Quale comunismo queer

Note per una sovversione dell’eterosessualità

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Christopher Wood, Lo spiritello d'erba - Pontasca (1999) - Foto di Roberto Gelini

Pubblichiamo una anticipazione da Comunismo queer. Note per una sovversione dell’eterosessualità, Meltemi (2019), in libreria da oggi. Ringraziamo l’autore e l’editore per l’anteprima.

Si dice spesso, anche quando non lo si fa esplicitamente, che l’insieme delle istanze, delle rivendicazioni e delle lotte portate avanti dalle minoranze di genere e sessuali potrebbe essere riassunto dal concetto politico di «libertà». Questo perché, effettivamente, vi è un alto numero di stati al mondo in cui alle persone gay e lesbiche sono giuridicamente negati una serie di diritti – in Russia, ad esempio, un libro come questo non potrebbe essere pubblicato, distribuito e discusso, dal momento che sotto il regime di Vladimir Putin la cosiddetta «propaganda dell’omosessualità» è un reato perseguibile1; altri stati in cui non si possono intraprendere percorsi di transizione di genere in modi legali e sicuri; e altri ancora, in costante aumento, in cui le donne non possono interrompere in modi altrettanto legali e sicuri la gravidanza. A tutto ciò, si aggiunga che a prescindere da questo o quell’ordinamento statale, da questo o quell’insieme di diritti, le donne – incluse quelle trans – si sentono assai meno libere, rispetto agli uomini, di passeggiare per la strada di notte, da sole. Nessuna legge ti impedisce di passeggiare di notte da sola, eppure tu non ti senti ugualmente libera di farlo, o di farlo con sicurezza, perché farlo significherebbe esporsi al rischio di subire uno stupro, o altre forme di violenza, inclusa l’uccisione. E a questo si aggiunga che molte persone gay e lesbiche si sentono assai meno libere, rispetto a quelle eterosessuali, di camminare per la strada tenendosi per mano, o di baciarsi nello spazio pubblico. E anche in questo caso, nessuna legge ce lo impedirebbe: eppure non ci sentiamo liberi di farlo, oppure sappiamo che farlo ci esporrebbe al rischio di subire molestie, al rischio del richiamo da parte delle forze dell’ordine, al rischio del pestaggio, al rischio della morte – al rischio di morire, cioè, perché camminiamo tenendoci per mano, o perché ci baciamo per la strada.

Se tutto ciò è assolutamente vero, altrettanto vero è che la sovversione dell’eterosessualità costituisce per me uno dei prerequisiti – uno dei più importanti – per una società che immagino improntata a ideali di eguaglianza, e di di giustizia. E ciò perché sovvertire l’eterosessualità significa sovvertire non questa o quella diseguaglianza, bensì il modo di produzione della nostra diseguaglianza. Infatti, se da un lato credo che il problema della libertà non si porrebbe logicamente più, nel momento in cui il presupposto della illibertà – ossia l’eterosessualità – fosse sovvertito, dall’altro credo soprattutto che ciò che l’eterosessualità produce non sia né esclusivamente né primariamente l’illibertà individuale di coloro che, sotto il suo regime gerarchico, occupano una posizione minoritaria, e che dunque sono obbligati a lottare per ottenere, o difendere, i più basilari diritti di autodeterminazione. L’eterosessualità produce primariamente diseguaglianza. E se noi riusciamo a ravvisare questa diseguaglianza, allora perveniamo anche a ravvisare un rapporto sociale improntato alla diseguaglianza – o meglio, strutturato e reso intelligibile in quanto tale dalla diseguaglianza.

