No time to love

James Bond è morto

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Sempre lo stesso super armato ricco bello bianco eppure… Il nuovo 007 non viene fatto fuori per anzianità, per scomodità, perché non rispetta le regole d’ingaggio, perché non rivendica quell’alibi antico per cui il danno collaterale, il male minore, lo giustifica il bene di tutti (tutti chi?), perché in qualche modo mette alla berlina un vecchio sistema di valori che gli dà licenza di uccidere chiunque pur di sopravvivere a sé stesso, questo l’abbiamo già visto. Qui 007 deve vedersela con i suoi affetti. Perché anche uno come lui soffre da morire e uccidere chi ama e chi lo ama proprio non ce la fa.

Lo so, sono anni che Bond deve fare i conti con le donne, come sono quelle che ha, quelle con cui lavora, quelle che gli capitano, alleate e nemiche. Aveva già smesso di avere donne genere immaginario maschile, schiacciate come mosche sopra letti e tavoli di lusso, ma qui è lui che viene sbeffeggiato, umiliato come maschio, prima dalla sconosciuta che seduta a gambe aperte sul letto si toglie di dosso la parrucca, e non le mutande, rivelandogli lo scopo solo lavorativo della sua visita, e poi da un’altra donna che in una cantina, stanza odorosa di peccato di un certo erotismo domestico, comincia a spogliarlo come non potesse resistergli e invece lo aiuta come un bambino a mettersi elegante per la missione in cui sarà praticamente lei a condurre il gioco.

Il Bond, quel James Bond macho sessista, consumista del sesso eteronormato, è morto: vinto dai tempi, dall’ormai impossibile messa in scena di un eroe che domini sessualmente e intellettualmente una donna, finito come maschio capace di uccidere un esercito di maschi come lui senza quasi restare ferito. Come fa ad essere ancora credibile, forse perché è bianco, maschio, c’ha la pistola? Uno che tra un assalto e un assassinio, una boutade e una carneficina, si versa uno scotch e se lo beve come se il tempo fosse lui a poterlo fermare, un eroe cui vogliamo somigliare che non vediamo mai come uno che uccide ma uno che salva investito com’è del ruolo di salvatore, una specie di messia, sangue freddo e rettitudine, niente paura di morire, un Gesù che si immola per il bene del mondo – non a caso il suo antagonista si chiama Lyutsifer – come fa, dicevo, ad essere un po’ meglio di un qualunque uomo qualunque se finisce per essere un narcisista come tanti, splendido, elegante nei gesti, che ti apre lo sportello, ti porta la borsa, ti salva la vita e un minuto dopo ti lascia sola perché dubita di te, donna, che insomma, come donna, vuoi che non lo tradisca?

Anche in questo episodio si combatte sempre per la stesse cose: libertà, democrazia, perché il mondo sia un posto sicuro, per un privilegio in nome della giustizia, just the usual, è la battuta di Bond, sempre le solite cose, non senza l’appoggio di un tono ironico che aleggia come sempre in 007 ma che dice molto di quanto poco ci possiamo credere ancora. Eppure qui, indipendenza, libertà, libero arbitrio, non è quello che la gente vuole. L’antagonista di James Bond, Lyutsifer, lo sa bene: tutti alla fine vogliono solo che qualcuno gli dica cosa fare e come morire senza soffrire. La gente vuole l’oblio, dice. La libertà è un problema, ha bisogno di gente che ne goda e al contempo ne risponda: libertà da chi, da cosa, per vivere come, per fare cosa, e poi libertà di chi, di qualcuno o di tuttˆ? La questione non è nuova, fiumi di letteratura. Eppure.

Una distesa di neve, un lago ghiacciato, siamo già all’inferno e siamo solo alla prima scena, e al primo tentativo di uccidere chi senza colpe deve rispondere delle colpe del padre, assassino dell’intera famiglia di chi sta ora per vendicarsi. Legami di sangue, affetti, si diceva. Lyutsifer vuole vendetta, ha perso l’intera famiglia per mano di un agente che ora è morto e che deve rispondere della sua atrocità: la figlia Madeleine deve pagare con la vita la morte inferta dal padre all’altra famiglia. Siamo solo al teaser, la bambina che sta per annegare imprigionata nel ghiaccio viene salvata dal suo stesso assassino: salvare la vita lega per sempre quanto toglierla, chiunque salvi o venga salvato fa la stessa fine di chi uccide e viene ucciso, resta attaccato per sempre, vittima di un ricatto di memoria, di un genere di appartenenza che ha l’ineludibilità di un patto che nessuno può sciogliere se non la morte stessa.

Come se a valere fosse un legame tra estranei che hanno in comune un danno, lo stesso danno. Ed ecco la colonna sonora, l’inizio del film, che apre su immagini di statue sepolte dalla sabbia di una clessidra, che è anche la doppia catena genetica di un DNA pronto a degenerare in una spirale di morte, un’elica di pistole puntate contro sé stesse e quindi contro il mondo, un mondo destinato a morire, certo, il solito male che prevale sul bene. Ma questa volta la questione non è solo umanitaria, non riguarda in modo un po’ astratto e impersonale il genere umano, la terra vista dallo spazio, visione che intenerisce solo chi dallo spazio la vede, restando noi abbastanza distratti e indifferenti alla fine catastrofica per altro provocata proprio dalla specie disgraziata che siamo.

