Lo specchio dell’Europa

Decolonizzare il museo

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Kader Attia, J’Accuse (2016) - Courtesy of Kader Attia and Galerie Nagel Draxler. Foto: MMK Museum für Moderne Kunst / Axel Schneider.

Chiunque abbia incontrato nel suo percorso, in modo più o meno approfondito, la storia dell’istituzione museale moderna, si è scontrat_ con una rivelazione destabilizzante: gli edifici che fin dall’infanzia siamo stat_ educat_ a riconoscere come legittimi luoghi della cultura, spazi fondamentali di produzione e conservazione della conoscenza, sono stati costruiti sulle stesse fondamenta della violenza coloniale, e concepiti come sua diretta espressione. Nella genealogia tracciata da Giulia Grechi in Decolonizzare il museo. Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati (Mimesis, 2021), il museo moderno nasce in Europa in piena epoca coloniale come estrema materializzazione dell’illuminismo enciclopedico del secolo precedente, frutto della diretta correlazione tra formalizzazione del sapere ed esercizio del possesso. Il suo scopo principale è quello di contribuire alla definizione della nuova identità del_ cittadin_ delle nascenti nazioni moderne, immaginata in contrapposizione alle culture altre di cui il museo raccoglie gli artefatti.

Va da sé che la museografia moderna, dal primo museo etnografico fino alle istituzioni museali contemporanee, sia strettamente intrecciata sia a livello materiale sia a livello epistemologico a forme di discriminazione e privilegio che abbiamo nel tempo interiorizzato come «normalità». A partire da questa realizzazione, la nostra idea tradizionale di museo, e con essa la legittimità delle metodologie impiegate da questo dispositivo di sapere/potere, non può che cambiare radicalmente. Non è casuale che Alpha Konaré, ex presidente del Mali e all’epoca presidente dell’ICOM (International Council of Museums), nel 1992 avesse identificato «l’uccisione del museo» come unico modo per curare la ferita coloniale. Se l’idea di museo per come lo conoscevamo deve morire, Decolonizzare il museo è un ottimo strumento per chi voglia iniziare un processo di elaborazione del lutto. Il libro offre una bussola che può guidarci nel tentativo a lungo termine di identificare e disattivare la colonialità che insiste ad abitare ogni ambito della contemporaneità post-coloniale nonostante il periodo storico denominato come colonialismo sia formalmente finito.

Grechi si inserisce in una questione lessicale complessa (sulla quale rimando a un estratto di Rachele Borghi già pubblicato su questa rivista), dichiarando che il «post-» di post-coloniale non sta a significare una categoria temporale, ovvero il periodo storico successivo al dominio sulle colonie, ma piuttosto un colonialismo postumo, che sopravvive alla sua stessa morte, a sottolineare come esso abbia lasciato un assetto politico e culturale sistemicamente presente nel nostro sguardo euronormato sul mondo: un «passato che non passa», secondo una definizione che torna a più riprese nel libro. Il testo raccoglie e rielabora dieci anni di ricerca dell’autrice, attraversando gli studi culturali post/de-coloniali, la museologia, l’antropologia culturale e le pratiche artistiche e curatoriali contemporanee per individuare metodologie necessariamente transdisciplinari atte a decolonizzare il museo, e con esso la visione di modernità che riproduce.

«Decolonizzare» è impiegato come verbo, ovvero come un processo attivo e sempre in corso di riconoscimento e messa in discussione dei nostri automatismi (quindi più un decolonizzarsi o meglio ancora decolonializzarsi verrebbe da dire, sempre seguendo Borghi), delle epistemologie su cui sono fondati e delle istituzioni che le perpetuano. Il museo, oggetto principale di analisi in questa sede, è chiaramente solo una di queste istituzioni, che dovrebbero venire complessivamente investite da un «contemporaneo, vasto e globale processo di decolonizzazione» (Grechi). Questo processo ci chiama in causa personalmente: decolonializzarsi significa rispondere a una interpellazione diretta, e accettare di «imparare il disagio» (Borghi). Significa accogliere la responsabilità di essere coinvolt_ oggi in questa trasformazione, pur con la consapevolezza che oggi è comunque troppo tardi, così che il carico sulle prossime generazioni possa diventare per lo meno più lieve. Per questo la narrazione di Grechi non può che sovrapporre diversi registri, affiancando la puntualità dell’analisi teorica con l’auto-riflessività della sua voce che parla in prima persona.

L’autrice si posiziona in quanto donna euro-discendente, che scrive dal punto di vista dell’antropologia critica, individuando il museo e le arti contemporanee come terreno per una pratica etnografica sperimentale e radicale. Il concetto antropologico tradizionale di fieldwork, «lavoro sul campo», viene problematizzato e applicato al museo, inteso come spazio stratificato, dove ancora oggi si articola un discorso egemonico che contribuisce alla produzione di processi identitari fondamentali. Il volume si muove con disinvoltura tra il piano dell’elaborazione teorica, l’analisi di casi studio museografici – lavorando «con il museo e non sul museo», precisa l’autrice – e la narrazione di pratiche curatoriali e artistiche contemporanee, considerate nella potenzialità teorica e critica che hanno di risemantizzare discorsi, oggetti, corpi e spazi del museo, utilizzandolo come possibile laboratorio di contro-narrazioni. Queste pratiche si pongono criticamente e produttivamente in relazione con l’atto fondamentale esercitato dall’istituzione museale, ovvero quello della mostrazione (dall’inglese displaying).

La mostrazione è, secondo Grechi, il complesso di pratiche che costruiscono arbitrariamente l’identità di un oggetto o soggetto attraverso l’atto del metterlo in mostra. Questa prassi è parte fondante del processo storico attraverso cui il museo, con la sua pretesa di un punto di vista universale, ha reso visibili gli artefatti di altre culture, mentre costruiva parallelamente l’invisibilizzazione dei soggetti a cui erano stati sottratti, la funzione con cui erano stati creati dalla comunità d’origine e la violenza coloniale che li ha condotti nelle vetrine. La mostrazione è, in qualche modo, la facciata visibile della «colonial hauntology», come definita da Vincent Meessen, quell’enorme insieme di voci che sono state represse dalla narrazione falsamente oggettiva del museo, e che infestano le sue stanze attraverso la loro assenza o presenza spettrale. Secondo una figura ricorrente nel volume, il museo è immaginato come uno specchio, che viene guardato criticamente, poi penetrato e infine oltrepassato.

Attraverso questi tre movimenti, Grechi delinea concetti chiave per comprendere le metodologie operative del museo, così da ipotizzare dei metodi per rovesciarle contro a se stesso, trasformate. Decolonizzare il museo non significa infatti proporre semplicemente un movimento di visibilizzazione inversa, pensata per far emergere i punti di vista che sono stati violentemente omessi dalla storia, ma immaginare strategie per mantenere, secondo una definizione di Achille Mbembe, il «potenziale di scandalo» degli oggetti e dei corpi esclusi, la cui apparizione dovrebbe avvenire sempre «in forma di effrazione e mai di istituzione». In definitiva, il libro propone una narrazione urgente e necessaria per complessificare la questione della restituzione degli artefatti nei musei occidentali alle rispettive nazioni di provenienza, per offrire strumenti critici a chi voglia capire cosa sta dietro al movimento che nell’ultimo anno ha abbattuto monumenti nelle città di mezzo mondo, e una testimonianza fondamentale del potere epistemico, critico e trasformativo delle pratiche artistiche e curatoriali contemporanee.

*Nella recensione si è adottato il linguaggio inclusivo usato anche da Giulia Grechi nel suo libro. 

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