La diseguaglianza, d’altronde, è sempre una relazione. Se tu non ti senti libera di camminare per le strade da sola, di notte, in assenza di una legge che vieti alle donne di camminare di notte, è perché qualcun altro si sente invece libero di occupare lo spazio pubblico per molestarti, per stuprarti o per ucciderti. (Nella quasi totalità dei casi si tratta di un uomo, o di un branco di uomini.) Non a caso, «le strade libere le fanno le donne che le attraversano» è uno degli slogan femministi che ricorre più spesso, tuttora, nelle manifestazioni di piazza, sia per denunciare che le donne non si sentono affatto libere di camminare per le strade in sicurezza, sia per affermare che la soluzione a questo problema non è la militarizzazione delle strade, bensì la sovversione del potere degli uomini, che liberamente camminano per la strada minacciando la libertà delle donne. E in modo analogo, se io non mi sento libero di baciare il mio compagno in mezzo alla strada, in assenza di una legge che lo vieti, è perché qualcun altro si sente invece libero di occupare lo spazio pubblico per insultarmi, molestarmi, pestarmi o uccidermi, qualora lo facessi. (Anche in questo caso, nella maggior parte dei casi si tratta di un uomo, o di un branco di uomini.) E come sappiamo, negli spazi privati, o nei molti spazi intermedi tra quello pubblico e quelli privati, le cose non vanno di certo meglio. Tutto questo è per dire che sottesa alla nostra percezione più immediata e frequente di minor libertà vi è in realtà una diseguaglianza: la diseguaglianza tra chi domina e chi subisce il suo dominio, la diseguaglianza tra chi opprime e chi subisce la sua oppressione. E proprio come non ha avuto alcun senso pensare che il correttivo ideologico del comunismo potesse essere il liberalismo, allo stesso modo non ha alcun senso limitarsi a rivendicare più libertà, sia che la si intenda in senso individuale (liberale e liberista) sia che la si intenda in senso collettivo (liberaldemocratico). Ha senso, invece, provare a comprendere come possiamo sovvertire la matrice della nostra oppressione, la quale, tra le molte altre cose, accorda effettivamente in modo diseguale la libertà di fare questo o quello a seconda del tuo genere o del genere della persona con cui lo fai. È solo se inquadriamo in termini di «diseguaglianza» ogni aspetto che concerne la nostra vita, inclusa l’illibertà, possiamo spingerci a comprendere come mai l’eterosessualità costituisce il modo di produzione delle risorse simboliche, materiali, soggettive e relazionali da cui il capitalismo necessariamente attinge per dispiegare il proprio dominio e per realizzare la società diseguale che è sotto gli occhi di tutti.

Questo è l’unico discorso che sono disposto ad ascoltare quando si parla della relazione tra il capitalismo e la messa a valore delle risorse soggettive e relazionali – ossia, sostanzialmente, dei generi prodotti in quanto tali dall’eterosessualità. Perché o pensiamo che le risorse soggettive e relazionali possono essere «estratte» dal capitalismo allo stesso modo in cui «estrae» le risorse minerarie, oppure significa che di quella tradizione di pensiero che a un certo punto ha iniziato a dire che «non si nasce donna», che «le lesbiche non sono donne», che «la donna è il prodotto di una relazione di schiavitù», che «la nostra lotta mira ad abolire gli uomini» o che «il genere è performativo» – ossia a denaturalizzare ciò che fino a quel momento si supponeva naturale alla stessa maniera delle risorse minerarie – non abbiamo recepito nulla, o davvero molto poco. Delle due, l’una.

