Macchine espositive e neoliberismo

Un'intervista a Marco Scotini

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Igor Grubić, 366 Liberation Rituals (2008-2009). Courtesy l'artista e Galleria La Veronica.

In occasione della nuova edizione di «Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici» di Marco Scotini, recentemente pubblicata da DeriveApprodi, proponiamo un’intervista di Stefano Taccone all’autore. 

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Stefano Taccone: Nel 2016 usciva per DeriveApprodi il tuo Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, una raccolta di saggi già editi – tranne uno – attraverso la quale in qualche modo sintetizzavi quasi un ventennio di attività di curatore e di teorico dell’arte. Malgrado la complessità e la molteplicità delle questioni trattate, un filo conduttore mi pareva identificabile nel discorso sull’assoluta integrazione del mondo artistico-culturale entro il regno totalizzante dell’economia neoliberista, specie attraverso la parossistica moltiplicazione delle biennali, e la conseguente necessità di una effettiva presa d’atto da parte degli operatori culturali, cui non sarebbe stato più lecito pensare se stessi come impegnati a parlare in nome di qualcun altro, quando in gioco è la mercificazione della loro stessa vita lavorativa e non. Cinque anni dopo (2021), sempre per DeriveApprodi, proponi una nuova edizione leggermente ampliata. Nel frattempo, con il Covid-19, il mondo pare cambiato per sempre e tu stesso nell’introduzione, prima ancora che qualcuno ti ponga una questione del genere, ti domandi provocatoriamente «Visto che, senza avere avuto il tempo di invecchiare, il libro sarebbe stato superato dagli eventi, perché proporre ora una nuova edizione?», ma poi ti mostri convinto, attingendo anche ad un’intervista rilasciata a poco più di un mese dallo scoppio della pandemia, «che le analisi del sistema dell’arte e le denunce a tale sistema avanzate in Artecrazia non abbiano perso nessuna delle loro prerogative e tanto meno siano state smentite dagli avvenimenti». Di fondo, infatti, tu tendi ad attenuare, se non a negare, una profonda discontinuità tra il pre e il post pandemia, o almeno a descriverla in maniera differente da quanto fanno i più. Vuoi chiarire meglio il tuo pensiero in merito, tanto rispetto allo specifico campo artistico e culturale quanto rispetto alla società più in generale?

Marco Scotini: Vorrei partire con un semplice esempio di natura visuale. Recentemente ho aperto una mostra sui tre giorni di Genova del luglio 2001 dal titolo L’Archivio Insorgente. Nelle foto documentarie che ho scelto ci sono figure, in strada, con le mascherine mentre una grande mappa a parete segna i bordi tra una zona gialla periferica e una inviolabile zona rossa centrale a cui, come è noto, era interdetto l’ingresso tranne a quelli muniti di un pass speciale. Abitanti carcerati in casa e forze dell’ordine ovunque: tutto un campionario visivo che, oggi, ci è molto familiare. Non era, di fatto, Genova una città in stato d’assedio? Non emergono, forse, a Genova (e appena dopo a Manhattan) le radici politiche di quell’involuzione repressiva che ci porta fino ai sovranismi di oggi? Non è a Genova che il centrosinistra rifiuta di interagire con il movimento sorto a Seattle per diventare, al contrario, parte integrante della classe dirigente della globalizzazione neoliberista, aprendo la strada ai peggiori populismi? Non sono gli anni in cui emerge con forza tutto quell’apparato della comunicazione digitale che proprio sulla distanza sociale avrebbe creato le sue migliori performances? La protesta comune della cosiddetta galassia No Global non denunciava e non si schierava contro quella asimmetria economica selvaggia tra ricchi e poveri, tra estrattivismo e ambiente, che oggi è diventata incolmabile? In sostanza, ferme restando le ragioni della lotta antimperialista, quello che la pandemia ha realizzato venti anni dopo non è soltanto un’accelerazione dei processi repressivi. È addirittura il pieno compimento del progetto neoliberista su scala mondiale: autoritario, violento, biopolitico. A me non è parso di vedere nessun cambio di direzione ma un suo inasprimento, una sua estremizzazione. Semmai si è trattato di un differenziale nel movimento, di un’accelerazione o, piuttosto, della repentina attualizzazione di quanto – in precedenza – poteva apparire ancora allo stato latente. Per questo ho avuto una certa nausea di tutte quelle retoriche della «cura» che sono emerse a pandemia appena scoppiata: assistenzialismo, ospitalità, altruismo, benevolenza. Dunque, zero segni di dissenso ma, in compenso, un grande entusiasmo nel fare dello spazio digitale il lasciapassare di un profluvio cacofonico di individualismi che ha dato a ciascuno l’illusione di poter dire la propria, mentre venivano compiute le peggiori nefandezze a livello di politiche pubbliche sociali, economiche, culturali. La macchina artistica italiana ne è un esempio loquace che non sto a ripetere adesso. Dunque perché smettere di fare una denuncia culturale puntuale, una critica istituzionale? Perché smettere di decostruire organizzazioni e smascherare ideologie? Finché non cominceremo a esercitare un monitoraggio continuo sul nostro stesso controllo (quello che il potere esercita su di noi) ogni cosa sarà rinaturalizzata e la battaglia perduta in anticipo. Vedo ancora il conflitto quale punto di partenza per il cambiamento.

