Migranti forzati al lavoro volontario

I confini dell'inclusione

32.MP5-the spotless mind
MP5, The Spotless Mind, 2016

Proponiamo qui un’anticipazione dal libro I confini dell’inclusione(DeriveApprodi, 2018), che verrà presentato Mercoledì 27 giugno alle ore 18.00, presso l’area dibattiti dell’IFEST 2018 — Ponte Nomentano Roma. Intervengono i curatori del volume Maurizia Russo Spena, Enzo Carbone, Enrico Gargiulo, Miguel Mellino (Università l’Orientale di Napoli), Giuseppe Faso (insegnane e scrittore). Modera Giuliano Santoro (il manifesto).

La civic integration è una visione dell’integrazione dei non cittadini che si è affermata in molti stati europei sul finire degli anni Novanta. La sua diffusione rappresenta un punto di svolta nella concezione e nella attuazione delle politiche migratorie. Da allora, la facoltà di protrarre il soggiorno nel territorio dello stato «ospitante» e, in alcuni casi, la possibilità di farvi accesso sono subordinate alla dimostrazione di un certo livello di conoscenza dei valori e delle regole della comunità di arrivo.

La civic integration non si riduce all’introduzione di corsi e test di lingua e cultura civica, ma costituisce la legittimazione e il consolidamento di una lettura più ampia dei fenomeni migratori, di taglio esplicitamente culturalista. Questa visione prevede infatti che la «differenza» culturale tra «autoctoni» e «nuovi arrivati», immaginata come assoluta e irriducibile, debba essere contenuta attribuendo ai secondi l’obbligo di conoscere i princìpi fondanti dell’ordinamento dello stato ospitante e, in una qualche misura, di aderirvi. L’integrazione civica è dunque uno strumento volto a disciplinare i non cittadini rendendoli «normali», ossia conformi a una norma morale e comportamentale, e a selezionare, tra questi, i più meritevoli, ossia i più «integrabili» culturalmente.

Ma il disciplinamento e la selezione non riguardano soltanto la sfera della cultura, interessando anche le relazioni di lavoro e il campo economico. Gli stranieri sono chiamati ad aderire a un modello di agire sociale basato sull’autonomia individuale e sulla disponibilità ad attivarsi, in particolar modo nel mercato del lavoro. La civic integration, in altre parole, mira a costruire soggetti autonomi e autosufficienti, indipendenti dagli aiuti pubblici e privi di aspettative nei confronti dello stato sociale.

La grammatica della meritevolezza e la logica del controllo sociale – che caratterizzano, fin dalle sue origini, la storia del welfare state – entrano così a far parte, sempre più, delle politiche migratorie. E lo fanno attraverso il richiamo alla sicurezza, che diventa una sorta di mantra continuamente ripetuto per legittimare interventi restrittivi dei diritti dei non cittadini. Il messaggio veicolato dalla civic integration, in sintesi, è il seguente: soltanto alcuni individui, gli stranieri, costituiscono una minaccia all’integrità, alla stabilità e all’ordine delle società europee, e questa minaccia può e deve essere disinnescata attraverso un processo di assimilazione.

In Italia, l’adesione ai principi della civic integration inizia a manifestarsi attorno alla metà della prima decade degli anni Duemila e si concretizza poi, nel 2009, con l’introduzione dell’Accordo d’integrazione, poi entrato a regime negli anni successivi. L’integrazione civica si focalizza inizialmente sugli stranieri in ingresso per motivi di lavoro. Recentemente, tuttavia, sembra avere come target principale i migranti «forzati», ossia i richiedenti asilo e coloro che hanno ottenuto una qualche forma di protezione internazionale. Questi soggetti, esentati dalla firma dell’Accordo, sono adesso oggetto di specifiche iniziative disciplinanti, che si ispirano in maniera più o meno esplicita ai principi della civic integration: anche nel loro caso, il tema del lavoro, la questione dell’apprendimento linguistico e il «problema» dell’adesione ai valori della società italiana sono al centro dell’attenzione.

Il lavoro sembra rivestire un interesse particolare per le istituzioni italiane. Già nel 2014, il Ministero dell’Interno, a seguito dell’intensificarsi dei «flussi» migratori registrato a partire dalla fine del 2013, aveva emanato una circolare1 tramite cui invitava «le prefetture italiane a stringere accordi con gli enti locali per favorire lo svolgimento volontario, da parte degli immigrati ospitati, di attività socialmente utili, che avrebbero il doppio vantaggio di creare un terreno fertile per una più efficace integrazione nel tessuto sociale e di prevenire eventuali tensioni». Il «lavoro» pensato per i richiedenti asilo, e per coloro in attesa di definizione del ricorso, era – diversamente da quello riservato ai titolari di protezione internazionale – un’attività «volontaria, gratuita e di utilità sociale, quindi senza «scopi di lucro», e preceduta da un’adeguata formazione».

