Sul piacere che manca

Etica del desiderio e spirito del capitalismo

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Paestum, Tomba del tuffatore, affresco

Le maglie del desiderio e le vie del piacere: un libro epicureo di Paolo Godani. In libreria dal 2 maggio Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo (edizioni DeriveApprodi pp. 160 – euro 13,00). Un’anticipazione del libro.

In psicoanalisi, l’essere schiavi del desiderio dell’Altro ha un nome semplice e preciso, quello di nevrosi. E se è vero, come suggerisce a giusto titolo Lacan, che non si può desiderare senza essere schiavi del desiderio dell’altro, allora non c’è via d’uscita dalla nevrosi. Anzi, la nevrosi appare come l’unica forma di salute a cui possiamo ambire, se non vogliamo finire nei buchi neri della perversione e della psicosi. È, in fondo, ciò che insegna anche Il disagio della civiltà.

La duplice conclusione per cui non c’è via d’uscita dalle trame del desiderio, e nondimeno il desiderio è l’unica via di scampo da mali peggiori, va assunta senza reticenze. Non solo da una prospettiva analitica, ma anche sociale, dobbiamo rassegnarci al fatto che non si esce dal regno dell’Altro – e se se ne uscisse non si potrebbe farlo che in vista del peggio.

Tuttavia, se non vi è certo alcuna eccezione al principio secondo cui il desiderio è desiderio dell’Altro, altrettanto certamente c’è qualcosa di irriducibile al regno del desiderio, del riconoscimento e dell’ambizione. Non si tratta di un secondo regno, di un impossibile spazio situato al di fuori del territorio governato dal desiderio, di una terra selvaggia sulla quale sia concesso spaziare liberi come nomadi, ma dell’atmosfera che è possibile respirare in quello stesso regno. Il piacere è un’atmosfera di questo genere.

In qualche modo, il regno del desiderio, che è anche il regno del significato, dell’ambizione, del lavoro, è il regno dell’umano. È il luogo nel quale gli uomini danno senso alla loro vita; dove iniziano a dirsi: farà il pompiere, il calciatore, l’astronauta. È il luogo della possibilità, del progetto, della finalità e della trascendenza, il luogo nel quale la vita si dà i propri compiti. È insomma il regno della libertà, cioè della sottomissione all’Altro, che distingue gli uomini dagli animali.

Piegare il desiderio al respiro potrebbe essere la formula più semplice di queste meditazioni epicuree 

Se la vita fosse solo questo, gli uomini non potrebbero che essere schiavi delle «proprie» macchine desideranti, come le formiche delle ferree regole del formicaio, con in più, talvolta, la coscienza di esserlo. Schiavi sommamente tristi, dunque. Eppure agli umani, come sempre agli animali, capita di respirare. E di farlo, per quanto siano portati a negarlo, senza sosta e senza sforzo. Piegare il desiderio al respiro potrebbe essere la formula più semplice di queste meditazioni epicuree.

Così, forse, si potrà restare umani, continuare a desiderare, a progettare, ad agire, a certe condizioni persino a lavorare, senza per questo finire impigliati nelle maglie della nevrosi.

Per comprendere questa via epicurea, è forse necessario provare a capovolgere la nostra prospettiva sulla nevrosi. Questa, s’è detto, è l’essere schiavi del desiderio dell’Altro. Ma si è anche ipotizzata l’esistenza di un elemento, il piacere, irriducibile al dominio assoluto di questo desiderio sulla vita. Bisognerà forse iniziare a osservare il regno del desiderio, e dunque la nevrosi, dal punto di vista di questo irriducibile.

Si è scritto, con un’espressione felice, che «il nevrotico è colui che ha fondamentalmente orrore del godimento»1. Potremmo variare la formula, secondo il senso che qui abbiamo dato ai termini godimento e piacere, dicendo che il nevrotico è colui che ha orrore del piacere e delle sue estasi. Proviamo innanzitutto a chiederci che cosa significhi questo orrore.

Si potrebbe dire, per venire subito al punto, che abbiamo orrore del piacere perché ci risulta difficile accettare che il solo fatto di esistere possa procurarci tutto il piacere di cui abbiamo bisogno. E ci risulta difficile accettarlo perché abbiamo l’impressione che, per essere propriamente umani, ci si debba sforzare di oltrepassare il piano della mera esistenza; perché abbiamo l’impressione che il semplice piacere di esistere non sia all’altezza della dignità umana (già Cicerone, a proposito del «principio di piacere», diceva: «lo giudico tale che nulla sembra più indegno di un uomo. La natura infatti ci ha generati e formati a cose ben maggiori»2; perché abbiamo l’impressione che l’esistenza vada elevata in qualche modo, vada giustificata, e che la vita della carne abbia un valore solo se trascesa nella vita dello spirito. E com’è noto «trascendere» significa sempre, innanzitutto, negare.

Dovremmo dunque negare la vita, affinché questa acquisisca un senso che, da sé sola, pare non avere. Per questo, cioè perché la nostra vita ci appaia sensata, dovremmo negare anche il piacere che è consustanziale al semplice fatto di esistere 

Dovremmo dunque negare la vita, affinché questa acquisisca un senso che, da sé sola, pare non avere. Per questo, cioè perché la nostra vita ci appaia sensata, dovremmo negare anche il piacere che è consustanziale al semplice fatto di esistere. Si potrebbe dire la stessa cosa anche in modo più diretto. Accettare l’esistenza di un piacere consustanziale all’esistenza significa accettare un discorso che chiamerei, per giocare con Lacan, il discorso dell’edonista o del piacere. Un discorso che più o meno recita così: «non c’è niente da fare, il tuo corpo gode per il solo fatto di esserci; tu puoi desiderare tutti gli oggetti che vuoi, fare tutti i progetti che preferisci, porre alla vita gli scopi più nobili, immaginare tutte le avventure o tutte le trascendenze del mondo, devi comunque rassegnarti al fatto che il tuo corpo gode anche senza quegli oggetti, quei progetti, quegli scopi. Non c’è niente da fare, godi qualunque cosa tu faccia, qualunque differenza tu voglia porre tra le forme di vita, qualunque valore tu voglia difendere, qualunque senso tu creda di dover imporre alla vita». Il piacere, se potesse parlare, concluderebbe forse dicendo: «rassegnati, quando il tuo corpo gode, gode come una bestia, come una lucertola al sole, come una mucca al pascolo».