La differenza tra le risorse minerarie e le risorse soggettive e relazionali, consiste nel fatto che quelle minerarie, nel sottosuolo, ce le ha messe Mahādevī, Dio, Allah, Ahura Mazdā, Yahweh, o qualunque altro nome vogliamo usare per riferirci alla stessa cosa – e il capitalismo estrae dunque risorse che non appartengono a nessuno, in questo senso comuni, al fine di concentrare nelle mani di pochissimi i mezzi atti alla loro trasformazione, e soprattutto il potere di stabilire il prezzo di questa trasformazione e i termini dello scambio. Le risorse soggettive e relazionali, invece, non sono l’opera né della natura né di una divinità superiore: sono il frutto del modo di produzione eterosessuale degli uomini e delle donne, il quale non ha altra origine se non quella società che esso stesso, performativamente, ricrea e riproduce. Dobbiamo dunque fare attenzione a non equiparare le risorse soggettive e relazionali a quelle naturali, perché il rischio è di veicolare un’idea del superamento del capitalismo che finisce col riservare alle soggettività e alle relazioni lo stesso trattamento che vorrebbe riservare alle risorse del sottosuolo, ai mari, o all’aria. Ossia la loro «tutela», e la messa al riparo dalle speculazioni capitalistiche. Ma se questo è senza dubbio auspicabile per tutte le risorse naturali – proprio perché sono naturali –, non può invece essere auspicabile per le risorse soggettive e relazionali, dal momento che nessuna natura, nessuna divinità, ha stabilito che debbano esistere gli uomini e le donne. Gli uomini e le donne, le loro attitudini, le loro propensioni, le loro inclinazioni, sono il frutto del modo di produzione eterosessuale della soggettività e della relazione. E questo modo di produzione è interamente sociale: noi stessi, che siamo il suo prodotto, siamo anche obbligati a riprodurre l’eterosessualità se vogliamo ambire a una qualche forma di intelligibilità e riconoscibilità. Ed essere riconoscibili significa essere messi a valore e al lavoro dal capitale. Ecco su cosa il capitalismo si fonda. Pertanto, «gli uomini» e «le donne» possono solo essere oggetto di sovversione, non di tutela. Tutelarli significherebbe tutelare il modo di produzione eterosessuale, le sue diseguaglianze, i suoi rapporti di forza – significherebbe tutelare, paradossalmente, un presupposto del capitalismo stesso. Sovvertirli significherebbe invece gettare le basi anche per la sovversione del capitalismo. E il fatto che ci sembri così difficile pensare che sovvertire gli uomini e le donne significherebbe gettare le basi per il comunismo non è che la conferma del fatto che qualunque tentativo compiuto finora di sovversione della matrice di ogni diseguaglianza politica, economica e sociale, sia stato coscientemente depistato dalla trasfigurazione di questa diseguaglianza in mera differenza.

[…]

Per come lo intendo, il postulato alla base del comunismo queer è che lo sfruttamento e l’esclusione, all’interno delle società capitalistiche, non hanno solo un carattere universale – tale per cui una maggioranza assoluta di persone è costretta a vendere la propria forza-lavoro al capitale a condizioni che non hanno scelto e che, di conseguenza, possono tranquillamente determinare anche la loro esclusione. Lo sfruttamento e l’esclusione, nelle società capitalistiche, hanno innanzitutto un carattere particolare. Questo era ciò che rilevava Mario Mieli, d’altronde, quando in Elementi di critica omosessuale (1977) scriveva che il capitalismo colpisce «differentemente, allo stesso modo». Per Mieli, di conseguenza, è solo

coltivando le specificità profonde di ogni nostro singolo caso di oppressione personale, che noi possiamo giungere alla coscienza rivoluzionaria che coglie nel caso mio il tuo specifico di oppressione (perché anche tu, etero, sei un gay negato) e nel caso tuo il mio specifico di oppressione (perché anche io sono una donna negata) e riconoscere un noi tutte/i, al di là di ogni separazione e autonomia storicamente determinatesi, la specie umana negata. La rivoluzione non può che venire da questo riconoscimento del nostro essere comune represso, che si riflette oggi in forme separate nella società, in coloro che vivono in prima persona di fronte alla repressione un aspetto particolare della «natura» umana negato dal sistema. Il proletariato, la lotta delle donne, dei neri e di noi gay hanno insegnato a cogliere l’importanza fondamentale, ai fini dell’emancipazione umana, di tutto ciò che viene considerato marginale, secondario, anomalo o addirittura assurdo. La vita della specie sta là.

