Monumentum

Le ultime sospensioni di Morris alla Galleria Nazionale

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Robert Morris, Out of the Past (2016) - Foto Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, © The Estate of Robert Morris by ARS/SIAE 2019.

Delle mostre organizzate nel 2019 alla Galleria Nazionale, di quelle concepite per la Sala delle Colonne più esattamente, Robert Morris. Monumentum 2015-2018 (fino al 12 gennaio 2020) è forse quella più esclusiva perché capace di dialogare radicalmente con la volumetria dello spazio e perché elaborata (scenograficamente) come uno spettacolo capace di accogliere lo spettatore per renderlo coprotagonista, partecipe di un fare-spazio che nel pensiero di Heidegger, si sa, è «libera interpretazione di luoghi».

Curata da Saretto Cincinelli, al quale si deve il merito d’aver cucito due momenti ben precisi dell’ultimo Morris, e cioè alcuni di lavori della serie MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS (2014-2015) e un ventaglio di quella immediatamente successiva – degli apocalittici Boustrophedons (2016-2018) in cui il procedimento formale si estende radicalmente all’ambiente – questa esposizione non è soltanto un primo appuntamento organizzato all’indomani della scomparsa dell’artista (28 novembre 2018), ma anche un irrinunciabile appuntamento per riflettere sulla sua mai paga e densa indagine plastica, un cui nucleo prezioso è stato ospitato proprio alla Galleria Nazionale (non bisogna dimenticarlo) dal 12 febbraio al 2 marzo 1980, nell’ambito della ricognizione – accanto a Carl Andre (dal 16 al 27 gennaio) e a Donald Judd (dal 29 gennaio al 10 febbraio) – sulla Sculpture Minimal curata da Ida Pancelli, esattamente dieci anni dopo l’importante mostra organizzata al Whitney Museum, dove era stata messa in luce da Marcia Tucker la ricerca di Morris fino al 1970.

Quello che si evince in questi due ultimi progetti, almeno per chi non si è fossilizzato al Morris minimal dei soli anni Sessanta e Settanta (e dunque a un corpus più legato alla Process Art o alla Land Art – Observatory a cui lavora dal 1971 al 1977 ne è esempio felice – di cui è stato protagonista indiscusso), è l’avanzare coerente di un unico grande disegno ininterrotto, di un processo logico che parte dal pensiero (dalla riflessione e dalla lettura di Platone, Kierkegaard, Wittgenstein, Nietzsche, Freud, Marcuse, Foucault o Davidson) per farsi corpo, oggetto: «l’arte è un genere di attività che mira ad un prodotto finito» ha suggerito lo stesso Morris.

Robert Morris, Keep It To Yourself (2014 – 2015).

Basta guardare attentamente la base su cui è adagiata una delle due figure che compongono Keep It To Yourself (2014-2015) per capire che fondamentalmente siamo di fronte a una revisione costante del lavoro portato avanti negli anni e il cui nucleo originario si trova in Slab (1962). Del resto, all’azzeramento di quelle prime opere e dunque a un congelamento che porta a unità elementari (a quelle che Filiberto Menna ha definito figure, forme aniconiche della scultura) via via si giunge – questo anche grazie a opere quali House of the Vetti II (1983) – a un riscatto iconico, a un versante rappresentativo in cui gioca un ruolo fondamentale l’aspetto tragico dell’umanità.

Il recupero del corpo, però, non è soltanto legato a alcune riflessioni di ordine compositivo, ma viene anche da lontano: dai lavori realizzati con Fluxus o con lo Judson Dance Theater di New York qualche tempo fa (non tutti) in mostra al Mart di Rovereto, dall’influenza di Marcel Duchamp, dalle coreografie studiate per una serie di danze e di elaborati legati al rapporto tra il corpo e lo spazio circostante mediante l’utilizzo di tempo, luce e suono, costantemente assorbiti «per aprire il silenzio chiuso delle arti plastiche» (Morris).

Organizzata in collaborazione con la Leo Castelli Gallery dove nel 2015 e nel 2017, in due puntate brillanti, erano stati presentati al pubblico i preziosi progetti MOLTINGSEXOSKELETONSSHROUDS e Boustrophedons, Monumentum si pone come un prosciugamento del corpo (sospeso in accenni di pose tragiche che invitano a riflettere su mondo contemporaneo, maltrattato e consumato), come un fantasma che si spalanca allo spazio (che esplode nello spazio) per mostrarsi in una totalità accecante, come una scena oscena difficile da dimenticare perché rappresentazione e spettacolo di foglie accartocciate, di vite screpolate, ripiegate nel loro muto e acuto dolore.

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