Pratica della gioia

Gilles Deleuze: un apprendistato in filosofia

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Lisetta Carmi, I travestiti, 1965-71, fotografia, cm 29x23

L’affermazione speculativa ha bisogno di una pratica gioiosa corrispondente per tradursi in creatività e attività. L’affermazione in sé rischia di apparire semplicemente come ciò che afferra e sceglie l’essere che è; la gioia invece è propriamente ciò che produce l’essere 

Un progetto etico non può rimanere sul piano della speculazione, ma deve trovare una via di accesso al campo della pratica.  La concezione della gioia di Spinoza fornisce a Deleuze la chiave per accedere a questo ambito: «Il sentimento della gioia è il sentimento propriamente etico: sta alla pratica come l’affermazione sta alla speculazione […] L’Etica, filosofia dell’affermazione pura, è anche la filosofia della gioia che corrisponde a quest’affermazione»1. L’affermazione della speculazione, allora, deve essere completata dalla gioia della pratica. È così che l’etica esprime la sua forza costruttiva come costituzione pratica dell’essere. Effettivamente, l’affermazione speculativa ha bisogno di una pratica gioiosa corrispondente per tradursi in creatività e attività. L’affermazione in sé, in altre parole, rischia di apparire semplicemente come ciò che afferra e sceglie l’essere che è; la gioia invece è propriamente ciò che produce l’essere.

Gran parte dell’opera di Deleuze è toccata dal problema della pratica: come dare impulso alle forze creative? Come rendere la filosofia veramente pratica? La chiave sta nell’indagine sulla potenza. La concezione mobile e malleabile dell’essere di Bergson e Spinoza prepara già il terreno per questo compito: l’ontologia di Deleuze si concentra sul movimento dell’essere, sulle sue relazioni causali, sulla sua “produttività” e “producibilità”. Il tema della potenza e della produzione, allora, occupa già una posizione fondamentale. In Nietzsche, Deleuze individua una distinzione tra due diversi tipi di potenza, attiva e reattiva, ovvero, la potenza legata a ciò che è in suo potere e la potenza separata da ciò che è in suo potere. In Spinoza ritroviamo questa stessa definizione, ma arricchita, a proposito dell’adeguato e dell’inadeguato: l’adeguato è ciò che esprime (o contiene o comprende) la sua causa; l’inadeguato è muto. Come l’attivo, l’adeguato è legato a ciò che è in suo potere, ma anche alla sua genealogia di affetti, alla genealogia della sua stessa produzione. L’adeguato mostra pienamente sia la produttività che la producibilità dell’essere. È questo rapporto cruciale ad aprire a Deleuze il campo della potenza: alla potenza di esistere e di agire corrisponde la potenza di essere affetto. Questa potenza di producibilità gli fornisce il canale di comunicazione tra ontologia e pratica.

L’importanza della potenza di essere affetto consiste nel fatto che questa rivela le distinzioni interne alla nostra potenza; la potenza di agire ed esistere, al contrario, appare come pura spontaneità, indifferenziata, e quindi resta oscura alla nostra analisi. Occorre allora approfondire le distinzioni interne alla potenza, alla nostra affettività, per scoprire il punto di partenza di una pratica etica. L’indagine di Deleuze sulla nostra potenza di essere affetti presenta due livelli di distinzioni: al primo livello, fa la distinzione tra affezioni attive e passive; al secondo, quella tra affezioni passive gioiose e affezioni passive tristi. Formulando ciascuna di queste distinzioni all’interno della nostra potenza, ammette anche che la condizione umana si trova per lo più sul fronte debole della distinzione: la nostra potenza di essere affetti è per lo più dominata da affezioni passive anziché attive e la maggior parte delle nostre affezioni passive sono tristi anziché gioiose. Il “pessimismo” spinoziano è proprio il punto di partenza di una pratica gioiosa. Partendo da un giudizio realistico sulla nostra condizione, siamo pronti a intraprendere la difficile strada dell’incremento della nostra potenza, del diventare gioiosi, del diventare attivi.

Deleuze fa partire la pratica dal terreno della casualità degli incontri e si focalizza sugli incontri con i corpi che concordano con la nostra natura, che aumentano la nostra potenza: incontri che generano passioni gioiose 

Deleuze fa partire la pratica dal terreno della casualità degli incontri e si focalizza sugli incontri con i corpi che concordano con la nostra natura, che aumentano la nostra potenza: incontri che generano passioni gioiose. Una passione gioiosa, dal momento che è una passione, è sempre il risultato di una causa esterna, e quindi indica sempre un’idea inadeguata; tuttavia, dal momento che è gioiosa, apre comunque una via verso l’adeguatezza: «È necessario quindi, per favorire le passioni di gioia, formare l’idea di ciò che è comune al corpo esterno e al nostro, poiché solo quest’idea, questa nozione comune, è adeguata»2. Le passioni gioiose sono la condizione preliminare della pratica: sono il materiale grezzo per la costruzione della nozione comune. In effetti, la nozione comune è già latente nella passione gioiosa, perché la gioia risulta necessariamente dall’incontro con un corpo che ha una relazione compatibile o componibile con il nostro.

La gioia dell’incontro è proprio la composizione dei due corpi in un corpo nuovo, più potente. Quando la nostra mente forma l’idea del rapporto tra questo corpo e il nostro (una nozione comune), l’affezione gioiosa cessa di essere passiva e diventa attiva. La costruzione della nozione comune è, di fatto, l’inclusione o comprensione della causa dell’affezione, e un’affezione che esprime la sua causa non è più passiva, ma attiva. La gioia dell’affezione attiva non dipende più da un incontro casuale: la gioia che deriva dalla nozione comune è la gioia che ritorna. È questo il processo pratico che realizza l’ingiunzione etica di Deleuze: diventate gioiosi, diventate attivi.

La pratica gioiosa riporta l’etica all’ontologia: si serve della producibilità o componibilità dell’essere. Questo è forse il risultato più importante dell’ampia e complessa indagine ontologica deleuziana. L’essere è una struttura ibrida costituita attraverso la pratica della gioia. Quando la nozione comune include la causa di un incontro gioioso, e rende quindi quell’incontro adeguato, ciò che fa è una nuova incisione nell’essere, la costruzione di un nuovo concatenamento, di un nuovo assemblaggio delle sue strutture. È proprio la comprensione della causa che porta questo incontro al livello dell’essere: la sostanza, come ci insegna Spinoza, è ciò che è causa di se stessa. La pratica della gioia è la costruzione di assemblaggi ontologici, e quindi la costituzione attiva dell’essere.

da Michael Hardt, Gilles Deleuze: un apprendistato in filosofia, collana OPERAVIVA, DeriveApprodi

Note

Note
1Spinoza e il problema dell’espressione, trad. it. di S. Ansaldi, Quodlibet, Macerata 1999, p. 213
2Ivi, p. 222

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