Somma luce
La modernità di Dante secondo Marramao
«O somma luce» è il titolo di un film del 2010 di Jean-Marie Straub dedicato a Dante: un uomo seduto su un aratro al centro di una radura – nello specifico Giorgio Passerone ‒, legge i versi dell’ultimo canto del Paradiso. Non è un caso che artisti e filosofi siano stati affascinati dal dispositivo concettuale e linguistico di Dante e dal suo straordinario immaginario. Ora su Dante, e sulla sua «anomala modernità», interviene con un aureo libretto Giacomo Marramao, filosofo che ha al suo attivo una vasta e influente produzione filosofico-politica ma anche una certa esperienza performativa che lo ha visto più volte sulla scena a fianco dell’artista Fabio Mauri o in azione sui set cinematografici.
La tesi di Modernità di Dante (Bollati Boringhieri, 2024) è duplice e chiara: Il sommo poeta è stato tutt’altro che incardinato dentro una visione del mondo tipicamente medioevale e quindi non è stato il poeta più importante di una civiltà tramontata molti secoli fa, ma al contrario è stato un moderno prima dei moderni e addirittura già ultra-moderno riuscendo incredibilmente ad anticipare nel suo poema la teoria della relatività di Einstein e quindi un concetto di spazio-tempo che oltrepassa la linearità newtoniana (qui Marramao rilegge il saggio di Pavel Florenskij sugli Immaginari in geometria, Mimesis, 2021). Inoltre, come molti grandi artisti, Dante è stato anche un politico, ovvero un militante che ha pagato sulla sua pelle il suo impegno e un poeta che ha fatto della sua capacità inventiva un’arma politica di prim’ordine. Insomma l’arte di Dante è politica, come non può che esserlo sempre l’arte migliore.
In questo senso nelle ultime pagine del libro Marramao ci ricorda che «le poetiche anticipano sempre le politiche» (p.79), ovvero che ad aprire gli spazi per le grandi innovazioni politiche sono sempre i rivolgimenti culturali e linguistici. Questo significa che l’arte è sempre politica perché ha a che vedere con le nostre forme di vita, le nostre lingue, le nostre idee e le nostre percezioni del e sul mondo. Se pensiamo a Dante ci accorgiamo che la sua grandezza consiste nell’aver «inventato» una lingua, partendo dal volgare, ereditando e rinnovando il lavoro della scuola siciliana, e quindi nell’aver costituito letteralmente un popolo come quello italiano che prima non esisteva e avrebbe continuato per molti secoli a non esistere territorialmente. ma solo culturalmente, così come è accaduto in Germania con la pubblicazione della Bibbia in tedesco e poi la tardiva unificazione politica. Con il loro lavoro sul linguaggio, quindi, gli artisti fondano e costituiscono, di volta in volta, nuove civiltà e nuove forme di vita che non si darebbero senza le loro rivoluzioni estetiche.
Se pensiamo agli anni Sessanta e alle straordinarie innovazioni linguistiche che si sono date nella musica, nella poesia, del design, nel cinema e nelle arti visive ci accorgiamo che ancora oggi noi siamo immersi dentro quella (ultima?) grande innovazione che ha inaugurato la transizione dalla modernità alla sua ulteriorità. Non si può fare grande politica, insomma, se non a partire dalle poetiche e dal lavoro degli artisti. Non si può essere un buon filosofo o un «cattivo maestro» (che sono poi la stessa cosa), un buon cittadino o un ribelle (anche qui rileviamo una coincidenza), senza avere una formazione poetico-artistica, che è l’unica che ci permette di comprendere e ribaltare lo stato di cose esistente.