A fare da sfondo a questa proposta, oltre a un evidente paternalismo, vi è senza dubbio una rappresentazione chiaramente stereotipata e inferiorizzante dei non cittadini. I richiedenti asilo sono immaginati come soggetti che, da un lato, devono essere protetti dalle rimostranze della popolazione locale «autoctona», giustamente tendente a percepirli come parassiti e come minacce, e dall’altro devono essere condotti verso la retta via del lavoro e della contribuzione alla vita comunitaria, essendo individui intrinsecamente ineducati e inadatti ai canoni della vita economica e lavorativa «occidentale».

Più in dettaglio, il dispositivo della civic integration, attraverso le immagini e le retoriche che abilita, costituendosi come norma, risuona con le figurazioni coloniali e paternalistiche del «buon negro», costituisce un chiaro riferimento al «perfetto integrabile», perché «inferiorizzato» e, in quanto tale, reso «disponibile» ad assumere posizioni sociali e posture di tipo subalterno, adatto al lavoro «devozionale». Mentre la capacitazione attraverso l’abilitazione dell’agency e della partecipazione politica, così come la problematizzazione delle relazioni asimmetriche tra nativi e ospiti all’interno delle trasformazioni più complessive delle società globalizzate, sono sistematicamente eluse.

Una rappresentazione di questo genere, ampiamente condivisa dagli attori politici e dai media, penetra facilmente all’interno del senso comune, alimentando e legittimando visioni, e spesso anche azioni, di stampo apertamente xenofobo e razzista, e finisce così per condizionare le scelte e i comportamenti dei soggetti interessati. Sempre più frequentemente nei quartieri bene delle nostre città, del resto, incrociamo giovani stranieri armati d’improvvisate attrezzature: ramazze e pattumiere, sacconi di plastica per contenere i rifiuti; talvolta in possesso anche di altri rudimentali armamentari, che, alacremente, ripuliscono i marciapiedi, provvedono alla cura del verde residuo delle aiuole degli spartitraffico affastellati di auto e suv. Solitamente il luogo è scelto con cura e il posizionamento degli elementi è strategicamente considerato – in funzione della platea degli spettatori, dell’economia dell’attenzione, dell’accesso alla moneta. Il set è apprestato: più mucchietti di foglie, cicche, cartacce e l’immancabile sporco conferito dai cani sempre agghindati alla moda, evidenziano il risultato dell’impegno, punteggiando lo spazio scenico. Due altarini di cartone segnalano, non solo, l’inizio e la fine dei lavori-in-corso, quanto favoriscono l’esposizione di ulteriori elementi comunicativi essenziali: l’inserto trasparente con un testo a stampa, in perfetto e garbato italiano, che spiega l’impegno nella cura del bene comune e la richiesta di aiuto – non soldi, ma utensìli – e che rimanda al secondo elemento, la presenza «scarna» di monetine per sollecitare l’«offertorio». L’introiezione, più o meno consapevole e strumentale, del modello del «buon profugo» – rispettoso delle regole, volenteroso e disposto al sacrificio – è qui pienamente compiuta.

Il lavoro gratuito e volontario per i richiedenti asilo, peraltro, è successivamente entrato in maniera ufficiale nella normativa italiana: la legge Minniti-Orlando sull’immigrazione, Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale, ha recepito sostanzialmente la proposta contenuta nella circolare del 2014, rendendo così ancora più stretto, sia sul piano simbolico sia su quello materiale, il rapporto tra disponibilità al lavoro e integrazione.

