Rovesciare la città, urbi et orbi

Claire Fontaine, America (burnt unburnt) 2011
Claire Fontaine, Untitled (Sell your debt), 2011.

Non diamo dunque particolare importanza al nome della città. Come tutte le metropoli era costituita da irregolarità, avvicendamenti, precipitazioni, intermittenze, collisioni di cose e di eventi, e, frammezzo, punti di silenzio abissali; da rotaie e da terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi; e nell’insieme somigliava a una vescica ribollente posta in un recipiente materiato di case, leggi, regolamenti e tradizioni storiche.
Robert Musil, L’uomo senza qualità, tomo I

Il titolo di questo intervento gioca con quello del libro di Jean-François Martos, Rovesciare il mondo. Storia dell’internazionale situazionista (Sugarco, 1989), vicenda evocata anche nelle battute conclusive di queste note. Uno degli esergo di quel volume riportava il celebre motto di Guy Debord: «la formula per rovesciare il mondo, non l’abbiamo cercata nei libri, ma nell’errare» (La formule pour renverser le monde, nous ne l’avons pas cherchée dans les livres, mais en errant). Per questo le idee e pratiche di città che si evocano, fossero anche errate, sicuramente errabonde, erratiche ed erranti, hanno a che fare con il vivere in comune le strade di questa città, Roma, nonostante i libri citati.

Città e solidarietà: l’autonomia collettiva oltre lo specchio della precarietà

Negli ultimi decenni è tornato centrale il ruolo delle città, in quella che viene definita, da studiosi, ricercatori e istituzioni internazionali come la Urban Age. E anche nel Vecchio Continente torna di attualità la dimensione politica urbana, ben sapendo che la città «accompagna la cultura europea fin dalle origini» (per dirla, tra i molti, con i lavori di Leonardo Benevolo). È uno snodo che recupera e si sovrappone alle grandi trasformazioni della «rivoluzione urbana», dalla sua epoca (post-)agraria, quindi mercantile e commerciale, fino a quella industriale nei grandi conflitti del secondo Ottocento e poi del Novecento, «secolo del lavoro» (dagli studi di Henri Lefebvre a David Harvey).

Dentro l’attuale crisi dell’epoca globale, e i connessi mutamenti della spazialità politica, e dentro la rivoluzione digitale dell’innovazione tecnologica, con i suoi effetti nella antropologia stessa dell’essere umano, le trasformazioni urbane incrociano la questione sociale 

Ma proprio dentro l’attuale crisi dell’epoca globale, e i connessi mutamenti della spazialità politica, e dentro la rivoluzione digitale dell’innovazione tecnologica, con i suoi effetti nella antropologia stessa dell’essere umano, le trasformazioni urbane incrociano la questione sociale, come osservato già quasi una ventina di anni fa nel contesto francese di crisi dell’urbanesimo dell’epoca industriale e in quello europeo di grande mutamento delle città metropolitane: tra gentrification, fratture sociali ed economiche interne, gated community, riarticolazioni tra centri e periferie, digitalizzazione delle reti e via dicendo (così il numero 11, del novembre 1999, della rivista Esprit, la cui parte centrale era dedicata a un dibattito a più voci titolato De la question sociale à la question urbaine). E proprio in quella discussione si proponeva la visione di un terzo tipo di solidarietà, troisième solidarité, ou solidarité réflexive, sostitutiva di quella, meccanica e naturale, della famiglia e di quella, organicistica e burocratica, dello Stato sociale, Welfare State, État providence 1.

Una solidarietà riflessiva che proprio a partire dalla ricomposizione dal basso dei territori potesse innescare meccanismi virtuosi tra il vivere quotidiano delle persone, istituzioni locali di governo condiviso, gestione collettiva dei beni comuni, diritto della città e diritto alla città, mutamenti nei sistemi di produzione, innovazione tecnologica, inclusione sociale, trasformazione della rappresentanza politica ed evoluzione delle società pluralistiche nella connessione locale/sovra-nazionale. È quella «politica dei luoghi sui circuiti globali» che fa emergere particolari istanze locali su scale multiple, con la capacità di «generare formazioni globali che tendono verso reti lateralizzate e orizzontali, piuttosto che verso gli assetti verticali tipici di entità quali il Fondo monetario internazionale o il WTO» 2. Orizzontalità del buon vivere in comune, con verticalità delle reti politiche e istituzionali di decisione collettiva del proprio presente e futuro, in un’epoca percepita come eternamente precaria.