Non si muore più per proteggere la patria, per salvare l’umanità, per fermare la fine del mondo, con tutta la retorica paternalistica del caso. Nemmeno per salvare sé stessi. I nostri eroi non muoiono si uccidono, non combattono nemmeno per la propria vita, si suicidano. Ma perché? Madeleine, la bambina sopravvissuta, la donna che ama, riamata, James, la figlia di un assassino, la donna che ama un assassino, si nasconde per tutta la vita, per sopravvivere, perché sa che un segreto nascosto nel passato se non viene rivelato continua a inquinare ogni rivolo di vita in cui cerchiamo di navigare, finisce per avvelenare ogni bellissimo giardino in cui coltiviamo sicurezze e piacere.

Il fatto è che forse non c’è più niente da salvare, non è un gran bel mondo, no?, si dicono James e Felix, colleghi amici fraterni (ma neanche la fraternità è salvifica), è corrotto, menzognero, servizi segreti infiltrati ovunque, perfino autori stessi di un virus che dovrebbe salvare ma che fatalmente cade nelle mani sbagliate di chi per primo ha subito l’orrore che loro stessi hanno provocato. Non si vuole vivere senza amare, senza poterlo fare, la vita non vale nulla, non vale più la pena di essere vissuta, quei vecchi cari valori, successo, bellezza, ricchezza, fama, sesso, grandi alberghi, grandi scenari, eccitazione e gloria, niente, non valgono più la vita se non si ama, se non sopravvive qualcosa di noi in qualcun altro, se lo stesso sangue non ci sopravvive. Ed è proprio questo sangue che viene avvelenato, è proprio questo sangue che avvelena, il contatto tra consanguinei uccide.

È la famiglia che muore, fin dall’inizio è già morta, un padre assassino una madre alcolista, una bambina che si difende puntando una pistola, un carnefice che vendica una famiglia morta ammazzata, dai! Pure Bond, verso la fine, scappando con Madeleine e la piccola Mathilde, la figlia che lei gli ha tenuto nascosta ma che ha i suoi stessi occhi,  dirà: This is my… family? Questa è la mia… famiglia? Incredulo, esitante, interrogativo, come a dire, anch’io ho una famiglia, è questo avere una famiglia?

Non fa in tempo a rendersene conto, a dichiararlo a sé stesso, che deve rinunciarci, che da bravo padre e compagno, deve sacrificarsi per loro, perché vivere con loro sarebbe ucciderle – nessuna associazione a femminicidi, stupri, maltrattamenti da parte di compagni e padri e fratelli e mariti, per carità, è solo per dire che il film non si può dire ci racconti il bello di una famiglia eteronormata, non c’è padre che resti in vita. Che sia un attacco al patriarcato? Lyutsifer sottrae ai servizi l’arma con cui vuole avvelenare il sangue della gente, di tutti quelli che condividono legami di sangue, insomma, la fine degli affetti dovuti, la fine della famiglia, benevola o tragica che sia. In fondo il suo rivale e omonimo 007 è solo come lo era lui, ma è donna, e nera, vorrà dire qualcosa? Magari che in comune hanno solo ricchezza e licenza di uccidere – non indifferente il fatto che l’unico che lei uccide non per legittima difesa e non perché traditore, spia, venduto, sia lo scienziato, russo, tanto per stare ancora un po’ in odor di guerra fredda, che con una battuta le rivela il suo profondo razzismo. Il time to die è per lui, va bene tutto, pure russo, ma razzista no, grazie.

Allora cosa resta alla fine, se il salvatore James muore per amore e il distruttore uccide per mancanza d’amore? Cosa resta di quel sacro legame che è una catena, una doppia elica che si infetta e infetta, sangue che potrebbe non riprodurre vita ma provocare morte, se è vero che il tempo è abbastanza finito e che quel We have all the time of the world, abbiamo tutto il tempo del mondo, come dice la canzone finale, in realtà non lo abbiamo affatto magari perché un po’ non abbiamo proprio più il mondo?

La vita senza godere della vita è solo esistenza, prolungare il tempo non è vivere. La famiglia ha mostrato la corda, il patto di fiducia tra governanti e governati è rotto, il mondo dei legami di sangue è abbastanza finito nonostante il capitalismo ne abbia bisogno per la riproduzione e la cura della cosiddetta forza lavoro. Allora cosa resta in un mondo di vite precarie, individualiste, rancorose, chiuse in un privato che ormai non è più solo la loro casa ma la città stessa, deprivata di quasi ogni suo spazio pubblico?

Una lotta, dice Butler, ci sarebbe da fare una lotta contro quella precarietà che è morte lenta, tempo compromesso, arbitraria esposizione alla perdita, all’indigenza, all’abuso, sensazioni singolari ma anche plurali. La soluzione, dice, è radunarsi, assemblarsi, fare alleanze più che legami, alleanze di corpi che richiedano una vita ugualmente vivibile, non una uguaglianza che mette tutti in una condizione di invivibilità. Fare alleanze di corpi, corpi che nella precarietà di un mondo non più vivibile si riprendano lo spazio della vita in comune, lo spazio pubblico del pensiero, della politica, dell’abitare, corpi che non hanno bisogno di sangue cui appartenere, tanto meno da spargere.

 

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