelata di conferma dell’esistente. Decostruttivismo, postcolonialismo, archeologia dei saperi tirano via la patina scolorita delle teorie politiche progressiste per mostrarne la correità tanto più brutale quanto più inconsapevole. La teoria politica democratica ne è uscita sconfitta e sconfessata: quello strumento nato per mappare (e per alcune/i denunciare, o persino sciogliere) i coaguli di potere ha funzionato meglio del fattore di von Willebrand, quella proteina cioè che consente di riparare la lesione cutanea e fa da ponte tra una piastrina e l’altra per favorire la formazione di un nuovo coagulo. Una critica così radicale non risparmia nessuno, men che meno la teoria della democrazia, precipitato della ragione illuminata d’altri tempi. Neppure lei può più sottrarsi al sacrificio di sé, alla sua autoabolizione, che sola è in grado di grattare via l’umanissima tendenza a giustificare proprio quello che si finge o, peggio ancora, si crede di star criticando.

Sarà per questo che la teoria politica, sempre meno capace di parlare e sempre più propensa a contaminazioni d’ogni sorta, cerca risorse fuori dai canoni compromessi della sua stessa tradizione. Con la sapienza millimetrica di chi sa misurare le oscillazioni, registra le scosse prodotte sul suo terreno da saperi, vecchi e nuovi, che sfaldano i territori segnando nuove linee di confine. Vale su tutti l’esempio di animali, piante e oggetti inanimati, che si fanno spazio tra le faglie di una politica che aveva saputo interrogarli solo tramite la presa di parola di chi – comunque umano – li possedesse oppure volesse farsene portavoce. Così, la politica, la teoria politica, si rianima, abitata da nuovi coloni, protagonisti inconsapevoli di un colonialismo settler, di popolamento, che le restituisce risorse e avvia nuove colture, sempre più ibride.

Ed è così che anche la poesia si fa fucina di sapere politico: per suo statuto capace forse di assoggettare a un metro, ma che al bisogno sa liberarsi pure di quello, essa vanta un’abilità che fa invidia alla teoria politica, ossia quella di saper dire – senza alcuna teoresi – «qualcosa di decisivo per il significato di questo presente»1. Per l’appunto, la poesia torna fucina del sapere politico proprio perché, a parere del chi che qui scrive e parla, essa non ha bisogno di un reticolato linguistico trincerato dietro la fragile sistematicità delle scienze sociali, ma accetta che chi scrive e parla sia un «coso»2, registri sé stesso come oggetto senziente in un quadro risolutamente panpsichico (o panesperienzialista), dove cioè non è solo l’essere umano che «sente» ed «esperisce», ma l’esperienza è diffusa, diffratta nell’intreccio potenzialmente infinito di cose.

La poesia assolve così un compito che per la politica è ingrato: parla senza farsi portavoce. La poesia registra l’intreccio articolatissimo di «cose» che solo assieme acquistano un’identità (ossia in virtù dei loro infiniti legami, che danno un posto ad ogni cosa, dotandola così di una «storia», di un prima e di un poi) senza però commettere l’errore duplice di parlare per il tutto o parlare solo per sé. All’opposto: la poesia, parlando di sé, non per sé, esprime il tutto, senza parlare per il tutto. E con una mossa irriverente che solo la poesia può permettersi, essa si disfa della pesantissima mereologia del «tutto» e delle «parti»: la poesia non parla a tutto, né del tutto, né per il tutto. Parla a chi si ritrova ad ascoltare.

Sarà per questo, di nuovo, che un libro di poesia, oggi, può leggersi come un trattato politico. Trattato cosologico-politico, meglio, in cui quel che si registra è solo il movimento delle cose, la loro tacita ma vistosa grammatica politica. E sarà per questo che il trattato in questione si chiama Teoria delle rotonde, di Italo Testa (Valigie rosse, 2020). La chiave sta in quel verbo programmatico che cambia lo statuto di una disciplina: «documentare» (p. 12). E senza temere la concorrenza di studi ben più attrezzati di categorie tradizionali, si propone come sorta di «Appunti per un saggio sull’Italia contemporanea» o persino, tentando una sortita nell’empireo delle grand theories, «saggio sul nostro paesaggio umano, e naturale, e civile» (p. 11). E il saggio mette subito in scena uno scontro titanico, atavico, tra il tentativo di bloccare i flussi, ovvero i «cancelli», le «barriere», i «recinti» (che cadono preda dell’ingegno di chi avrebbe dovuto caderne vittima «A Benevento, 12 agosto, arrestati tre rumeni perché rubavano cancelli (e porte, e ringhiere)», p. 15) e il movimento circolare della rotonda, che produce una politica più fluida eppure non meno efficace.

• teoria delle rotonde • nella città playmobil • la provvisorietà
dello spazio • la strada componibile • e l’immissione • nel
lego urbano • delle rotonde • o rotatorie • chi è già dentro
• può continuare a girare • andare in tondo • chi è dentro
• è dentro • la precedenza • a chi è già incluso • declino
della ripartizione • dell’equità • dei diritti di precedenza •
tramonto • della regolazione impassibile • dei semafori •
della distribuzione • del tempo • (p. 27).