S.T.: Sempre nell’introduzione alla nuova edizione scrivi: «Nessun dubbio che l’espansione dell’arte contemporanea abbia non solo accompagnato, ma promosso e legittimato culturalmente, la globalizzazione. Nessun dubbio che i musei e le istituzioni dell’arte siano diventate palestre neoliberali (sul modello delle imprese), prive di asperità e contrasti e che in quanto tali abbiano rinunciato alla sperimentazione, all’imprevisto, al proprio futuro. La moltiplicazione esponenziale di mostre e biennali che sfruttano temi come l’ecologia, il genere e ora la questione razziale quale vetrina dell’emancipazione liberale va letta nei termini di un processo di pacificazione (anti-conflittuale) e di auto assoluzione (artwashing) che tende solo a riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alla riproduzione delle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine». Fermo restando che questo passaggio non è per te che un rimarcare quello che vai denunciando da tempo, magari perfezionando le capacità di penetrazione dell’analisi e della critica, vorrei chiederti come è possibile , se è possibile, quanto è possibile… eludere il rischio di farsi, malgrado sé stessi, complici dei processi che denunci , nel momento in cui si opera comunque all’interno del sistema dell’arte? Mi riferisco al tuo caso come a quello di chiunque scelga di criticare le logiche di valorizzazione del capitale connesse alle pratiche artistiche non solo senza dismettere i panni del curatore, ma magari anche ritenendo l’exhibition making lo spazio privilegiato di questa critica.

M.S.: Da anni penso che non esista una esteriorità sociologica dell’arte ai rapporti capitalistici di produzione. Un «fuori», cioè, da rivendicare e dove sia possibile situarsi una volta per tutte: il libro Artecrazia è un continuo rimando a questo assunto iniziale. Nel capitalismo della sorveglianza produciamo dati e valore anche senza agire, proprio perché la vita intera risulta messa al lavoro e colonizzata dall’economia. Si tratta, al contrario, di definire un proprio ruolo disorganico ai processi di captazione capitalista, «dentro e contro» i meccanismi di produzione e valorizzazione. Credo che fossimo impegnati – e ancora lo siamo del tutto – nella ricerca di quella lingua straniera all’interno della propria, di quell’uso minore e intensivo di una lingua maggioritaria e egemonica che non ci appartiene. Non dovremmo fare confusione, allora, tra chi si scava «la propria tana» (o trincea) linguistica e chi non fa altro che praticare il monolinguismo del capitale, dove la differenza risulta chiara, salta agli occhi. Per questo motivo ho denunciato lo sfruttamento della presunta emancipazione liberale di temi ecologici, decoloniali, di genere, ecc. che oggi è di moda. Allo stesso tempo dovremmo imparare a riconoscere, sotto i suoi travestimenti quotidiani, lo scarto radicale tra liberazione e liberalizzazione. Se penso all’attuale connubio tra risoluzione del degrado ambientale e bioingegneria oppure al compromesso tra superamento del binarismo di genere e fashion brands risulta chiaro come tutto ciò sia funzionale ad una cattura del mercato e alla riaffermazione di gerarchie di classe. Il desiderio viene immediatamente canalizzato al consumo e la liberalizzazione viene affermata solo per prevenire e impedire la vera liberazione. Non dovremmo essere sbrigativi e qualunquisti nel dire che i contenuti non fanno le differenze ma solo i modi organizzativi e strutturali. È chiaro che un contenuto non normato esige un’altra idea di istituzione, altrettanto non omologata. Tuttavia non mi stupisce che in campo artistico non ci si impegni a sottolineare le differenze ma, al contrario, ci si affanni a mistificarne gli incroci, le sovrapposizioni, le improvvisazioni, le spettacolarizzazioni. Come nei primi anni Settanta affermava il collettivo de Il Fuori: «Il sistema è il gattopardo che ci spinge ad auspicare che tutto venga mutato, affinché tutto resti come prima».

