L’enigma del giardino

Etica e conoscenza nell'architettura del giardino: un libro di Hervé Brunon per DeriveApprodi

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Andreco, CLIMATE 04. Sea Level Rise, 2017 – photo Like Agency

Giardini di saggezza in Occidente, di Hervé Brunon, è un condensato di coltissime argomentazioni filosofiche e storiche, intrecciate a ubiqui rimandi alla cultura del giardino occidentale. È un libro densissimo, un concentrato di idee, proposizioni, citazioni letterarie, artistiche e, naturalmente, giardinistiche che danno ebbrezza. Non avendo, mio malgrado, sufficienti chiavi per addentrarmi nelle dotte questioni filosofiche che il libro inanella, mi limito a leggerlo con i soli codici interpretativi che io possegga, quelli del progetto di architettura dei giardini. E, per inciso, la possibilità di accedervi ricorrendo a grimaldelli diversi – siano quelli della storia del pensiero, delle dottrine teologiche, dell’arte poetica, così come del progetto, per l’appunto – è tra i pregi di questo libro, in un’edizione italiana, quella di DeriveApprodi, come sempre preziosa, qui generosissima nella cura di puntuali riferimenti bibliografici in lingua, che ben facilitano l’orientamento.

La tesi di Brunon – l’intreccio tra la fruizione e creazione di giardini e l’esercizio della saggezza – si colloca su un orizzonte di senso che è patrimonio storicizzato e condiviso della cultura occidentale, in senso ampio, ben oltre l’ambito ristretto degli specialisti: è l’idea che il giardino rappresenti e, insieme, costituisca un luogo prezioso, protetto, addomesticato, accogliente, confortevole, oltre che, naturalmente, bellissimo; dunque, che il giardino, sin dalla notte dei tempi, restituisca l’Eden, l’ideale salvifico del paradiso terrestre.

Il giardino è un trucco che ci siamo inventati per raggiungere la felicità 

Converrete che si tratta di una convinzione diffusa e pervasiva, propria dell’immaginario del giardino che ciascuno possiede, come impresso nel nostro stesso codice genetico: il giardino è un trucco, che ci siamo inventati per raggiungere la felicità, allontanarci dalle inquietudini del mondo, dagli affanni e dalle preoccupazioni, conciliare le tensioni interne e riguadagnare fiducia nella bellezza e nella bontà dell’universo.

Per verificare quanto questa idea fosse radicata nei giardini del passato lontano, quando non siano giunti sino a noi, dobbiamo affidarci ai racconti straordinari di chi li abbia visitati e il libro di Brunon, in tal senso, è traboccante di splendide testimonianze. Ma chiunque a New York abbia varcato i recinti del Paley Park (1967) o dello Sculpture Garden (1953) del MoMa («A mere glimpse restores my sagging soul», ne scriveva Lillian Gerard sul «New York Times» nel 1975), come della Serpentine Gallery nella versione Zumthor-Oudolf (2011) a Londra alcuni anni fa, o del più prossimo Giardino degli Ulivi (1952) all’EUR, qui a Roma, solo per citare due o tre casi, sa bene di che si tratti: non vi è dubbio che – nelle parole di Jean Delumeau che Brunon ha raccolto nel volume – «un legame pressoché strutturale unisca felicità e giardino», fondandosi su invarianti, per l’appunto strutturali, inerenti la materia più profonda di cui sono fatti i giardini, tanto da essere trasversali a coordinate storiche e geografiche, a linguaggi, scuole, sensibilità di autori singolari.

Sbaglieremmo, se liquidassimo la questione del legame tra giardini e felicità riducendoli a talismani per mitigare la frenesia della metropoli o all’equivalente di digestivi postprandiali 

Tuttavia, sbaglieremmo – credo anche parecchio – se considerassimo questa tesi tranquillizzante, rassicurante o consolatoria; se dalle pagine dense di questo libro traessimo la convinzione che alla fin dei conti un giardino ci salverà, nella misura in cui ci terrà lontani dalle paure mondane, dalle inquietudini del nostro tempo, dalle tensioni che agitano le nostre vite individuali e collettive. Sbaglieremmo, se liquidassimo la questione del legame tra giardini e felicità riducendoli a talismani per mitigare la frenesia della metropoli o all’equivalente di digestivi postprandiali, quelli miracolosi «contro il logorio della vita moderna». Credo si possa rinvenire proprio nel binomio giardino/saggezza, su cui questo libro si costruisce, la chiave per sgombrare il campo da ogni possibile malinteso.

