Leopardi sovversivo

La guerra comune del materialismo radicale

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Christopher Wood, Lo spiritello d'erba - Pontasca (1999) - Foto di Roberto Gelini

A 220 anni dalla sua data di nascita, riprendere il pensiero di Leopardi non è una mera operazione di memoria – nei fatti, qui ne parleremo in termini esclusivamente filosofici e politici. Se di fine, se di scopo comunque vogliamo parlare, allora possiamo dire che riprendere Leopardi oggi non può significare altro che sostare un momento e ridare ossigeno a uno dei materialismi più radicali della storia recente del nostro paese. Al fine di perseguire tale obiettivo, siamo obbligati a evitare due operazioni: da un lato, cristallizzare il pensiero leopardiano storicizzandolo, facendo leva su una pretesa contestualizzazione; da un altro, calarlo immediatamente nel presente, puntando sulla sua globalità e organicità, opponendolo o accostandolo alle nostre categorie1. Evitare queste due operazioni apre una sola via praticabile nei confronti del poeta recanatese – e cioè compiere una contaminazione del suo pensiero, sia agganciando ad esso altri elementi di materialismo sia rintracciando traduzioni contemporanee dei suoi concetti, ricorrendo magari ad una cassetta degli attrezzi il più pluridisciplinare possibile.

L’intellettuale nella sconfitta

Quello vissuto da Leopardi (1798-1837) è un tempo segnato dalla sconfitta delle spinte rivoluzionare e del pensiero materialistico radicale: nato poco dopo il Termidoro giacobino, vissuto durante la pesante ristrutturazione dell’Ancien Régime con il Congresso di Vienna, morto un decennio prima del 1848. Un tempo e uno spazio – prima quello recanatese, poi quello dell’Italia di inizio Ottocento – in cui alla sconfitta politica seguì quella culturale (basti pensare a Manzoni).

La risposta di Leopardi, giovane studioso che vive la contraddizione tra reale e possibile, la si può spalmare su diversi livelli, coincidenti con i primi salti del suo pensiero. Inizialmente, infatti, propone una risposta ricorrendo alla gloria del passato – All’Italia e Sopra il monumento di Dante, entrambi del 1818 – e poi all’impeto eroico romantico – Bruto minore e Ultimo canto di Saffo, in ordine del 1821 e del 1823 . Tra le due proposte, prima abbracciate e poi in se stesse rigettate, L’infinito. Per ora, ci basta guardare la traiettoria del pensiero leopardiano in termini negativi. Negati, infatti, prima la ripresa di un passato glorioso e, poi, l’eroismo romantico – un eroismo più vicino al gigantismo foscoliano che a quello goethiano, essendovi tracce tanto del Romanticismo quanto dell’Illuminismo – Leopardi si trova, dopo L’infinito, a dover indirizzare il proprio pensiero verso la rottura.

Dal pessimismo storico al pessimismo cosmico: la critica totale

La rottura, il punto di confine di cui prima abbiamo accennato e che abbiamo rintracciato ne L’infinito, è lo scoglio che devia il pensiero leopardiano nel percorso che lo porterà alla critica totale. Procedendo per passi, possiamo iniziare a dire che L’Infinito sia il punto di passaggio da un pessimismo storico a un pessimismo cosmico – pessimismo, qui, noi l’usiamo per pura convenzionalità, consci che si sta parlando di critica, di negativo. Il passaggio avviene, infatti, da una ricerca sul tempo – con la memoria come cardine e strumento di identificazione di sé – ad una ricerca sull’essere. Su entrambi i poli del passaggio, è sempre evidente la presenza della critica, e il passaggio non avviene per un semplice slittamento d’intenzioni, ma per un atto di critica rispetto all’approdo del pensiero leopardiano: né eroismo né dialettica, c’è bisogno di altro. Quest’alterità Leopardi la cerca in un percorso che arriva fino ai nervi di un discorso ontologico che prepara il terreno alla proposta. L’infinito è il momento in cui Leopardi si sofferma sulla possibilità di una conoscenza infinita, che vada oltre la «siepe», fondata cioè su un pensiero della totalità. Tuttavia, tale conoscenza è impossibile, perché «tra questa / Immensità s’annega il pensier mio» (vv.13-14), mentre emerge un’altra possibilità al v. 15: «e il naufragar m’è dolce in questo mare». È la conoscenza che si muove nell’infinito, ma che parte dal finito2. Di qui, la prima contaminazione è possibile. Siamo, infatti, di fronte all’esposizione di un programma metodologico d’indagine sul reale – metodologia che appare molto simile a quella trontiana in Operai e capitale: «la conoscenza è legata alla lotta. Conosce veramente chi veramente odia»3. Dunque, il sapere non inteso come enciclopedico, sviluppantesi per accumulazione, neutrale e oggettivo – assolutamente no. Invece, un sapere di parte, quindi finito nell’infinito, un sapere partigiano, di classe.

Non si da «social catena» senza «guerra comune»

L’intuizione, data ne L’infinito, di un sapere che si costruisce a partire da un’ottica interna al conflitto – e non alla dialettica – di soggetti tra loro antagonisti e non addomesticabili, trova conferma pian piano nel corso dell’evoluzione del pensiero leopardiano. Vediamo come, infatti, Leopardi ci dia conferma di ciò in due momenti esemplari: il Dialogo della Natura e di un islandese e Al conte Carlo Piepoli, e La ginestra.