Tornando a Dante quindi, il libro di Marramao intende ribaltare e giustamente l’idea diffusa da chi oggi ambirebbe a costruire una malcompresa egemonia culturale di destra, e quindi a liberare il campo dall’equivoco di un Dante padre nobile del conservatorismo politico. Dante è stato un artista e un pensatore rivoluzionario, non solo, come dicevamo all’inizio già oltre i confini della civiltà medioevale e quindi un moderno ante litteram, se non addirittura ultra moderno, ma attraverso l’elaborazione di una ontologia che deve molto al pensiero classico greco, alla tradizione ebraico-cristiana, alla grande tradizione della filosofia araba e all’averroismo di Sigieri di Brabante, ha anticipato ‒ come si può evincere da una lettura parallela della Commedia e della Monarchia – l’idea dello «Stato sovrano, dotato di una potestas superiorem non recognoscens» (p. 36) come teorizzato successivamente da Bartolo da Sassoferrato.
Dante infatti pensa a un «Impero» come monarchia secolare, in grado di realizzare una felicità terrena collettiva e sganciata dalla salvezza individuale che rimane una questione singolare. Protagonista di questo processo è una multitudo che «può tradurre in atto l’intelletto possibile» (p. 25) costituendosi come comunità politica. In dissidio amicale con Guido Cavalcanti qui Dante sembra quasi anticipare l’idea marxiana di general intellect e la dimensione autonoma e moderna della politica così come teorizzata dall’altro grande eretico e sconfitto del pensiero italiano, ovvero Niccolò Machiavelli. Nella seconda parte del suo saggio Marramao propone un confronto tra questi due protagonisti che sembra quasi una lettura parallela del lavoro estetico-poetico e di quello teorico-politico, facendo risaltare il comune richiamo dei due alla Roma repubblicana e al ruolo strategico del conflitto come elemento ineliminabile della logica politica e della sua autonomia. Machiavelli del resto, lettore di Dante, eredità da quest’ultimo il lavoro sul linguaggio e probabilmente ne trae ispirazione per immaginare l’antinomia del Centauro e della volpe che si deve fare leone. Da questa lettura stratigrafica degli autori e delle loro opere ne viene fuori l’idea di una linea «eretica» del pensiero moderno che inizia prima della modernità propriamente detta e che tiene insieme Dante e Machiavelli, Bruno e Spinoza, Marx e Nietzsche e poi Deleuze e Negri.
Dante e Machiavelli rappresentano quindi una indomita anomalia nella storia del pensiero italiano che ci restituisce tutta la radicalità teorico-politica dei grandi classici. Sono questi, i classici, che ci insegnano a realizzare concretamente quella autonomia che ci rende liberi attraverso la nostra ribellione singolare e collettivamente organizzata. Ogni grande classico è, in questo senso, un «cattivo maestro», e non è un caso che tutti i più grandi pensatori contemporanei, basterebbe qui pensare al lungo apprendistato di Deleuze, abbiano imparato a filosofare attraverso l’assidua frequentazioni di questi ultimi.
Infine, se è vero, come giustamente dice Marramao, che tutte le grandi rivoluzioni politiche sono sempre anticipate da un rivolgimento estetico complessivo, non sono convinto che l’ultima grande stagione sia stata in questo senso quella degli anni Sessanta. Oggi stiamo attraversando un radicalissimo rivolgimento estetico-linguistico che riguarda la nostra percezione e le radici alfabetiche della nostra capacità espressiva-cognitiva e che dipende dalla trasformazione digitale del mondo. Siamo piantanti dentro una transizione che sta trasformando i contorni del nostro mondo secondo direzioni che non siamo ancora in grado di individuare del tutto. Certo, non sembra che sia ancora comparso un novello Dante in grado di afferrare questa rivoluzione e farla sua reinventando una nuova lingua, ma è probabilmente vero che questo compito oggi appartiene alla vasta moltitudine di creatori di bellezza che quotidianamente lavorano a livello micrologico per fare la nostra lingua «tanto possente» (Dante) da riuscire a esprimere l’incredibile bellezza di una comunità che costituendosi politicamente si fa eterna saldando la dimensione individuale a quella collettiva.
In conclusione questo di Marramao è un libro giovane, brillante nello stile quanto nervoso nell’argomentazione, pieno di passione politica come lo sono le opere prime. Viene voglia di leggerne ancora di queste schegge di pensiero e viene da pensare che i filosofi, come gli artisti, nel diventare maturi in realtà raggiungano la loro plenitudo temporum, la loro giovinezza.
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