Mi è difficile parlarne senza banalizzare la ricchezza di argomentazioni di Brunon, ma l’essere saggio è, in fondo, la qualità di colui che, per esperienza e meditazione sulle cose, sappia perseguire il bene attraverso il proprio comportamento morale. La saggezza non può dunque prescindere dalla capacità di discernimento, di giudizio avveduto, quindi dalla consapevolezza, che consente di sciogliere gli enigmi dell’esistenza e indirizzare l’azione, come coerente conseguenza. Dire che la saggezza è capacità di discernimento può significare, in altre e più semplici parole, che essa consista nel sapersi fare delle domande, delle buone domande, per poi muoversi con cautela e sagacia nel cercarvi risposte operanti.

E allora, non possiamo attenderci che i giardini siano rassicuranti ripari e baluardi di armonia. Al contrario, proprio quando permeati di saggezza, i giardini sono ami lanciati nell’inquietudine: è lì che vanno a pescare. Non sono sedativi o anestetizzanti. Ci inducono al discernimento perché ci interrogano, ci fanno le domande giuste, spesso tanto più efficaci quanto più irrituali e indiscrete.

Nelle parole di Paul Ricoeur citate da Brunon, «il giardino è una narrazione che mira a toccare l’enigma dell’esistenza umana». Per questo, giacché è un enigma ciò cui mira, non può che avere natura interrogativa e farsi tramite delle irrequietezze, dei dubbi, delle contraddizioni, delle pulsioni, delle antinomie, persino delle nevrosi che abitano l’esistenza umana.

«I giardini non sono innocenti», diceva Lucien Kroll quarant’anni fa: perché ci assomigliano. E non mentono. Sono la nostra autobiografia. La più sincera, probabilmente.

Occuparsene non significa trastullarsi con un’arte disimpegnata e salottiera, ma affrontare un argomento difficile e scabroso, proprio perché è molto difficile per una comunità esprimere con serenità un giudizio su di sé, i propri valori, la propria cultura condivisa. È difficile esercitare il discernimento, la saggezza.

Non è forse il giardino stesso, nel suo essere «il luogo dove si impara a barare con le leggi della natura?  

E lo stesso vale se si consideri il giardino come tramite per l’enigma della natura, che solo la nostra inadeguatezza vuol vedere pacificata e che invece, ci rammenta Woody Allen, non è che «un grande ristorante», dove c’è sempre qualcuno che mangi qualcun altro. La natura si alimenta continuamente di conflitti, contrapposizioni, scontri. Cambia, migra, cerca condizioni più favorevoli, si estingue, poi si rinnova, ricomincia, ammettendo finanche la distruzione come fatto creativo. Lo spiega bene Gilles Clément, quando in Nuvole, altro titolo tra i più preziosi di DeriveApprodi, scrive delle piante pirofile e che, per quanto possa apparire paradossale e doloroso, l’incendio sia talvolta un evento necessario per generare nuova vita. Non è forse il giardino stesso, nel suo essere «il luogo dove si impara a barare con le leggi della natura» (questa volta prendo in prestito le parole di Pierre Grimal), un continuo negoziato con strutture di spazi, corpi e volontà in apparenza caotici e non organizzati, cui si dà un ordine instabile e giammai definitivo?

E lo stesso vale anche se si consideri l’enigma della bellezza. Bernard Lassus ci ha insegnato a vedere bellezza nelle composizioni degli abitanti paesaggisti, in accozzaglie improbabili al limite del freak o quanto meno naif, ma cariche di uno straordinario potenziale espressivo, sino allo stordimento. Alexander Gorsky e Bas Princen ritraggono nelle loro fotografie un nuovo ideale pastorale, mascherando da elegia l’incontro tra corpi e retri abbandonati di cantieri, depositi di inerti, rive frammiste a discariche, sottoviadotti, che accolgono comportamenti inconsueti eppure così spontanei e naturali. Il loro è uno sguardo commosso e stupito sulla bellezza dello stridore, morale prima ancora che estetico, già anticipato, con gli strumenti del progetto, da Richard Haag a Seattle (1975), Peter Latz a Duisburg (1989), ora proseguito da numerosi epigoni, dall’Atelier Loidl a LOLA, a Markus Gnüchtel, sino al parco-cantiere di Stig Andersson a Fredericia (2010), che peraltro ricalca le tracce di un altro danese eccellente, Carl Sørensen, capace di vedere l’incanto dei siti devastatati dalla seconda grande guerra, divenuti spontanei campi da gioco e di rinascita solo perché abitati da incauti bambini poeti (e giardinieri).

Che si tratti dell’enigma dell’esistenza umana, della natura o della bellezza, i giardini di saggezza non risolvono le contraddizioni, ma le coltivano, le cercano, le fanno affiorare, dando loro eloquenza. E cos’è il giardino di Livia, che appare in copertina, se non un giardino che pratica la saggezza procedendo per incoerenze, contraddizioni, enigmi?