Ma il passaggio più compiuto in questa direzione è il recentissimo Piano nazionale d’integrazione dei titolari di protezione internazionale. Il documento, che sposta il fuoco dell’attenzione dai richiedenti asilo ai rifugiati, pur auspicando che le linee di intervento previste possano «essere considerate un primo passo verso un sistema integrato e inclusivo anche degli altri stranieri regolarmente soggiornanti, a dimostrazione di una matura consapevolezza del fenomeno migratorio raggiunta dal nostro Paese», ritiene che la «creazione e il potenziamento di occasioni d’incontro fra titolari di protezione e la società Italiana [siano] importanti per contribuire allo sviluppo di un senso di appartenenza e stabilità ma altresì per lo scambio e la conoscenza reciproca con i cittadini italiani». Al fine di favorire l’integrazione dei titolari di protezione internazionale, particolarmente importante è la loro partecipazione «alle attività di volontariato. Attraverso il volontariato, infatti, i titolari possono rafforzare il proprio senso di «appartenenza» all’Italia, contribuendo in maniera attiva al benessere collettivo della società ospitante mettendo a disposizione il proprio tempo, le proprie competenze e il proprio «saper fare». Obiettivo prioritario, dunque, «è la messa in atto di politiche e strumenti attraverso cui i titolari di protezione fin da subito si possano esprimere come attori protagonisti nei luoghi in cui vivono», così da «includere, in un nuovo patto di accoglienza da stipularsi con le persone accolte, l’opportunità di partecipare a iniziative solidali (volontariato, lavori di pubblica utilità, servizio civile) quali strumenti utili al percorso d’integrazione».

La figurazione dell’«ospite grato» si realizza qui con l’ingiunzione all’apprendimento, attraverso la pratica solidaristica, delle virtù civiche. Si tratta di un’estensione della pedagogia del learning by doing – l’apprendimento esperienziale – considerato metodo strategico per l’accrescimento e la specificazione delle capacità individuali che alludono all’investimento in capitale umano e sociale. L’esperienza di volontariato, situata all’interno di un’attività elettiva, spontanea, gratuita e disinteressata, nell’ambito dei servizi di utilità sociale realizzati, sempre più in esternalizzazione, da soggetti del terzo settore, appare del tutto coerente con l’estensione capillare del modello di workfare – attivazione responsabile – che coinvolge ogni ambito delle politiche sociali, in linea con l’ideologia della costruzione della big society (Franzini, M., La Big Society. Il Welfare State e la diseguaglianza, in La Rivista delle Politiche Sociali, n. 2/2011, 169-182) – riduzione dell’intervento statale ed espansione del self-help e della carità organizzata nelle comunità locali (Vespasiano, F. e Simeoni M., a cura di, Big Society. Contenuti e critiche, Armando, 2013).

Il migrante «forzato» ad attivarsi si trova dunque in uno stato di indebitamento costante: chi riceve «accoglienza» è sempre in difetto. In questo senso, la sua condizione, nel quadro dell’assetto attuale del sistema capitalistico, è comune a quella di numerose altre categorie e gruppi. Come sottolineato da Stimilli, del resto, «il debito, nelle sue varie forme, è divenuto il presupposto delle attuali modalità di assoggettamento e, come tale, deve essere riprodotto piuttosto che saldato» (Stimilli, E., Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, 2011, p. 12).

Il potere assoggettante del debito, più in dettaglio, si presenta come una forza non repressiva e non ideologica: il debitore è «libero» nella misura in cui il suo agire si svolge nei limiti del vincolo contratto (Lazzarato, M., La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, 2012, p. 48). Tanto per i singoli individui quanto per interi gruppi umani, la libertà viene a coincidere con l’assunzione di uno stile di vita compatibile con una condizione di indebitamento costante (ibidem). Riconoscere il debito come archetipo del rapporto sociale – e come cifra costitutiva, in particolare, dell’orizzonte neoliberista contemporaneo – significa da un lato prendere atto che la società si fonda su un’asimmetria di potenza e non su uno scambio simmetrico ed egualitario, e dall’altro che i rapporti economici implicano un modellamento e un controllo della soggettività, ossia un «lavoro su di sé» (ivi, p. 51).

Il debito, dunque, è una tecnologia di governo e di controllo sociale, di cui la civic integration fa uso per gestire le vite di parte della popolazione immigrata, attuando, nello specifico, lo stesso passaggio segnato dallo stato sociale nei decenni precedenti: dal livello collettivo a quello individuale, dalla sfera pubblica alla sfera privata (Kostakopoulou, D., The Anatomy of Civic Integration, in The Modern Law Review, 6/2010, 933-958). Al pari delle responsabilità per le condizioni di indigenza e povertà, le cause della mancata integrazione non sono imputate alla società nel suo complesso e all’organizzazione politica che la struttura, ma ai singoli non cittadini con i loro tratti culturali considerati innati e le loro presunte disposizioni a un determinato comportamento economico. Al punto tale che gli stranieri sono ritenuti responsabili della precarietà della loro condizione, pagando individualmente il prezzo delle loro performance negative.

Note

Note
1Il testo della circolare è reperibile al seguente indirizzo: http://www.interno.gov.it/it/notizie/volontariato-lintegrazione-dei-richiedenti-asilo.

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