Perché, come sosteneva Pierre Bourdieu già sul finire del secolo scorso, «la precarizzazione generalizzata può essere all’origine di una solidarietà di tipo nuovo» 3. Quella «solidarietà riflessiva», appunto, che permetterebbe di ripensare i legami sociali tra i diversi spazi pubblici e livelli di auto-governo: da municipi, città e aree vaste, agricole o meno, fino alla prospettiva post-nazionale, continentale. Proprio mentre l’austera pratica monetarista e ordo-liberista imposta dalle oligarchie d’Europa incrocia le odiose frontiere erette dalle gelose burocrazie degli Stati nazionali.

Si aprono le possibilità di trasformazione dei legami sociali intorno alla valorizzazione dell’indipendenza individuale e della cooperazione sociale, nella cura delle differenze di genere e delle diversità socio-culturali, tenendo insieme princìpi federativi, processi di autorganizzazione e invenzione di nuove istituzioni, nel quadro di garanzie e tutele universalistiche di una «cittadinanza operosa», dopo e oltre la schiavitù del lavoro salariato 

Dopo la fine della società salariale

Con l’idea di solidarietà riflessiva si ripensa la società e un nuovo rapporto tra persone, territori e istituzioni, evitando le scorciatoie naturalistiche, paternalistiche e tradizionalistiche della famiglia, come quelle disciplinanti e del controllo del Welfare State centralizzato, vessatorio e burocratico. Si aprono invece le possibilità di trasformazione dei legami sociali intorno alla valorizzazione dell’indipendenza individuale e della cooperazione sociale, nella cura delle differenze di genere e delle diversità socio-culturali, tenendo insieme princìpi federativi, processi di autorganizzazione e invenzione di nuove istituzioni, nel quadro di garanzie e tutele universalistiche di una «cittadinanza operosa», dopo e oltre la schiavitù del lavoro salariato, sempre più insicuro, impoverito, ricattatorio, quasi gratuito, alla mercé di insondabili «padroni» del capitalismo digitale e finanziarizzato. Anche per tornare a legare le istanze di partecipazione democratica con i processi di autodeterminazione individuale e solidarietà collettiva. Soprattutto negli attuali processi di innovazione sociale e tecnologica, per i quali è necessario definire una società democratica della conoscenza, che rimuova le diseguaglianze di accesso e permetta una piena cittadinanza digitale, anche in senso intergenerazionale, con l’affermazione di nuove tutele e diritti di inclusione sociale, dalla privacy, al trattamento dei big data, a strumenti universalistici di garanzie sociali, come il reddito di base, per affermare una nuova cittadinanza sociale, al di là dell’impiego e del cittadino inteso come lavoratore.

Perché il tramonto della società salariale ci lascia immersi in una condizione ambigua, presentandoci due facce apparentemente speculari, della stessa medaglia: da una parte la progressiva riduzione dell’impiego in forma tradizionale e in generale del tempo di lavoro, con la progressiva digitalizzazione e robotizzazione di alcuni ambienti produttivi. Dall’altra, anche tramite piattaforme tecnologiche, sembriamo tutti vincolati a erogare prestazioni lavorative intermittenti, quasi-servili: tra «disoccupazione attiva» e «pieno impiego precario», nella divisione sociale e globale del lavoro, con la certezza che le forme del lavoro sono sempre più informali e sempre meno ascrivibili alla subordinazione tradizionale, ma non per questo riconducibili al tradizionale lavoro indipendente e autonomo. Le «città del lavoro e del non lavoro» divengono gli spazi politici dai quali ripartire per pensare altrimenti il vecchio Continente e le potenzialità di svolgere liberamente attività lavorative indipendenti, senza padroni.

Europa di città/città di Europa, sempre poco allineate

In questa prospettiva è possibile accennare a due esempi sperimentali, proprio a partire dalla dimensione di azione locale, ma con effetti verso l’alto. Da un lato la proposta politica e istituzionale che ha portato nel maggio 2015 Ada Colau al governo della città di Barcellona con la lista autonoma di movimenti sociali Barcelona en Comú. È stata la stessa Ada Colau, quarantenne, da decenni attivista dei nuovi movimenti sociali catalani ed europei, contro la precarietà e per il diritto all’abitare, a sottolineare come si voglia fare di Barcellona il «terreno di battaglia per l’anima radicale dell’Europa», con l’auspicio di diventare un «hub of an international network of fair and democratic cities» 4.