Il giardino di Livia non è l’apoteosi dell’armonia pacificata e tranquillizzante, quanto del paradosso: qualcosa che si agita in questa natura perfetta e quieta e sospetto che il suo stesso fascino, la sua malia, il suo potere magnetico sia esito di questa sottesa inquietudine.

Innanzitutto non è un giardino in senso proprio, ma un ninfeo, e per giunta sotterraneo, dove mancano aria e luce. È un giardino illusionistico. Eppure, si potrebbe giurare di sentire il tepore del sole e il vento leggero tra le fronde e l’odore del lauro e il tocco pungente di un giovanissimo pino e il rintocco degli oscilla sui rami. Il trovarsi in una stanza ipogea rende insensata la presenza del giardino, ed è proprio da questo paradosso che nasce il singolare straniamento che si produce nel visitatore: qui si mette in discussione, niente meno, la stessa idea che il giardino sia un’architettura all’aperto, messo a dimora su un suolo fertile e irradiato di luce; si mina lo stesso fondamento topologico alla base dell’idea universale di giardino.

Tuttavia, sebbene l’affresco sia volto a negare le pareti e a dissolverle, illusionisticamente, entro un orizzonte più lontano, attraverso la straordinaria evocazione dell’atmosfera e dello spessore dell’aria, esso in realtà non è un trompe-l’oeil, perché il gioco con lo spettatore si ferma sempre un attimo prima, a una soglia pattuita: ne cattura lo sguardo, conducendolo dalla comprensione d’insieme a catturare i dettagli, ma non pretende mai di ingannarlo. In questa ambiguità, in questa sospensione tra il cedere alla verosimiglianza del racconto pittorico e serbare consapevolezza della sua illusorietà, si celebrano, ancora una volta, il dubbio, l’inquietudine, il turbamento.

Il sorprendente realismo dei dettagli, inoltre, con grande varietà di specie vegetali e avicole, non sottintende un giardino reale. Vi si trovano, infatti, specie che in natura hanno cicli biologici differiti in diversi periodi dell’anno, eppure qui lo sbocciare dei fiori, il germogliare dei virgulti, la maturità dei frutti compongono un paesaggio immaginifico – di nuovo, un paradosso – che non solo si fa gioco del tempo, ma ancor più ci interroga sulla nostra relazione con il tempo, in particolare sulla nostra presunta capacità di controllarlo. Viole, datteri, oleandri, allori, corbezzoli, erbe medicinali e aromatiche crescono all’unisono, in un apparire sincrono. Il tempo interno al dipinto non esiste di per sé: quello di Livia è un giardino intemporale.

E ancora, innumerevoli e sofisticate suggestioni spaziali evocano il movimento, come gli uccelli in volo e i rami con le cime piegate dal vento e dal peso dei frutti. Visitare il giardino di Livia non è trovare un rifugio di consolazione, ma farsi catturare in un dialogo inquieto, che, senza neppure troppa discrezione, ci interroga sulle nostre certezze, a partire da ricomposizioni oppositive: dentro e fuori, qui e altrove, realtà e illusione, fissità e movimento, presente e futuro convivono e confondono.

Il giardino di Livia è la dimostrazione che – cito testualmente Brunon nella Conclusione del volume – «sul piano ontologico il giardino continua a ospitare la possibilità di quelle che Paul Ricœr chiama “meditazioni imperfette”, al di là delle separazioni che l’inclinazione sostanzialmente dualistica dell’antropologia occidentale tende a operare con le sue categorie dicotomiche». Il giardino di Livia è il giardino degli enigmi, delle domande, dunque della saggezza.

In tal senso possiamo collocare nella sua genealogia altri giardini parimenti inquieti e inquietanti, che indagano, a loro volta e in forme peculiari, gli enigmi dell’esistenza umana, della natura e della bellezza, dallo Splice Garden di Martha Schwartz (Cambridge, 1986), al Jardin de l’habitation moderne di Mallet-Stevens (Expo di Parigi, 1925), il Roof Garden di Ken Smith sul tetto del MoMa (New York, 2005), il Giardino del Poeta di Ernst Cramer (Zurigo, 1959), così come il giardino che Jacques Lagrange immagina per villa Arpel in Mon Oncle di Jacques Tati (1958).

Se ci si apre alla dimensione pubblica, l’elenco degli epigoni abbraccia anche i parchi parigini del risorgimento (vero o presunto) degli anni Ottanta, così come le Tropical Islands, il paradiso artificiale realizzato nel 2004 in un ex hangar nazista a 50 km da Berlino. E così via.

