L’alcolico futuro anteriore del Console
Sotto il vulcano
Under the Volcano, Sotto il vulcano, l’epopea poetica, commovente, ironica, esaltata, amara, funerea e lancinante di Geoffrey Firmin, il Console dimissionato dell’Impero britannico, è «il» capolavoro senza tempo, eppure immerso completamente nel «suo» tempo, tra il massacro civile spagnolo e quello mondiale, scritto e riscritto per dieci anni (1938-1947) da quell’inesausto bevitore che fu Malcolm Lowry (1909-1957), tradotto in italiano nel 1961 da Giorgio Monicelli, pubblicato nell’Universale Economica Feltrinelli in quell’annus mirabilis/horribilis che fu il 1977 italiano e ora reso in una nuova versione, ancora da leggere, da Marco Rossari, sempre per Feltrinelli.
Si narra in dodici atti di una sola giornata, quella dei morti, il 2 novembre 1938, trascorsa dal nostro amato Console, al contempo solitario e accompagnato, taciturno e logorroico, sempre irrimediabilmente attaccato o alla ricerca di un bicchiere, di una bottiglia, immerso in una scrittura lussureggiante come l’immaginario paese messicano situato all’ombra dei due vulcani, dove è ambientata questa «Divina Commedia ubriaca», ingegnosa erranza da novello Don Chisciotte in dialogo permanente con il suo personale e invisibile angelo custode Sancho Panza.
Scoprii questa meravigliosa opera e il suo immaginifico autore grazie a un articolo uscito su La Repubblica sul finire degli anni Ottanta della nostra fulminea illuminazione adolescenziale Teenage lightning, forse all’indomani della fine dell’immortale Andrea Pazienza, trentanni fa. Pochi anni dopo ritrovai il Console tra le pagine di Fughe da fermo (Bompiani, 1995) prima prova, che a quei tempi mi sembrò potentissima, di Edoardo Nesi.
E siccome il Console beve continuamente mescal, distillato ottenuto dal cuore della pianta di agave, ho sempre pensato che fosse lui il riferimento occulto dell’etichetta musicale indipendente mescal, per la quale Massimo Volume di Emidio Clementi realizzano sempre nel 1995 Lungo i bordi, disco formidabile a cominciare da Il primo dio, dedicata a quell’altro sconosciuto poeta di Emanuel Carnevali: «Emanuel/Primo dio/Rimbaud/Preghiera a cose più belle di me/Rimbaud/Avvento della giovinezza/Immagine perfetta/Sensazione perfetta/È nella pioggia, oggi, il vostro grido».
Ma il Console beve di tutto lungo tutto il libro, anche birra gelida, da far male, eppoi tiepida, evaporata, quindi whisky, vino, tequila, anice, stricnina, fino a «una bottiglia ancora intatta di lozione per capelli […] «Non c’è male. Proprio non c’è male» soggiunse trionfalmente, facendo schioccare la lingua. «Anche se un po’ troppo leggero… Assomiglia un poco al pernod. Un amuleto, comunque, per difenderti dagli scarafaggi galoppanti. E dallo sguardo poligonale, proustiano, di scorpioni immaginari. Aspetta un momento»… ah il pernod… E questa è ancora la storica traduzione, tra le decine e decine che fece, di Giorgio Monicelli, fratello maggiore di Mario, celebre anche per aver fondato nel 1952 la collana Urania di fantascienza, termine che coniò egli stesso, l’altro Monicelli, appunto.
Tutto questo per dire che, se anche la mia prima lettura del Console di Malcolm Lowry fu quella di un teenager «fulminato», come è stato per molti, la sua rilettura mi ha accompagnato negli anni, ogni volta stupendomi per mirabili passaggi completamente dimenticati e impetuosi ricordi, ancora più scintillanti alla rilettura. Perché il «mito del Console» resiste alla giovinezza e si affina negli anni, come un ottimo distillato in proverbiali botti. Come nel tempo letterario mi è capitato poche volte, non a caso proprio a partire da autori e letture presenti nello scostante monologare del Console: il Quijote di Cervantes, sopra e contro tutto e tutti, le poesie di Baudelaire e Rimbaud, certo Shakespeare e Goethe. Ma poi, oltre, per me: quel che sono riuscito a leggere di Leopardi, con l’incantata e sublime guida dell’Antonio Negri di Lenta ginestra (sempre quegli anni, 1987, un secolo e mezzo dalla morte del Recanatese), quindi Thomas Pynchon e i suoi protagonisti appassionati di marina, come Lowry, e Thomas Bernhard con il suo implacabile incedere nella ripetizione ossessiva e fulminante. Autori che ti fanno «sentire il fuoco della tequila scorrer[e] lungo la spina dorsale, come la folgore che colpisce un albero, il quale subito dopo, miracolosamente, si mette a fiorire».