Il primo momento, storicamente situato nel mezzo della vita del poeta e poeticamente nel momento di slancio massimo della sua critica al sistema di pensiero del proprio tempo, è una feroce critica – nel nome, sempre, di un materialismo radicale – contro l’idea di una dialettica che possa appacificare i conflitti. Sopra tutti, il conflitto massimo: quello tra l’Uomo e la Natura, cioè tra soggetto e soggetto, ma comunque con residui dialettici – la Natura è il piano d’immanenza dell’islandese, e il conflitto portato da quest’ultimo non può concludersi che con una sua sconfitta. La fuga, infatti, di un uomo – l’Islandese – dal dolore, dalla passione, finanche dalle comodità della vita comune, pur di scampare alla morte e alla natura, finisce nel porre l’Islandese direttamente nelle mani della Natura. E, nell’ironia tipicamente leopardiana, non solo la fuga hegeliana dell’uomo dalla morte termina, come in Samarcanda, con la morte stessa, ma la morte si presenta nel suo essere casuale ed incidentale. Ciò che è reale, amara scoperta per l’islandese, non è razionale. È la vita ad essere effimera, non la morte. Soprattutto perché si presenta proprio nel momento in cui l’uomo sta ponendo alla Natura la sua ricerca di senso. Fuga, paura, nihil. È l’orizzonte della borghesia, che di lì a poco tempo avrebbe posto i suoi manifesti programmatici nel positivismo4. Orizzonte di morte, ma anche di dolore, fatica, sfruttamento accompagnati dall’accumulazione e dalla sussunzione formale di una borghesia sempre più economicamente egemonica. È qui che rientra l’epistola in versi Al conte Carlo Piepoli, composta nel 1826. Un mondo – quello, come su abbiamo detto, dell’accumulazione di capitale e della sussunzione formale – in cui si oppongono il sensato «ozio» del mercante ai versi 37- 53 all’insensato lavoro del proletariato ai versi 12-37.

Il secondo momento, quello de La ginestra, è il punto di non ritorno nella poetica leopardiana, e non solo perché stiamo parlando del suo ultimo componimento. Ma perché la critica, divenendo totale, ha esaurito il proprio lavoro – lavoro, questo, molto simile a quello della talpa di Marx5 – e non può non lasciare il posto alla proposta. Qui, nuovamente, si inserisce il metodo operaista: «dentro la società e contro di essa nello stesso tempo, parte che coglie teoricamente la totalità in quanto lotta per distruggerla nella pratica delle cose»6. Perché «il fare poetico diviene quindi un modo straordinario di stare nell’essere, la poesia leopardiana […] è uno scavare la storicità, la natura e poi un opporsi, sui vari livelli di quest’operazione, una resistenza, un far scaturire l’alterità»7. Dentro e contro la totalità, si apre un orizzonte etico che chiama all’atto costitutivo (dell’essere). È sullo stesso terreno, il terreno del dolore e della guerra di classe, del conflitto tra uomo e natura, che la proposta si muove.

Infatti, ritroviamo ai vv.111-135 il progetto di un processo costituente e, al tempo stesso, sovversivo di Leopardi. Dividendo in due sezioni questi versi, possiamo vedere come nei vv.111-125 Leopardi traccia le basi di un riconoscimento reciproco di classe, fino alla consapevolezza di esser comunità e di poter usare il proprio egoismo di classe contro il nemico comune: «Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato, e che con franca lingua, / nulla al ver detraendo / confessa il mal che ci fu dato in sorte, / e il basso stato e frale; / quella che grande e forte / mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma da la colpa a quella / che veramente è rea, ché de’ mortali / è madre in parto, ed in voler matrigna». A ciò, la risposta della violenza rivoluzionaria, ai vv.126-135: «Costei chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l’umana compagnia, / tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune». Qui, «la necessità della guerra comune pone le condizioni della solidarietà ed attraverso di essa della libertà». In altri termini, «la comunità è il soggetto collettivo che viene costituendosi dentro l‘orizzonte della guerra»8.

La comunità, dunque, in quanto «soggetto collettivo che viene costituendosi dentro l’orizzonte della guerra», non può che, costituendosi in «social catena», condurre all’inverso quella guerra. Nei termini, appunto, di una «guerra comune», contro la miseria di una vita segnata dal dolore e dal lavoro. Questo è il Leopardi sovversivo.

Note

Note
1È, questo, il caso di una certa critica proveniente dal PCI tra gli anni Sessanta e Settanta. A tal proposito, rinviamo a Cesare Luporini, convinto precursore di un Leopardi progressivo – espressione quanto mai distante da quella da noi usata: C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, 2006.
2«Il finito è fondante, l’infinito un’apertura – etica», come sostiene Negri in A. Negri, Lenta ginestra, Mimesis, 2001, p.69.
3M. Tronti, Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2006, p.10
4Il dialogo, presente nelle Operette morali, è del 1824. Il positivismo trova la sua fondazione nel 1830, con la pubblicazione di A. Comte, Lezioni di filosofia positiva.
5«Ben scavato, vecchia talpa!» è ciò che Marx esclama ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte
6M. Tronti, op. cit., p.11
7A. Negri, op. cit., p.413
8A. Negri, op. cit., pp.405-407

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