Tutti questi giardini, pur così diversi, ci offrono la saggezza come sublimazione dell’irrequietezza. Tutti ci accompagnano, ci guardano e ci interrogano, ricorrendo variamente alle funzioni che Brunon regala come mappe di orientamento: il ritirarsi, il camminare, il contemplare, il prendersi cura. Non sono forse giardini del ritiro per eccellenza l’Ile Derborance che Gilles Clément colloca nel parco Matisse, a Lille, nel 1995, o la Floating Island di Robert Smithson, ideata nel 1970 e poi realizzata nel 2005 da Diana Balmori?

Si ritirano sino al parossismo, ma, nel negarsi, non fanno che immischiarsi, tenacemente. Nel ritirarsi, prendono prepotentemente posizione, si affermano come forma di partecipazione al mondo, ma anche di comprensione e traduzione del mondo, oltre che di presenza.

Come si possono progettare giardini che ci rendano in grado di attivare i luoghi che abitiamo e condividiamo, che ci rendano capaci di vedere e di agire?
 

A proposito del potenziale ruolo di comprensione, traduzione e dunque rivelazione del mondo che il giardino riveste, ossia del ruolo del giardino come microspia della cultura del proprio tempo, nel capitolo dedicato al contemplare, Brunon scrive: «In che modo il giardino favorisce un’attitudine di ricezione attiva verso ciò che ci circonda, che cosa aggiunge alla contemplazione?». La risposta, se proiettata nel presente e nel futuro, non può che venire dal progetto. Come si possono progettare giardini che ci rendano in grado di attivare i luoghi che abitiamo e condividiamo, che ci rendano capaci di vedere (quindi comprendere e decifrare) e di agire (dunque di trasformare attraverso la cura, ultima delle funzioni che Brunon propone)?

Dieci anni fa, durante una conferenza a Reggio Calabria, a uno studente che gli chiedeva come poter progettare un giardino contemporaneo, Michel Corajoud rispondeva: «Va’ al cinema, guarda la televisione, leggi le notizie del mattino, passeggia per le strade della città, ascolta le conversazioni tra la gente… Tornato al tuo tavolo, non potrai che progettare un giardino contemporaneo». Era l’invito a essere presente, a prendere parte, a «essere in situazione», direbbe Sartre.

Ogni giardino è l’espressione di singolari combinazioni di tempo, legate a fenomeni materiali e immateriali. È continuamente sottoposto alla prova delle trasformazioni delle sue caratteristiche fisiche e spaziali e alla prova delle sensibilità e delle pratiche sociali, che emergono in un determinato momento, si fissano per un certo periodo, si trasformano, talvolta svanendo. Vive nel tempo naturale e nel tempo sociale, nel tempo reale e nel tempo costruito.

La cultura del giardino delle nostre stagioni è di rado in sincrono con la contemporaneità e il progetto è un orologio che solo talvolta riesce a segnare l’ora esatta, tenendo per lo più le lancette un po’ indietro. Le parole di Corajoud sono impresse da allora nella mia memoria. Sono parole semplici, ma che non temono l’ovvietà: sono parole semplici di grande saggezza.

Perché la saggezza è la conoscenza che si posa, attecchisce, radica e poi germina, e non può prescindere dalla responsabilità. Da qui la necessità che il giardino ci conduca alla saggezza per via di una lucida e inventiva interpretazione delle aporie, dei contrasti e delle fragilità del nostro tempo.

In questa fragilità c’è tutta la ricchezza del nostro avvenire, oltre alla manifestazione più fedele della nostra cultura, capace, forse anche divertita, di trovare nella conflittualità di linguaggi, significati, materiali e comportamenti, un’inesauribile risorsa di qualità. «E, sebbene in Europa i giardini di saggezza non rispondano a un unico principio formale» – scrive Brunon – «molti, almeno simbolicamente, hanno riservato uno spazio per la malerba, hanno accolto il fatto che il mondo sfugge al nostro volere e oltrepassa i limiti del nostro sapere».

Riservare spazio per la malerba: non l’armonia della pacificazione, ma quella insanabile delle condizioni di frizione e di attrito, è il luogo dove si sviluppa una effervescenza speciale, quella delle promesse, delle cose che sono in bilico o in attesa, quella del futuro.

I giardini ci assomigliano, vedete? Siamo tornati a Kroll, al punto di partenza. Brunon ci racconta che Seneca scriveva a Lucilio: «A nulla giova che la contrada sia silenziosa, se le passioni fremono in noi». Ecco, allora, facciamoli fremere i nostri giardini. Facciamo che fremano con noi.

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