Tuttavia, esistono modi diversi di interpretare il postulato per cui lo sfruttamento o l’esclusione, all’interno delle società capitalistiche, non hanno solo un carattere universale, ma particolare. Ad esempio Georgy Mamedov e Oksana Shatalova, di recente, hanno affrontato la questione dello sfruttamento e dell’esclusione capitalistici pressoché in questi termini, in un articolo molto interessante, approdando tuttavia a una conclusione diversa da quella che propongo. «Per le donne, le persone gay e lesbiche, le persone trans*, quelle appartenenti a gruppi etnici minoritari, nonché per le persone con disabilità e con problemi di salute mentale», scrivono Mamedov e Shatalova, «il capitalismo crea specifiche condizioni di esclusione e di sfruttamento»2. E per opporsi a tale situazione, insistono sulla necessità, per i gruppi sociali che menzionano, di unirsi in un «movimento comune»: un movimento, cioè, «che non presuppone la subordinazione di bisogni specifici a obiettivi universali, ma che anzi concepisce ogni bisogno particolare come un bisogno universale».

Una delle sfide più importanti, come sappiamo, è oggi costituita proprio dalla capacità di pensare i presupposti e le implicazioni di un simile lavoro politico di alleanza tra gruppi che, pur esperendo forme di esclusione o di sfruttamento per certi versi simili, non sembrano affatto convergere con facilità verso un movimento comune. Dalla mia prospettiva, tuttavia, le ragioni di tale difficoltà derivano proprio dal fatto che il capitalismo non si limita a «creare» specifiche condizioni di esclusione e di sfruttamento per le singole situazioni di vulnerabilità o di oppressione che elencano. Piuttosto, è a partire dalle singole, specifiche, condizioni di vulnerabilità e oppressione che il capitalismo deriva e modella le diverse forme di sfruttamento o di esclusione, riproducendo poi, attraverso di loro, specifiche condizioni di vulnerabilità. E c’è una differenza tra le due cose. Perché se noi pensiamo che il capitalismo «crea» specifiche condizioni di esclusione o sfruttamento, allora riteniamo anche che il capitalismo costituisce l’inizio e la fine di ogni forma di oppressione, ignorando, o occultando, che ciascuna di quelle specifiche condizioni versa già in una condizione di specifica vulnerabilità, e che il capitalismo si afferma proprio per mezzo di quelle specifiche forme di vulnerabilità. Il capitalismo, per un gay, per una lesbica, per una donna, per una persona trans*, non costituisce l’inizio e la fine dei suoi problemi. Storicamente, ciò è dimostrato dal fatto che quando i gay non esperivano le specifiche forme di sfruttamento che invece esperiscono attraverso il diversity management dell’odierno capitalismo (negli stati in cui non sono perseguitati), o le odierne forme di esclusione dal mercato, erano comunque socialmente relegati o all’invisibilità o all’invivibilità – alla segregazione, alla detenzione manicomiale, all’incarcerazione, alla deportazione, alla tortura, alla pena di morte. A forme di esclusione, in altri termini, non riducibili a quella dai circuiti dell’economia formale. E questo è solo uno dei molti esempi possibili: molti altri esempi già costellano i testi delle femministe3, delle lesbiche, delle persone razzializzate o con disabilità, psichica o motoria.