Il legame tra autogoverno di prossimità cittadina, reti di città, metropolitane e non, e trasformazione dello spazio politico continentale è immediato e fa saltare la tradizionale concezione politica che vuole separato lo spazio municipale da quello sovranazionale 

Il legame tra autogoverno di prossimità cittadina, reti di città, metropolitane e non, e trasformazione dello spazio politico continentale è immediato e fa saltare la tradizionale concezione politica che vuole separato lo spazio municipale da quello sovranazionale, facendo a meno della dimensione centralizzatrice e burocratica dello Stato nazione, in una visione di federalismo cooperativo e solidale, che frammenta i poteri di comando sulle persone e redistribuisce le ricchezze verso gli individui. Ma la domanda è questa: nella Roma commissariata dal nascente Partito della Nazione è ancora possibile prendere voce, spazio, poteri da parte delle diverse generazioni di individualità non allineate e movimenti collettivi che nell’ultimo ventennio hanno sperimentato nuove idee e visioni di città, territori, istituzioni, forme di vita e di operosità tra le pieghe del lavoro culturale, artistico, di istruzione e ricerca, assistenza e cura della persona, rigenerazione territoriale, riuso di luoghi pubblici, auto-recupero abitativo, mutualismo e reciproco aiuto, socializzazione degli spazi metropolitani, nuova impresa cooperativa e collaborativa (Coworking e non solo), il tutto spesso in anticipazione e dialogo con le migliori esperienze continentali?

Perché una visione non retorica di «Europa delle città» si inserisce in una duplice ambizione di trasformazione socio-istituzionale locale e continentale, nella tendenza ad affermare una maggiore giustizia sociale e solidarietà. Da un lato, la centralità delle città messe in rete, e intese come spazi innovativi di auto-governo, contribuisce ad amplificare il ruolo proattivo della dimensione locale nel realizzare mutamenti costituzionali di conquista ed estensione di diritti, a partire dai diritti civili e sociali per i diversi orientamenti sessuali, che si affermano anche grazie all’azione congiunta di movimenti e istituzioni locali (sul riconoscimento delle coppie di fatto, ad esempio), per poi trascendere la dimensione politica municipale e porsi nell’orizzonte istituzionale più ampio, con maggiore possibilità di successo in contesti federali. Evitando il mortificante gioco di una rappresentanza parlamentare soggiogata dalle spinte retrograde provenienti dalle convergenti semplificazioni governative e populiste, come nel recente caso italico del Disegno di Legge sulla Disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili (meglio conosciuto come DdL Cirinnà, dal nome della parlamentare relatrice).

Dall’altra gli spazi politici locali, a partire da grandi e piccole città, divengono la naturale dimensione dove sperimentare e riprodurre una riappropriazione di pratiche del comune come «pratiche di riscrittura «dal basso» delle relazioni fra persone e cose che rifiutano il modello giuridico della proprietà pubblica e privata, e aspirano a collocare il rapporto fra collettività e beni, così come quello fra collettività e istituzioni su un altro piano» 5. Per poter affrontare in modo inedito il tema dei beni comuni e dell’autogoverno territoriale, evitando così la retorica marginalizzante e autoreferenziale di movimenti rinchiusi nella sclerotizzante, frustrante visione della sola militanza dal basso, senza alcuna possibilità di incidere sulle concrete dinamiche politiche e istituzionali delle nostre vite messe a valore per altri, sotto il ricatto del «potere dei giganti» della malavita organizzata, o del capitalismo finanziario. Spesso oscuramente sovrapposti.

Per la Repubblica romana dell’intelletto collettivo

E proprio due sperimentazioni romane parlano a questo orizzonte capace di tenere insieme verticalità e orizzontalità in modo creativo, rispondente alle domande di autogoverno, giustizia, libertà e felicità di individui concreti e ampie collettività. Il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz città meticcia (MAAM), dove, in un fabbricato dell’industria alimentare abbandonato e rigenerato a nuova vita sulla via Prenestina, l’arte si erge a garanzia di spazi abitativi, con visioni di artisti e street artist che avvolgono i muri interni ed esterni di questa piccola grande città di una nuova vita in comune. Mentre tra giugno 2011 e l’estate 2014 nel millenario cuore antico e barocco della Roma politica un collettivo di artisti, teatranti, lavoratori e lavoratrici intermittenti della cultura, dello spettacolo e della conoscenza diede vita all’occupazione dello storico Teatro Valle, chiuso in seguito alla scomparsa dell’Ente teatrale italiano che lo aveva in gestione. Fu un plurale movimento di protagonismo civico e sociale che, sulla spinta del responso referendario favorevole al rilancio dei servizi pubblici idrici e non, tenne sapientemente insieme un innovativo discorso sul lavoro immateriale e culturale con la materiale gestione condivisa di uno spazio artistico aperto alla cittadinanza. Pensando e praticando la fondazione di «nuove istituzioni comuni dell’intelletto collettivo».