S.T.: Proviamo a fare un passo indietro nel tempo. Sono passati ormai più di dieci anni (2010) dall’uscita del primo – e finora unico – numero della rivista No Order. Da una parte fosti tu stesso a riconoscere Disobedience (2004) quale presupposto immediato di No Order, allorché in occasione della presentazione tenuta alla Triennale di Milano così ti esprimevi: «Per tanto tempo ho pensato di importare nello spazio dell’istituzione le forme della disobbedienza sociale, ma queste rimanevano un contenuto, che non intaccava assolutamente le forme di produzione di un sistema. Ho pensato così, insieme a studenti ed a tantissime altre figure, che forse la vera posta in gioco della cultura, visto il suo livello di potere in questo momento, fosse quella di interrogarsi in maniera realmente radicale sul sistema di produzione». Questa interrogazione è evidentemente anche il principale motivo ispiratore di Artecrazia. Mi chiedo però come mai No Order è stato di fatto congelato? Una rivista come No Order, magari con cadenza annuale, non avrebbe potuto costituire in quest’ultimo decennio uno strumento preziosissimo di messa a fuoco e critica radicale delle dinamiche del sistema dell’arte globale, ovvero qualcosa che almeno in Italia mancava allora e continua a mancare?

M.S.: Hai ragione di ricordare la bella presentazione milanese della rivista con Christian Marazzi e con Sylvère Lotringer che, ahimè, non è più con noi e che l’aveva fortemente sostenuta, invitando me e Brinkmanis a presentarla a Toronto nella storica Art Metropol, fondata dai General Idea. No Order forse è stata un’occasione perduta: soprattutto per quello che sarebbe riuscita a trasformare o – se non altro – per il vuoto che avrebbe contribuito a riempire. Abbiamo redatto interamente anche il secondo numero che però, poi, non è stato pubblicato. Era dedicato al mondo arabo e in piena sincronia con gli eventi di Piazza Tahrir. La natura collettiva della rivista richiedeva un grande sforzo e un grande tempo di produzione che ad un certo punto sono mancati. Ma gli intenti sono tutti stati raccolti in Artecrazia perché nascevano non solo da una reale necessità teorica ma anche da una verifica dei poteri sul campo: dall’amaro riconoscimento (che avevo riportato dall’interno) del funzionamento tossico di una biennale come Manifesta. Non una biennale a caso, non una tra le tante, ma quella che allora riscuoteva la maggiore attenzione proprio per le promesse di emancipazione attraverso cui si era autodefinita. All’inizio voleva essere una sorta di alter-istituzione, nomade e flessibile in termini organizzativi, pan-europea e produttrice di networks, mentre non faceva altro che incorporare perfettamente la tipologia d’azienda post-fordista, con il classico ricorso all’outsourcing, l’estrazione locale di capitale senza poi lasciare tracce del suo percorso. L’episodio di Manifesta è stato dunque davvero rivelatore per me di che cosa fosse l’economia dell’evento e il rapporto con i pubblici, fino a far diventare questi aspetti un tema centrale della mia ricerca rispetto alla finanziarizzazione, alle industrie creative e ai loro modi di operare.

