Metamorfosi di un apprendista stregone

Vita, morte e miracoli dell'intellettuale

Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito - 5_I fond2
Gian Maria Tosatti, Sette Stagioni dello Spirito (2013 -2016) 5_I fondamenti della luce, 2015 - Courtesy Fondazione Morra, Napoli e Galleria Lia Rumma, Milano-Napoli.

L’intellettuale novecentesco nasce nel 1898 con il caso Dreyfus e muore nel 1977 con il Movimento. In poco meno di un secolo si esaurisce la parabola di quello strano animale che, prodotto dalla divisione storica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, aveva voluto criticare e trasformare il mondo assumendosi il compito indegno di parlare al posto di qualcun altro. L’intellettuale muore con il Settantasette perché quel movimento la fa finita con la rappresentanza e dice chiaramente che, così come non è più possibile delegare l’esercizio della violenza fino ad allora weberianamente monopolizzato dallo stato sovrano, allo stesso modo non è più possibile delegare la parola. Quel movimento di strani studenti lavoratori e precari si riprendeva nelle strade e nelle piazze delle metropoli occidentali tutto ciò che gli era stato ingiustamente sottratto, collocandosi nel mezzo di una grande trasformazione che faceva schiantare il cielo sulla terra e portava alla ribalta la forza-invenzione dell’intelligenza collettiva.

In effetti tra le mani del movimento più cattivo e intelligente della seconda metà del Novecento circolavano i testi della migliore eredità del pensiero critico tedesco, tra questi alcuni saggi di Hans-Jürgen Krahl, che aveva individuato molto lucidamente l’emergere del lavoro intellettuale di massa, e quindi la fine della separazione del lavoro intellettuale e che, con straordinaria prontezza, aveva criticato il progetto riformista habermasiano, insistendo sul ruolo immediatamente produttivo della comunicazione. Proprio nel 1977 esce anche il saggio di Alfred Sohn-Rethel su Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Pubblicato nella collana dei Materiali marxisti curata dal Collettivo di Scienze politiche dell’Università di Padova per la Feltrinelli, quel libro indagava la questione dell’autonomizzazione del lavoro intellettuale e della sua prevalenza storica su quello manuale, e quindi la nascita di particolari forme di pensiero a partire dalla forma merce e dalla sua circolazione attraverso l’astrazione della moneta. Ma soprattutto poneva in tutta la sua attualità l’emergere di una nuova sintesi sociale che superasse quella divisione, ricollegando il lavoro intellettuale direttamente alla produzione, non lasciando scampo, come gli scritti di Krahl, all’intellettuale e alla sua separatezza borghese, ormai superata dagli sviluppi del capitalismo stesso. Infine, in quell’annus mirabilis, usciva anche un’intervista fondamentale a Gilles Deleuze, in cui il nostro, stigmatizzando il lavoro filosoficamente nullo dei nouveaux philosophes, ne individuava però il ruolo strategico: dalle ceneri dell’intellettuale universale nasceva l’intellettuale mediatico che si sarebbe fatto portaparola della controrivoluzione neoliberista e che avrebbe trasformato l’impegno in testimonianza spettacolare.

Ecco dunque la premessa di quella che oggi appare come la compiuta realizzazione della controrivoluzione neoliberale: il mercato come spazio e orizzonte dell’intellettualità di massa e, allo stesso tempo, l’individualizzazione più esasperata delle forme di vita come condizione di accesso. Pertanto, l’intellettualità di massa è stata sì assunta, ma all’interno di un regime che è quello della concorrenza piuttosto che quello della cooperazione a cui era destinata. L’intellettuale di se stesso ne è il prodotto. Accade così che questa forma dell’individualità non rappresenta, come nella modernità borghese, una forma di resistenza – che sempre più prende tratti snobistici – al conformismo di massa, e nemmeno si fa espressione di un’appartenenza politica di parte, bensì è appunto il prodotto di quella stessa massa da cui – nella grande messa in scena del mercato – vorrebbe distinguersi e in cui vorrebbe eccellere. Se dunque da un lato la critica prima esercitata dall’intellettuale diventa brandizzazione e promozione di sé, gestione curatoriale di un particolare tipo di merce da intrattenimento, dall’altro l’intellettuale resta pur sempre quel lavoratore a cui ancora oggi spetta il compito non semplicemente di dire la verità, bensì, sulla scorta di Foucault, di dirla al di fuori di quel regime di verità che è il mercato, cioè in quanto critica delle forme del potere di cui egli stesso è al contempo oggetto e strumento. L’intellettuale deve quindi innanzitutto dire la verità su se stesso – fosse pure la sua, in prima istanza, autocritica. Un’autocritica che sia, però, affermativa di una forma di vita comune.

All’intellettuale e al lavoro culturale, alle sue trasformazioni nella dimensione individuale e collettiva, all’arte e all’estetica nella loro dimensione comune, è stato dedicato uno dei workshop di C17 – La conferenza di Roma sul comunismo dal titolo Comunismo del sensibile. I lavori si sono tenuti giovedì 20 gennaio alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e vi hanno preso parte: Marco Baravalle (Sale Docks, Venezia), Emanuele Braga (Macao, Milano), Ilenia Caleo (Teatro Valle, Roma), Chiara Colasurdo e Gabriella Riccio (L’Asilo, Napoli), Giorgio de Finis (MAAM, Roma), Dario Gentili, Fabio Gianfrancesco, Diletta Mansella, Nicolas Martino, Massimiliano Nicoli, Giulia Palladini, Giorgio Passerone, Carlos Prieto del Campo (Museo Reina Sofia, Madrid). In questo Focus pubblichiamo una parte del materiale prodotto dal workshop, a questa prima puntata ne seguiranno una seconda e una terza.

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