Insomma, forse il nevrotico ha orrore del godimento proprio perché percepisce che c’è del piacere senza senso, perché sente che la vita si gode anche senza nessun desiderio, nessuna ambizione, nessun progetto. Desideri, ambizioni e progetti sono per lui i modi consueti per neutralizzare il piacere puro dell’esistenza, per assorbirlo, sussumerlo, neutralizzarlo, per dimostrare che la persona umana non si accontenta di quel piacere consustanziale al proprio corpo vivente, che è troppo nobile per limitarsi a esistere semplicemente.

Naturalmente questo non ci deve condurre a negare che gli umani si distinguano dagli animali proprio per questo desiderare, progettare, trascendere. Ma il punto è se l’affermazione di tale differenza, l’affermazione del desiderio, possa conciliarsi o meno con l’esistenza del piacere puro e come, eventualmente, questo possa accadere.

Il giglio e gli uccelli, come l’erba nel campo che è oggi, non insegnano altro che la gioia, sono maestri di una gioia incondizionata, che non dipende cioè da qualche circostanza esteriore, ma è in se stessa, ed è sempre oggi, sempre presente a sé 

Kierkegaard, come avrà fatto la Santa Teresa di Klossowski citando il discorso della montagna, suggerisce agli uomini di guardare al giglio nel campo e agli uccelli nel cielo per diventare come loro. Un cielo luterano e una lontana reminiscenza agostiniana gli fanno parlare di obbedienza, silenzio e serietà, ma è ancora la fruizione della nostra parte migliore che qui è in gioco. Il giglio e gli uccelli, come l’erba nel campo che è oggi (Matteo 6, 30), non insegnano altro che la gioia, sono maestri di una gioia incondizionata, che non dipende cioè da qualche circostanza esteriore, ma è in se stessa, ed è sempre oggi, sempre presente a sé3. Per questo, vivere un secolo o un solo giorno è per loro indifferente, essendo in quel giorno del tutto presenti a loro stessi nella gioia.

Il punto, però, è che Kierkegaard invita a guardare ai gigli del campo e agli uccelli del cielo come se dovessimo emularli, dunque come se il loro piacere si prospettasse a noi come un compito((cfr. Felice Cimatti, Linguaggio e immanenza. Kierkegaard e Deleuze sul “divenir-animale”, in “aut aut” n. 363/2014.)). Essere come il giglio e come gli uccelli sarebbe un’idiozia conquistata a fatica. La serietà e la fatica di questo compito è ciò che distingue la parola del Vangelo da quella di ogni semplice poeta: mentre quest’ultimo guarda certo al giglio nel campo e agli uccelli nel cielo dicendosi «ah, potessi essere come loro», ma al contempo sapendo l’impossibilità di questa aspirazione, la parola evangelica si rivolge all’uomo dicendo tu devi essere come il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. «A fondamento della vita del poeta – spiega Kierkegaard – c’è proprio il disperare di poter diventare ciò che si desidera; e questa disperazione genera il desiderio. Ma ‘il desiderio’ è l’invenzione dello sconforto» (ivi, p. 34). Il poeta desidera come solo si può desiderare, al condizionale, perché sa che la gioia del giglio e degli uccelli è appesa, per lui come per tutti gli uomini, a condizioni che la rendono inattingibile. E perciò, in fondo, considererebbe risibile o folle colui che pretendesse di diventare davvero come il giglio e gli uccelli. Kierkegaard pensa di poter opporre all’ironia poetica l’etica serietà del tu devi, ma in questo modo, com’è a lui stesso ben chiaro, non si esce dal paradosso di desiderare di non avere più desideri o di darsi il compito di non aver più alcun compito da realizzare. Sarebbe necessario che noi fossimo già come il giglio e come gli uccelli. Solo a questa condizione la gioia e il piacere sarebbero davvero incondizionati. Il piacere deve essere già là, se può non essere assoggettato al desiderio.

E tuttavia, per quanto strano possa apparire, questo paradosso non è senza ragione. La conquista di un piacere che pure è consustanziale ci si presenta come un compito perché normalmente ci è sottratta l’esperienza beata della vita, perché per lo più il godimento d’essere, questo godimento senz’altro e senza senso, è sussunto nella dialettica del desiderio. Il paradosso, qui, dipende interamente dal fatto che il piacere appare innanzitutto come un effetto possibile del desiderio, anche se in realtà ne è del tutto indipendente. Slegare il piacere dal desiderio è per noi un compito, perché siamo, fin dall’inizio, immancabilmente presi nelle maglie del desiderio.

Note

Note
1Alex Pagliardini, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale, Galaad Edizioni, Roma 2017, p. 284.
2Marco Tullio Cicerone, I termini estremi del bene e del male, in Id., Opere filosofiche e politiche, vol. 2, a cura di Nino Marinone, Utet, Torino 1955, vol. 1, p. 58.
3cfr. Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo, a cura di Ettore Rocca, Donzelli, Roma 2011, pp. 61 e sgg.

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