S.T.: Proviamo a fare un passo ancora più indietro. All’inizio del nuovo millennio, in concomitanza con l’onda lunga della stagione inaugurata dall’epifania del movimento di Seattle (1999), eri fondamentalmente impegnato con Disobedience, ma anche con altri progetti che andavano nella direzione di cui parlavi nella già menzionata presentazione della Triennale. I tuoi maggiori sforzi erano dunque volti a mettere in mostra il dissenso. Quando hai sentito che porsi un tale obiettivo, per quanto importante, non era sufficiente su di un piano squisitamente politico? Quanto credi che l’allargamento del campo dei tuoi interessi verso la critica del sistema capitalista di produzione e distribuzione dell’arte sia dipesa da una tua rinnovata visione politica soggettiva e quanto invece dalla trasformazione oggettiva che è avvenuta nel corso di questo primo ventennio del secolo, apertosi all’insegna di grandi speranze – il movimento di Seattle appunto – e chiusosi quasi inverando una sorta di distopia – la pandemia e la correlata restrizione delle maglie del controllo la cui denuncia non ha nulla, ma proprio nulla, a che vedere con i complottismi tossici che anzi – come ha ben messo in luce di recente Wu Ming 1 nel suo La Q di Qomplotto. QAnon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema – non fanno che rafforzare le classi dominanti?

M.S.: L’Archivio Disobedience andava già tutto nella direzione di una critica alle forme di produzione culturale e ai limiti che il capitalismo pone all’azione del soggetto, alla sperimentazione artistica e ai suoi concatenamenti sociali. Con la crisi finanziaria del 2007/2008 era necessario ampliare il campo. Ma già la struttura della mostra è peculiare e l’archivio non esiste in sé, ma ogni volta va riconfigurato con la collaborazione di tutti i partecipanti. Nato nel 2004 come reazione ai fatti di Genova, l’Archivio viene sospeso dopo la sua presentazione a Istanbul nel 2014 per problemi con la censura ma anche con la coscienza che le forme autoritarie e repressive si sarebbero intensificate, come in realtà è accaduto. Non si tratta però di una mostra chiusa e conclusa ma di una piattaforma mobile, intermittente, in crescita e in sincrono con gli eventi sociali in corso: una sorta di assemblea che viene indetta e riconvocata ogni volta. Il forte carattere sperimentale dell’esposizione mi ha permesso di ampliare l’idea di costruzione artistica alle formazioni sociali, di uscire dalle logiche di valorizzazione e captazione capitalista. Non ho mai smesso di fare ricerca in tutte le parti del mondo che ho visitato e, a breve, una nuova edizione avrà la pretesa di testimoniare il potenziale della disobbedienza su scala mondiale. Ormai Disobedience Archive viene considerata una mostra pionieristica e, per me, è stata un vero e proprio banco di prova. Se è vero che in Artecrazia gli viene dedicato un capitolo, è altrettanto vero che i temi che la mostra presuppone si ritrovano in tutti i saggi del libro. Non credo sia possibile slegare o dipanare, in Disobedience, una visione soggettiva da quelli che sono stati gli enunciati collettivi e antagonisti in questo ventennio.

S.T.: Cerco di porre un dubbio radicale. Hai mai pensato alla possibilità che il concetto stesso di arte, in quanto storicamente prodotto della sfera borghese, sia impensabile al di fuori dei territori del capitalismo e che, in altri termini, un superamento del capitalismo richiederebbe inevitabilmente una fine dell’arte come insieme di oggetti o comportamenti separati da quelli in cui ci imbattiamo nella vita quotidiana, nonché di tutte quelle figure portatrici di una determinata patente di specialista che compongono il sistema dell’arte, e quindi dell’artista e del curatore stesso, oltre che – e tanto più – del gallerista, del collezionista ecc.? Come sai sono pensieri che risalgono almeno ad Engels e Marx, ma che poi attraversano ampiamente le avanguardie storiche e sono tutt’altro che estranei all’Internazionale Situazionista, nonché ad alcuni importanti autori italiani dell’ultimo cinquantennio. Penso al Mario Perniola de L’alienazione artistica (1971), ma anche – sapendola leggere in profondità – a Carla Lonzi da La critica è potere (1970) in poi.

M.S.: Vorrei risponderti con una citazione dal Debord dei Commentari dell’88, che è presente in Artecrazia: «Qui [nell’arte contemporanea] come altrove, l’ignoranza è prodotta solo per essere sfruttata. Nello stesso momento in cui vanno perduti il senso della storia e il gusto, si organizzano reti di falsificazione. È sufficiente disporre di esperti e di banditori, perché in certi affari è la vendita ad autenticare ogni valore. Dopo converrà ai collezionisti o ai musei strapieni di falsi mantenere la buona reputazione come il Fondo Monetario Internazionale mantiene la finzione del valore positivo degli enormi debiti di cento nazioni».

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