Se noi pensiamo che il capitalismo «crea» specifiche forme di sfruttamento e di esclusione, in altre parole, pensiamo anche che prima del modo di produzione capitalistico non vi fosse alcuna specifica forma di oppressione, e che il suo superamento le eliminerebbe automaticamente tutte. Il comunismo queer che propongo, invece, considera l’eterosessualità come modo di produzione che precede e informa quello capitalistico e che, pertanto, è destinato tranquillamente a sopravvivergli, nel caso in cui il superamento del capitalismo non fosse preceduto da una sovversione dell’eterosessualità stessa. Se vogliamo lottare efficacemente contro il capitalismo – da cui dipende l’oppressione, la diseguaglianza e la violenza attualmente esperita dal maggior numero di persone al mondo – dobbiamo farci carico delle singole modalità che lo sfruttamento o l’esclusione assumono, perché ciascuna di quelle modalità riferisce di una specifica matrice di oppressione che concorre nella definizione di ciò che, in termini generici, definiamo poi «sfruttamento», «esclusione» e, innanzitutto, «capitalismo». Non dobbiamo demandare al proletariato che vincerà la lotta di classe la successiva abolizione del modo di produzione eterosessuale. Noi dobbiamo piuttosto fare in modo che la nostra vittoria, in quanto proletariato, promani essa stessa dalla sovversione dell’eterosessualità. Quando noi lottiamo genericamente contro lo sfruttamento o contro l’esclusione, ci opponiamo al capitalismo inteso come inizio e come fine di ogni oppressione possibile o immaginabile. Quando noi lottiamo invece contro le specifiche forme che lo sfruttamento o l’esclusione assumono, ci opponiamo innanzitutto a ciascuna delle singole matrici di oppressione da cui il capitalismo trae necessariamente linfa e sostanza per affermarsi e riprodursi. In entrambi i casi, si potrebbe dire, «lottiamo contro il capitalismo». Ma è solo nel secondo caso che ci concediamo la possibilità di opporci ad esso a partire da ciò che ad esso si pone come presupposto necessario. È solo nel secondo caso che ci opponiamo al capitalismo a partire dalle sue cause, anziché dai suoi effetti più immediati o visibili. Se in quanto minoranze di genere e sessuali già lo facciamo, d’altronde, è perché di quelle cause, ai più invisibili o incomprensibili, noi non cessiamo di subire gli effetti. In ciò consiste la differenza tra una qualunque forma di anticapitalismo e il comunismo queer.

Il postulato teorico del comunismo queer prende le mosse da un interrogativo: regge ancora, come ha scritto Nancy Fraser, l’assunto per cui «le persone omosessuali non costituiscono una classe inferiore, ma utile, di lavoratori servili, il cui sfruttamento è centrale per il funzionamento dell’economia»? Regge ancora, questo assunto, nel momento in cui l’unico posto di lavoro a cui sembra poter ambire la stragrande maggioranza dei giovani gay sembra essere quello di commesso, in regime di supersfruttamento e precarietà, in uno dei settori trainanti dell’economia globale – ossia il commercio dell’abbigliamento a costo medio-basso, la cui manodopera prevalentemente femminile viene reclutata tra le popolazioni dei paesi più poveri del mondo (Bangladesh, Vietnam)? Non tutti i giovani gay lavorano nel settore della vendita dell’abbigliamento a costo medio-basso, questo mi è chiaro – molti, ad esempio, non lavorano affatto, e vivono nell’indigenza, dal momento che spesso non possono affatto contare sul sostegno economico delle famiglie da cui sono stati espulsi. Di certo, però, la stragrande maggioranza dei commessi di sesso maschile impiegati in quei negozi sono giovani gay. E l’altissima percentuale di giovani gay che lavora precariamente, sottomessa a turni massacranti, e per un salario al di sotto della soglia di povertà, nei grandi e affollati centri commerciali alle periferie delle città, nelle stazioni e negli aeroporti, che non chiudono né alla domenica né mai, non eguaglia affatto quella di giovani gay impiegata in altri settori lavorativi, maggiormente qualificati socialmente, o in cui, almeno, le condizioni lavorative non sono interamente assoggettate alle leggi del profitto – in cui cioè esistono giorni di riposo, indennità in caso di malattia o infortunio, diritti alla previdenza sociale, all’equo compenso, o alle ferie retribuite.

