Res gestae disobbedientiae

La potenza del gesto

Mediterranea

Nessuna teoria può crescere senza incontrare un muro. E ci vuole una pratica per aprire una breccia in quel muro.
G. Deleuze, Intellettuali e potere 

Qualche giorno fa, appariva un ottimo e snello intervento di Giovanna Ferrara riguardo la partenza della nave Mediterranea. Ed è proprio dal principio del suo intervento che voglio partire – da dove, cioè ha giustamente sottolineato il carattere propriamente opportuno, tempestivo e assieme appropriato dell’operazione. Anzi, è il kairos – aggiungendo, dunque, la dimensione di necessità alle altre – che ha invocato. Ma kairos implica prima e dopo l’evento, che nel nostro caso è la partenza, l’azione. Da qui, il secondo termine: impresa. Una nave è partita. Una nuova nave solca il Mediterraneo. È la potenza del gesto, dell’atto performativo, è la pregnanza cairologica della prassi – quella mostruosa e potente declinazione della parola all’atto politico e viceversa – che si giocherà, nel futuro prossimo, intorno all’impresa della Mediterranea.

Perché la Mediterranea porta con sé la declinazione al femminile del mare che solca, e dentro di sé la potenza della pratica della disobbedienza. È molto significativo il modo in cui la piattaforma si sia espressa attorno al nodo della dis-obbedienza: «Quella di Mediterranea è un’azione di disobbedienza morale ma di obbedienza civile». Da un lato il recupero della pratica della disobbedienza nei confronti di un sistema morale – che così nominato, svela la natura trascendente della propria sovranità; dall’altro, però obbedienza civile. Cioè, le gesta di questa impresa surferanno sull’onda di quella formidabile sedimentazione giuridica che le lotte europee sono riuscite ad infilare tra le maglie del Diritto internazionale. E sarà, poi, ancor più fermamente obbedienza civile rispetto a quella legge – la cosiddetta legge del mare – che l’umanità ha saputo, sin dagli albori dell’Europa, costruire sul calco e sui bisogni di se stessa. Sta tutta qui la non-contraddizione tra i due termini etici proposti dalla piattaforma per descrivere la propria postura etica: in questa impresa, la partita aperta è tra la performatività giuridica della moltitudine di soggettività che compongono l’umanità e la reattività giuridica della sovranità imperiale. Questa è disobbedienza contro il limite entro il quale la Legge dell’Impero sviluppa le sue articolazioni in difesa della proprietà privata – cioè la Santa Frontiera che tiene distinte le aree di produttività tra di loro, e queste dalle aree di accumulazione e riproduzione di capitale. È la rottura di quel sofisticato sistema di spartizione delle aree del Mediterraneo, stupidamente sussistente anche fra stati dell’UE ancora oggi, che garantiva e garantisce la barbarie del capitale.

Nell’uso conflittuale delle leggi internazionali, e soprattutto di quella del mare, contro le terrificanti leggi nazionali adottate dai singoli stati – qui dentro, in questa faglia, si manifesta tutta l’intelligenza della moltitudine in barba alla stupida ottusità che le provincie dell’Impero si ostinano a usare contro i propri sudditi. Il possibile si rivela nell’impresa, e le gesta che la compongono ri-danno senso al Mediterraneo. Siamo di fronte a un’imponente e più che opportuna risignificazione di uno spazio: il Mediterraneo come spazio già di per sé fluido e come campo di sintesi aperta delle diverse rivendicazioni politiche anticapitaliste.

Una nave, dicevamo. Poco su ho usato il termine «passato prossimo» per indicare la prossimità delle gesta che comporranno, un giorno, un libro delle res gestae della Mediterranea. L’ho usato solo per indicare ciò che sta succedendo a partire da quando la nave ha solcato il mare, ma se dovessimo trovare una temporalità adeguata all’operazione nella sua complessità, penserei senza dubbio al futuro anteriore. Perché se sarà nel futuro che tutto ciò si manifesterà, il principio la causa la spinta a questa impresa provengono direttamente da quella storia intensa e discontinua che – per non andare troppo indietro con gli anni – possiamo far partire dalle lotte degli anni Novanta attorno ai CPT. Ancora una volta stiamo parlando della possibilità di una positività della produzione giuridica del comune a livello transnazionale, perché «la disobbedienza è quel passaggio dalle resistenze nei confronti dei dispositivi di disciplina e di controllo, insomma dalle resistenze puntuali agli attacchi che vengono portati contro il soggetto […], a una resistenza […] capace quindi di mettere in discussione disciplina e controllo, di rifiutarne la vigenza»1.

Note

Note
1Anubi D’Avossa Lussurgiu, Sulla pratica della disobbedienza, in Aa. Vv., Controimpero. Per un lessico dei movimenti globali, Manifestolibri, Roma 2002, p.156

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