La poesia – intimamente politica – documenta nel movimento circolare di una rotatoria la liquidazione, o liquefazione, di un’intera civiltà del diritto. Così facendo, Testa dice davvero qualcosa di decisivo per il significato di questo presente: l’ordine si produce oggi in modo diverso, in modo diverso quantomeno dagli schemi della politica moderna e tardo-moderna. Un ordine che sfugge alla teoresi politica classica, perché il metodo di quest’ultima non ne intercetta i flussi. La documentazione di cui si fa autore Testa, quindi, ha un risvolto metodologico di primo rilievo. Provo a sintetizzarlo.

L’ordine spaziale, caposaldo della tradizione politica (almeno una certa tradizione politica), per cui la mappa del potere si incarna in geometrie cariche di imperativi simbolici, cede a quel movimento che Michel Serres definisce un’indispensabile sostituzione – innanzitutto metodologica – della meccanica dei solidi con l’idraulica3 (sostituzione a suo avviso decisiva per comprendere il mondo mediterraneo antico, ma che forse torna oggi di una qualche rilevanza, e che certo spiega meglio il movimento della rotatoria). La poesia politica di Testa, facendo proprio il movimento dei liquidi e abbandonando gli spazi solidi, cerca così di aderire al movimento delle cose, per documentarne i processi interni, le forme che le cose prendono quando si legano tra loro, le loro configurazioni, che pure producono una politica vigorosa ed efficacissima, come mostra la rotatoria: «la sparizione • delle strisce zebrate», «gli attraversamenti pedonali • rimossi • dalle intersezioni», «l’espulsione dei pedoni • dalle strade • costretti • a lunghe deviazioni», «le città ridisegnate • a misura d’auto» (p. 33).

La metodologia di Testa non esalta quindi un mondo più virtuoso, che si sottrae alla logica della retta e della divisione per spazi recintati, ma segue un movimento che descrive un altro ordine, parimenti politico, parimenti carico di inclusi ed esclusi. Per capire quell’ordine, però, c’è bisogno di sostituire la geometria meccanica della teoria politica novecentesca con la documentazione dei processi. Non sorprende d’altro canto che l’invito di Serres riecheggi nella cosologia di Testa, se è vero che ambedue amano quella visione processualista del reale, per cui la realtà è un continuum che prende configurazioni a seconda delle forze impresse su di esso dagli enti che lo abitano. Forze interne, quindi, che fanno pressione da dentro, e che non si dispongono secondo il volere ordinante della vecchia geometria dei solidi, in cui forze esterne compattano un materiale inerte.

Così, Teoria delle rotonde, quando rivendica per sé stessa sia la capacità analitica dello studio documentale sia l’avvedutezza del trattato metodologico, sa di poter contare su un metodo d’indagine che la poesia, assieme a poche altre discipline, riesce a padroneggiare: l’aderenza ai processi entro cui si formano le cose. A questo fine, la parola – quella del linguaggio geometrico, ordinato, tassonomico – è del tutto inadatta. La parola della poesia non descrive, non categorizza e men che meno denuncia. Essa va sulle tracce di una vita senza geometrie riconoscibili, che segue flussi dinamici capaci di segnare configurazioni sempre nuove, che resistono a qualsiasi potere classificatorio:

Si immagini una forma di vita.
Una forma di vita di cui vi è un solo esemplare. Un solo
portatore.
Come si potrebbe condividerla? Darne conto?
Una forma di vita eventuale. Possibile. Impossibile.
Un verso l’esibisce (p. 103).

Una poesia che riconosce solo l’esibizione e chiude la porta alla parola che descrive:

Ogni giorno, quando il bisogno di effrazione si rinnova,
l’ottusa ontologia del linguaggio si spezza. Allora si è la,
nel mezzo, esposti alla pluralità senza scampo: quanto più
le lingue, i codici si moltiplicano, si ibridano nelle povere
teste allo sbando, tanto meno queste stanno solo con se
stesse. La noia limacciosa di una lingua che parla di sé
e nient’altro turbata, ancora una volta, dall’urto delle
esperienze. D’un soffio, almeno, poter sollevare la testa,
sognare che non sia solo palude (p. 103).

E dinanzi alla débâcle della parola ordinante, la poesia, impietosa, sa trarre il proprio vantaggio:

Non si sa se è la vita che si va a raggiungere. Consegnati si
resta pur sempre a un adombramento, ma per fuoriuscirne.
Sensi, suoni, segni: inquadrarli esattamente, torcerli con
astuzia. Nella mischia gettarsi in un corpo a corpo, rubare
il bottino e fuggire (p. 108).

Così facendo, la documentalità della poesia sa indagare quel vitalismo, assai poco metafisico e oltremodo fisico, delle forze interne ai processi dinamici; forze così intense da poter contraddire persino quella freccia del tempo che sembrerebbe imprimere alla vita un movimento direzionale non reversibile:

raggiunta la maturità sessuale, in fase medusoide, turritopsis
nutricula scende sul fondo del mare, adagiandosi sul fondale,
regredisce a uno stadio totipotente, invertendo il ciclo vitale,
regredisce allo stato giovanile da cui si era sviluppata, alla fase
di pólipo, uno stadio totipotente da cui, per differenziazione
cellulare, torna a moltiplicarsi (p. 45).