L’esempio dei giovani gay sfruttati nel comparto commerciale dell’abbigliamento a costo medio-basso, tuttavia, è solo uno degli esempi possibili per confutare la posizione di Fraser per cui gay e lesbiche – e io estendo il discorso anche ad altre minoranze oppresse dal sistema sociale eterosessuale – non costituiscano una classe di lavoratori servili e sfruttati. Si potrebbero fare molti altri esempi, tutti suscettibili di essere piegati alla generica conclusione che suona pressappoco così: il capitalismo contemporaneo dimostra di non aver alcun bisogno di escludere né i gay né le lesbiche né chiunque altro, perché l’intera vita («il bios») è oggi soggetta a sfruttamento, e tutto ciò che possiamo fare è lottare per una ricomposizione, al di là delle differenze, contro il capitalismo. Per quanto io possa anche comprendere il movente, o la percezione, che anima discorsi come questi, in questo libro sostengo qualcos’altro: e cioè che le forme che lo sfruttamento assume sono in larga parte dipendenti dal modo di produzione e di organizzazione delle forme di soggettivazione e di relazione sociale, e che, pertanto, la sovversione di quel modo di produzione sia necessaria alla sovversione del capitalismo stesso in un «modo» che non ne preservi, naturalizzandole, le diseguaglianze strutturali. Questa assunzione teorica ambisce a detenere un valore particolare per noi minoranze di genere e sessuali. E un valore universale, invece, per chiunque intenda opporsi al capitalismo, partendo dalla consapevolezza che esso non è che il prodotto di specifiche forme di oppressione.

[…]

Sostenere che il capitalismo dimostri ormai, addirittura empiricamente, di non avere più alcun bisogno dell’eterosessualità (Nancy Fraser) significa sostenere la sopraggiunta inutilità (ammesso che, per alcuni, un’utilità l’abbiano mai avuta) delle teorizzazioni e delle lotte lesbiche e gay contro l’eterosessualità – quali quelle testimoniate dai testi di Monique Wittig o di Mario Mieli, stranamente assenti dagli odierni riferimenti filosofico-politici della sinistra radicale. Eppure, sia Wittig sia Mieli si muovevano dichiaratamente nel solco della tradizione marxista, ratificando sostanzialmente la validità del progetto comunista! Nel 1974, Mario Mieli abbandona addirittura il FUORI! – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, nel momento in cui questo decide di federarsi con il Partito Radicale e di sposare una linea riformistica di collaborazione con la borghesia. E insieme ad altri fuoriusciti, ribadirà la linea rivoluzionaria, eleggendo come interlocutori solo ed esclusivamente i gruppi della sinistra extraparlamentare. Ciò che Wittig e Mieli credevano è che un’ideologia comunista propugnata dagli uomini eterosessuali, ma soprattutto poco incline a sovvertire il presupposto eterosessuale delle teorizzazioni del comunismo, avrebbe fisiologicamente preservato tutte le contraddizioni soggettive e relazionali sulle quali il capitalismo si fonda, impedendo paradossalmente la pensabilità, e la realizzazione, proprio del comunismo. D’altronde, se anche da qualche parte «una certa trasformazione di ordine economico ha avuto luogo (la fine della proprietà privata, la costituzione dello stato socialista), ma non è stata accompagnata da alcuna rivoluzione sociale, è perché le persone sono rimaste tali e quali». Ossia, innanzitutto, uomini e donne. Ecco perché, per Monique Wittig, «la trasformazione dei meri rapporti economici non può bastare».