Solo garantendo ulteriormente spazi condivisi di produzione comune si può ripensare la Roma del presente e del futuro, città da sempre popolata da soggetti, e poi accogliente per altre multiformi moltitudini, aventi in comune un’atavica vocazione a rendere arte la loro propensione a non essere governate 

Solo garantendo e favorendo ulteriormente spazi condivisi di produzione comune si può ripensare la Roma del presente e del futuro, città da sempre popolata da soggetti, e poi accogliente per altre multiformi moltitudini, aventi in comune un’atavica vocazione a rendere arte la loro propensione a non essere governate, ma ad autogovernarsi. E se non si capisce questa apertura, solare e disponibile, all’innovazione sociale scolpita tra le pietre e le piazze di questa città si finisce per appaltare quest’arte di non essere governati a frammenti di malavita più o meno organizzata e «civilizzata».

Allora varrebbe la pena tornare con la mente a cento anni fa, quando una sorellanza di vedute tra le intuizioni di Maria Montessori e il sostegno di Virginia Mieli, moglie di Ernesto Nathan, allora Sindaco di Roma (1907-1913), generò quel grande spazio di sperimentazione innovativa dell’istruzione pubblica per i bimbi, partendo dal quartiere popolare di San Lorenzo, per poi diffondersi in tutto il mondo. E oggi quasi tornando a dimenticare tutto questo, qui a Roma, in Italia.

Ecco le madri costituenti di una Roma repubblicana, prodotto dell’intelletto collettivo diffuso nelle pratiche quotidiane di autogoverno, tramite mutuo soccorso, correzione reciproca e progressive approssimazioni: saperi comuni, in acquisizione evolutiva. Come nelle due esperienze repubblicane dentro il lungo cinquantennio rivoluzionario europeo. La Roma senza papa della Repubblica romana del 1798-99 e quella del 1849, quando riemerge quella spinta alla rigenerazione sociale e alla trasformazione istituzionale, nel gorgo del sempre ingovernabile popolo romano, reso fatalista dalla millenaria presenza papalina, ma anche suscettibile di caotiche sommosse, spinte dall’urgenza di applicare e diffondere princìpi, valori e pratiche repubblicane, democratiche, laiche, libertarie, sociali, autonomistiche nel governo cittadino di ogni giorno, per il diritto della città e alla città. Come nel caso del sempre troppo poco famoso decreto del 4 aprile 1849 con il quale si destinava l’edificio del Santo Ufficio ad abitazioni per famiglie, o individui, disagiati o indigenti. La città d’Oltretevere, finalmente liberata e in comune, messa a disposizione della degna umanità, senza aspettare la misericordia divina. Anzi prendendo e distribuendo i beni materiali di quella misericordia, altrimenti poco divina e molto terrena.

Nella nostra Roma repubblicana, «sempre col sole, estate e inverno», come ci ricorda il Maestro Remo Remotti, è ancora possibile incontrare gambe di passanti che inventano e attraversano mondi delle mille libertà a venire 

E proprio tenendo insieme questa potente, sottile, imperitura spinta repubblicana si può ribaltare la celebre premessa situazionistica che affermava (nel Formulario per un nuovo urbanismo di Gilles Ivain, 1953): «nelle città ci annoiamo, non c’è più il tempo del sole. Tra le gambe delle passanti i dadaisti avrebbero voluto trovare una chiave a stella e i surrealisti una coppa di cristallo, tutto questo è andato perduto». Nella nostra Roma repubblicana, «sempre col sole, estate e inverno», come ci ricorda il Maestro Remo Remotti, è ancora possibile incontrare gambe di passanti che inventano e attraversano mondi delle mille libertà a venire. Perché Roma, qualora fosse ancora pensata e vissuta come Repubblica del felice protagonismo collettivo, permetterebbe più di altre di realizzare gli auspici finali di quello stesso formulario situazionista: in questa città futura «le prossime attività e produzioni d’avanguardia vi si concentrerebbero spontaneamente. Nel giro di qualche anno diventerebbe la capitale intellettuale del mondo, riconosciuta dappertutto come tale».
Roma Caput Mundi Liberati.

Note

Note
1F. Ascher, F. Godard, Vers une troisième solidarité, «Esprit», n. 11, 1999
2Saskia Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, Bruno Mondadori, 2008
3P. Bourdieu, Per un movimento sociale europeo [1999], in Controfuochi 2. Per un nuovo movimento europeo, manifestolibri, 2001; quindi, più recentemente Nicolas Douvoux, La nouvel âge de la solidarité. Pauvreté, précarité et politique publiques, La République des Idées – Éditions du Seuil, 2012 e S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, 2014.
4A. Colau, First We Take Barcelona, «OpenDemocracy», 20 May 2015.
5M.R. Marella, Pratiche del comune. Per una nuova idea di cittadinanza, «Lettera Internazionale», 2/2013.

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