Salent Adieu

Do you come back, honey?

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Paola Mattioli, Autoritratto '77, 1977, stampa baritata, cm 70,7x101

La-languidi bri-brividi come il ghiaccio bruciano.
Righeira, L’estate sta finendo.

La nostalgia è una forma di indulgenza. Io le pratico entrambe, o la loro equivalenza, d’estate, in uno scampolo di giorni tra fine Luglio e inizio Agosto. Non credo alle vacanze: in fondo, sono state un episodio accidentale e breve sul pianeta terra. Si tratta, invece, di riafferrare una sensazione, una atmosfera, uno stato mentale. Prendere l’autostrada e sentire l’emozione della velocità e della libertà rispetto alle carrettiere ingolfate dai motocicli e dagli api. Fermarsi ad ogni autogrill per scrutare nella caricatura del tipico negli scaffali e poter fingersi esperto della geografia culinaria. Appiccicarsi sulle lenzuola colorate, arrotolarsi nel proprio sudore e lanciare le mani nel vuoto, sentendone il leggero fischio, per arrestare il ronzìo petulante di una persecutrice alata.

La verità è che abbiamo la testa piena di ricordi fordisti; la nostra infanzia ci è stata venduta come una storia colorata e in pace con le stagioni. Il domani era pieno di sole. Le merci sembravano tranquillizzanti. Eravamo bidimensionali, pettinati con il gel, gli occhi guardavano davanti, sullo sfondo il sole era giallo e tondo e intero e raggiante. Eravamo un manifesto della Cina rivoluzionaria con i maglioncini della Benetton. In fondo, la mia vacanza è una bancarella di ricordi vintage. Non è una scoperta; non mi riesce di cercare un altrove. Io torno.

Riapprodo sulla sabbia conchigliosa e appicicaticcia battuta dall’acqua verde dello Jonio e increspata dalle correnti fredde del Golfo di Taranto. Dietro le spalle, le Serre salentine si sgranchiscono i pendii alberati. In spiazzi improbabili si innalzano casette diroccate in forme di templi cristiani; rimasugliano le croste di santi ierocratici e caratteri cirillici. La lingua si increspa, si interrompe nelle dh complicate, quasi erre, si inalbera nelle zeta più morbide, si sospende nelle domande retoriche. Un vicino di casa mi racconta dei problemi di traffico quando veniva girata, all’ombra dei merli colorati e con il sottofondo delle onde violente di Santa Cesarea, Nostra signora dei Turchi.

Una studiosa della felicità mentale di Dante si innamorava dei venditori di ricotta e di ricci. Un ambulante coi pantaloni chiari arrotolati al ginocchio vendeva cozze crude e mortadella; perpendicolare ai raggi del sole, nel pomeriggio, le sue urla si rifrangevano sul livello stagnoso dell’acqua di un enorme bagnasciuga. Personaggi diabolici abitavano le scale di tufo. Contadini-santi apparivano alla Madonna. Una Due Cavalli di una bionda compagna si lanciava nel vuoto, a Ponte Ciolo, perché l’operaio massa aveva ormai lavastoviglie e tivvù, e la prateria era stata spenta con cura. Forse ho sbagliato, forse non torno più.

Sulla mia bancarella cerco una periferia indomabile, un fuori oltranzista e oltraggioso di santi rutilanti e celesti come danzatori sufi. Antiche case di tufo, sulla Alezio-Gallipoli, lasciano il posto a costruzioni morbide come panna ghiacciata, dove luci al neon annunciano stelle e relax. Un mio amico di infanzia raddrizza gli ombrelloni aspettando l’inverno. Mio padre rinuncia alla spiaggia, perché non c’è più lo spazio per l’ombra. Una lunga processione di ulivi si intristisce allungando sulla strada rami rinsecchiti e indossando una croce rossa di sangue.

È pomeriggio. La pineta fitta di Porto Selvaggio si sommerge in un sonno leggero. Gli occhi castani di Renata Fonte vigilano le nostre sieste piccolo-borghesi agitate dai frutti di mare. Mi chiedo se ha vinto davvero. Se noi siamo il fuori, e voi siete soltanto l’uguale.

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