Ancora oggi, nei casi in cui gli uomini eterosessuali della sinistra anticapitalista riconoscano l’esistenza di una qualche forma di oppressione di genere e sessuale, ritengono in ogni caso che l’unico beneficiario – o ancora peggio: l’unica causa –, sia il capitalismo. (Idea tragicamente interiorizzata anche da molte minoranze.) Che si tratti di sfruttamento del lavoro domestico, di cura e sessuale, svolto tutt’oggi dalle donne, cis o trans, e in misura minore, ma non meno importante, dai gay; che si tratti di sfruttamento intensivo mascherato da inclusione differenziale e condizionale nei riguardi di soggetti socialmente emarginati, come nei casi di diversity management; che si tratti di esclusione radicale dai circuiti formali dell’economia, come ha denunciato la presidente dell’Associazione Trans di Napoli, Loredana Rossi – ebbene, in tutti questi casi l’unico beneficiario di queste forme di subalternità viene individuato esclusivamente nel capitalismo. Nessuna contraddizione viene percepita nel cuore del modo di produzione eterosessuale del genere. Nessuna contraddizione viene percepita nel fatto che i principali fruitori del lavoro domestico o sessuale, gratuito o mal retribuito, sono uomini eterosessuali. Nessuna contraddizione viene percepita nel fatto che se le persone trans* non hanno un reddito, in un contesto in cui il reddito deriva primariamente dal lavoro, è perché tutti i posti di lavoro retribuito sono occupati dalle persone cisgenere. Chiaramente, il discorso non può risolversi – o almeno, non da un punto di vista politico – nella semplice rivendicazione di un «posto» per chi il posto non ce l’ha, perché è proprio attraverso quella rivendicazione che, regolarmente, si compie la neutralizzazione della stessa istanza conflittuale. Nessuna inclusione può darsi in assenza di una critica e di una sovversione dei differenziali di potere che strutturano quel dato campo di potere o quella data pratica sociale come escludente. Ma il punto resta tuttavia che l’incapacità, o il rifiuto cosciente, di percepire la contraddizione nel sistema eterosessuale consente precisamente di aggirare quali differenziali di potere strutturano ciò che genericamente definiamo sfruttamento ed esclusione – ciò che genericamente definiamo capitalismo.

Io non penso che al conflitto agito da chi è sfruttato nei riguardi di chi sfrutta, o da chi detiene nulla nei riguardi di chi detiene tutto, debba essere affiancato un «altro» conflitto, e che a questo conflitto debba essere accordata la stessa importanza accordata all’altro. La mia posizione, piuttosto, è che il conflitto agito da noi minoranze contro l’eterosessualità deve innervare innanzitutto lo stesso conflitto di classe. In primo luogo, perché esso si dà già all’interno della classe – dal momento che tra gli «sfruttati» e gli «esclusi» ci sono le donne e le minoranze di genere e sessuali, e dal momento che le specifiche forme che lo sfruttamento e l’esclusione nei loro riguardi assume ha a che fare precisamente con la posizione che occupano all’interno del sistema eterosessuale del genere. In secondo luogo, perché in assenza di una critica del modo di produzione eterosessuale che, tutt’oggi, continua a strutturare la divisione del lavoro, offrendo al capitalismo le risorse simboliche e materiali, corporee e soggettive, per perpetuarsi e riprodursi, ci condanniamo a produrre un discorso sul conflitto di classe desideroso di stabilire una gerarchia tra i conflitti che contano, al cui apice figurano però solo quelli che garantiscono agli uomini eterosessuali di continuare a dirci che fare.

Note

Note
1Ai sensi della legge approvata nel 2013 dalla Duma, il parlamento russo, sono considerati crimini l’organizzazione del Pride (vietato fino al 2113), parlare in difesa dei diritti degli omosessuali, distribuire materiale che promuova le istanze delle persone omosessuali, o propagandare idee di eguaglianza tra generi e orientamenti sessuali. Nell’aprile del 2017, inoltre, il periodico «Novaja Gazeta» ha pubblicato un’inchiesta che porta alla luce le persecuzioni dei gay in Cecenia, dalla quale risulta che le forze dell’ordine perseguono, arrestano, picchiano e torturano persone «sospettate» di essere omosessuali. Il primo ministro Ramzan Kadyrov ha tuttavia addotto una singolare argomentazione a sua difesa, negando, di fatto, l’esistenza stessa di persone omosessuali in tutto il paese: «Se persone del genere esistessero in Cecenia, le forze dell’ordine non dovrebbero preoccuparsi di loro dal momento che ci penserebbero gli stessi familiari a spedirle dove non possono più tornare».
2Georgy Mamedov, Oksana Shatalova, Against Simple Answers: The Queer-Communist Theory of Evald Ilyenkov and Alexander Suvorov, in «Arts Everywhere», 17 agosto 2017.
3In Undoing Gender (2004), Judith Butler scrive a chiare lettere che il gruppo sociale delle donne conosce «quasi da sempre» la violenza, e che «nulla più dell’avvento del capitalismo ha reso meno chiara la nostra esposizione ad essa».

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