Si tratta di quello «straordinario indurimento del presente» vissuto nell’«alcolismo [che] non appare come la ricerca di un piacere, bensì di un effetto» per dirla col Gilles Deleuze lettore appassionato dei due autori alcolizzati Fitzgerald e Lowry, appunto, porcellana e vulcano nel suo Logica del senso (1969). Entrambi persi in un tempo fatto di passato prossimo e futuro anteriore: l’avvenire prolungato, come il passato prossimo, cessa di appartenere all’uomo. Ci si può solo perdere, perché, «naturalmente, ogni vita è un processo di demolizione» (F.S. Fitzgerald, The Crak-Up, tradotto in francese con La fêlure, l’incrinatura, come è stato poi reso anche in italiano. Così Fitzgerald non arriva ai 45 e Lowry morirà a 48 anni imbottito di sonniferi e gin). E allora torniamo a rileggere Sotto il vulcano, nella sua nuova traduzione, in queste settimane che ci portano al ventennale di uno scanzonato quasi-omonimo Jeffrey the Dude Lebowski, che con i suoi White Russian è per noi sempre stato un epigono solare e ozioso del cangiante e dinoccolato Geoffrey Firmin.
Certo intorno il Console non ha l’eccentrica esuberanza di Walter, né il placido accenno di demenza di Donny amici fraterni di Lebowski, ma è piuttosto «abbandonato dagli amici, come lo sono già gli amici da lui», perso in un gorgo verso l’abisso nel quale precipita progressivamente, accompagnato da un pullulare di personaggi e incubi. Hugh, il suo giovane e continuamente deriso fratellastro, «marxista professionale da salotto», e l’amico d’infanzia Jacques Laruelle, entrambi in diversi tempi amanti di quella che è il vero motore immobile del continuo perdersi del Console, la sua splendida, amata (ex) moglie Yvonne e quel loro persistente, ininterrotto dialogo mancato, sia in presenza che nelle lettere scritte e mai reciprocamente lette. No se puede vivir sin amar.
È questa incapacità di parlarsi, di trovare insieme risposte all’eterna domanda insensata su cosa sia la vita – tutta qua, la vita? – che accompagna in un crescendo entusiasmante le pagine di Sotto il vulcano il cui inizio passa per essere faticoso, ma è proprio nell’avvio del secondo capitolo che troviamo questo splendente scambio da rileggere e commentare ancora una volta, prossimamente, nella nuova traduzione:
Dio sa che ti ho già visto così infinite volte, i pensieri di lei stavano dicendo, l’amore di lei stava dicendo, nella semioscurità del bar, «troppe volte perché tutto questo possa comunque rappresentare una sorpresa. Tu mi stai rinnegando ancora. Ma questa volta c’è una profonda differenza. Questa è come un’ultima rinnegazione… oh, Geoffrey, perché non puoi ritornare indietro? Dovrai continuare così, sempre così, all’infinito, a camminare in questa stupida tenebra, cercandola, anche ora, là dove non posso raggiungerti, sempre più a fondo nella tenebra della separazione, della scissione! Oh Geoffrey, perché lo fai?
Ma dammi retta, diamine, non è poi tenebra del tutto, il Console parve dirle in risposta […] Tu non mi capisci se credi che siano tutte tenebre quelle che vedo, e se insisti nel crederlo, come posso dirti perché lo faccio? Ma se guardi la luce del sole là, oh, allora forse avrai la risposta, capisci, guarda il modo in cui essa penetra attraverso la finestra: esiste bellezza paragonabile a quella d’una osteria a primo mattino? I tuoi vulcani fuori? Le tue stelle… Ras Algethi? Antares che infuria a sud-est? Perdonami, no.
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