Il lessico e il metodo della politica poetica (chi legge scelga il suo sostantivo e il suo aggettivo), fondati sull’aderenza ai processi, sono così ricchi che possono seguire i movimenti più impervi delle cose quando assumono certe configurazioni per poi perderle ed entrare in forme diverse in altri processi. Ulteriore lezione processualista: l’apparente puntiformità degli enti – che sembra dotarli di un’identità stabile, matrice di persistente riconoscibilità – è, per l’appunto, apparente. Siamo quel che siamo, quando lo siamo, per le cose cui ci leghiamo, quando ci leghiamo ad esse. L’aderenza poetica esibisce queste transizioni di fase, senza però assegnare i diversi enti-punto a tassonomie ferme. La poesia processualista non solo riconosce al processo la totale impermeabilità a ciò che vuole fissarlo, ma fa sua questa tendenza alla reintegrazione in altri processi, che disintegra qualsiasi presunta identità stabile.

È in ragione di questa applicazione radicale del credo processualista a sé stessa che la poesia si concede uno scantonamento cui nessuna teoria consolidata saprebbe sopravvivere. La poesia è eterotopia confessa: si fa luogo ospitale, soggiorno vitale che apre uno spazio carico di sole forze interne, ma che non pretende mai di rimanere tale, stabilmente pubblica, sacrario di una vita comune:

Considera l’ipotesi che le poesie a volte non siano altro
che siti di stoccaggio di rifiuti verbali ultratossici. A che
cosa varrebbe? A disinfestare la mente? A liberare questi
luoghi dai detriti, e lasciare che le cose si mostrino?
Considera l’ipotesi che le poesie siano luoghi eventuali. In
questo spazio qualcosa deve poter accadere, fare irruzione,
sovrastare: i detriti trasfigurati, di più, cancellati. Negazioni
determinate di se stesse, del loro proprio luogo. Perché è la
spazialità concreta ciò che più di tutto sembra distinguere
il testo poetico dalle altre forme di espressione. Come
questo spazio è occupato, una determinata disposizione
delle parole, certi pieni e certi vuoti. Questa forma conta,
fa la differenza. È così che crediamo di riconoscerle,
a colpo d’occhio. Stanno lì, nel mondo, sono dei luoghi
espressivi altamente connotati e differenziati, su cui
più individui possono transitare, fermarsi per un poco,
esplorarli, prendere congedo. Ma si deve chiedere di più:
se di questo luogo non ci dimenticassimo, se non sparisse
alla vista, se non si negasse nello stesso momento in cui
si affaccia alla mente, della poesia non ne sarebbe nulla,
nulla accadrebbe (p. 116).

L’invito è di una mirabile sobrietà: rilasciarsi alle forze interne dello spazio poetico, saperlo abitare per il tanto che dura il nostro attraversamento, dimenticarsene poi. La cifra dell’accadere poetico, come esperienza, sta nel suo ritorno non certo nell’oblio, ma nelle forze indistinte del processo continuo di cui noi stessi siamo parte. Ci facciamo configurazione (per i nostri sensi) puntiforme quando lo abitiamo, ci rilasciamo poi a un processo in cui la poesia non c’è più e c’è altro. Il nostro passaggio nello spazio poetico, certo, ci rende qualcosa di diverso. Ma la poesia non pretende un assoggettamento imperituro, memoria e obbedienza. Non è quello l’ordine che interessa alla poesia. A questa interessa entrare nel reticolo potenzialmente infinito di cose che ci fa essere quel che siamo. Non importa se, nell’apparente nuova puntiformità, che segue l’uscita dallo spazio poetico, di essa non rimanga memoria.

Teoria delle rotonde giustifica così il crescente ricorso della teoria politica contemporanea ai semenzai di altre discipline. Fa politica in modo deciso: propugna una metodologia, l’applica con coerenza a sé stessa, ne riconosce gli esiti radicali. Politica a tutto tondo, quindi, che più dei venerandi ma ormai, e inevitabilmente, artritici canoni del Novecento si ripromette di penetrare i segreti dell’ordine delle cose. Senza parola; pura esibizione. Una documentazione puramente esperienziale.

Questo lo spazio politico che Teoria delle rotonde apre. Non resta che attraversarlo, aderire ai movimenti cui ci dispone, e aprirsi al prossimo viaggio.

 

Note

Note
1Franco Fortini, I poeti del Novecento, a cura di Donatello Santarone, con un saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo, Donzelli, 2017, p. 257.
2«Chi sono? È tanto strano / fra tante cose strambe / un coso con due gambe / detto guidogozzano!»; Guido Gozzano, da «Nemesi», in La via del rifugio, cfr. Guido Gozzano, Le poesie, a cura di Edoardo Sanguineti, Einaudi, 2016, p. 69).
3Michel Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, 2000, p. 15.

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