TRRAPP vol. I

La Teppa della Repubblica Romana Autonoma Poetica e Precaria

targa ragazzi della repubblica romana
Il Console, Roma 1849: I ragazzi senza Papa (2020).

In questi primi mesi del 2020, intrappolati nella comune lotta al Covid-19, ci tocca di festeggiare chiusi in casa la coda lunga dei 170 anni di Roma senza Papa, della Repubblica romana del 1849, perché il Papa tornerà a Roma solo nella primavera inoltrata dell’anno successivo. E allora non ci resta che festeggiare con una colonna sonora, che un bel giorno torneremo a suonare, cantare, ballare per le strade di Trastevere.

Roma repubblicana, tra socialità e libertà

La nostra amata Roma repubblicana comincia nella sua fase costituente, con Papa Pio IX – Giovanni Maria Mastai-Ferretti da Senigallia – in fuga verso Gaeta, dal suo sodale Ferdinando II, già nel novembre 1848, dopo l’assassinio di Pellegrino Rossi, pare da parte di Luigi Brunetti, giovanissimo figlio del mitico Ciceruacchio, quell’Angelo Brunetti (1800-1849) da Campo Marzio, carrettiere e commerciante in vini dei castelli. E soprattutto fratello carbonaro, mazziniano e agitatore di una moltitudine di artigiani, lavoratori occasionali, affaccendati e sfaccendati, che incontrava sempre per strada tra piazza del Popolo e via di Ripetta, dapprima da fedele seguace del timido riformismo di Pio IX, quindi da fervente combattente repubblicano, che finirà col seguire l’armata garibaldina, morendo a Comacchio, fucilato dagli austriaci, insieme ai due figli, nella strenua e inutile difesa dell’ultima Repubblica, quella veneziana. Perché in quegli anni i popolani romani, i fiumaroli trasteverini, erano dalla parte della Repubblica e si riconoscevano nel motto del canonico Eusebio Reali, pure ai tempi della scomunica papale:«e quindi adesso io sono consapevole che non vi è libertà se non nella Repubblica e nella sua socialità». Libertà e socialità nella Repubblica, a Roma, nei primi mesi del 1849.

La seconda Repubblica romana (dopo quella del 1799) verrà definitivamente sconfitta il 3 luglio del 1849, con la presa del Gianicolo, e poi giù verso Trastevere dove combattevano le repubblicane e i repubblicani contro la Santa alleanza europea della reazione guidata dal generale Oudinot, a capo dell’esercito del Presidente repubblicano francese Luigi Napoleone, il nipote di Napoleone, che pochi anni dopo diventerà il piccolo Imperatore Napoleone III, Napoléon le petit, appunto, per Victor Hugo. Quell’Oudinot/Dalla libertà/Roma/Liberava/1849, quasi una barra (t)rap di oggi, com’era scritto su una lapide rappresentata in una coeva vignetta satirica contornata dal disegno di due cani con una gamba posteriore alzata, perché intenti a orinare su quell’infame nome. Ma malgrado tutto, Papa Pio IX riuscirà a tornare a Roma soltanto nove mesi dopo, il 12 aprile 1850. Così possiamo ancora ricordare la nostra Roma senza Papa, perché questo Papa a noi ci ha piantato, non è più er Papa de noantri (per dirla col gigantesco Don Rusticucci della esilarante Roma senza Papa, 1974, di Guido Morselli, così poco ascoltato in vita). Anche se, a dirla tutta, è già un anno che festeggiamo, a suon di una certa Trap romana.

Trap trasteverina e Scalea del Tamburino

Il 2019 è stato l’anno della Trap romana trasteverina: non è passata una giornata – che fosse l’alba, o più spesso mezzanotte – che non portasse con sé un pezzo nuovo di qualche cantore di quella trap capitolina, prevalentemente ubicata tra il bar San Calisto e il Gianicolo, Ponte Garibaldi e Piazza Trilussa, proprio dove i repubblicani del 1849 resistevano agli eserciti della Reazione straniera. E da quei ponti, muretti, baretti, panchine e piazzette, per tutto il 2019, giorno&notte, ecco una nuova hit lanciata su qualche piattaforma digitale, pronta per essere sparata in cucina ancora sonnecchiando dinanzi al caffè, dalle casse dell’automobile per fregarsene dell’eterno traffico, nelle cuffie andando a scuola, o meglio al baretto sotto la scuola, nello spogliatoio per il fomento collettivo prima delle partitelle di calcio o di hockey su prato, oppure persi nella notte, tornando a piedi da Trastevere. Di nuovo e per sempre, Trastevere, centosettanta e passa anni dopo la strenua resistenza repubblicana, dentro i suoni e le strofe oramai popolari di questi cantori (t)rap, tutto ruota ancora lì intorno: il legame visionario tra la Roma repubblicana del 1849 e la Trap trasteverina degli anni Dieci e Venti del Duemila attraversa i secoli e precipita tra scalini e sampietrini di quella imperitura libertà e socialità repubblicana romana, fatta di gruppetti, collettivi, bande di giovanissimi, ieri come oggi.

In particolare, intorno a quella che – con terminologia anni Ottanta-Novanta del secolo scorso – chiameremmo posse o crew, ma anche ballotta, banda o gruppo, appunto, di (t)rapper, produttori, musicisti, cantautori, dj, videomaker, grafici, etichette discografiche, locali, etc. che prende il nome di Lovegang CXXVI, la gang dell’amore, che da anni oramai si ritrova sulla celebre scalinata tra Monteverde e Trastevere, tra Viale Glorioso e via Dandolo, quei 126 scalini cari anche a Sergio Leone che lì abitava e che danno il nome alla gang e ai suoi molti, guasconi, componenti. A partire da Franco126, Ketama126, Asp126, Seany126 (ora Pretty Solero) e dal produttore Drone126. E quella scalinata, dal 1891 è chiamata Scalea del Tamburino, perché dedicata alla memoria di un giovanissimo contadinello ciociaro, il sedicenne Domenico Subiaco, giunto a Roma proprio nella primavera del 1849 a fianco di Garibaldi per sostenere e difendere la Repubblica romana, nominato Tamburino di fanteria perché troppo basso per combattere nell’esercito, morto sotto le pallottole francesi nella vana difesa di villa Sciarra e porta San Pancrazio il 3 giugno 1849.

Mi piace credere che l’eco sincopato di quel Tamburino che cadenzava il ritmo dei garibaldini e repubblicani romani diffonda ancora socialità e libertà nei centoventisei scalini, per le vie di Monteverde e Trastevere, fino a tutta la Teppa della Repubblica Romana Autonoma, Poetica e Precaria della Trap trasteverina. Che per me risale al battito techno/tekno – da tamburino digitale – che oramai sei anni fa Carlo Coraggio, il produttore e ora celebre cantante pop dal nome d’arte Carl Brave, spingeva nella sua Trastevere, con tanto di foto b/n sugli eterni 126 scalini, perché Carl Brave è il sodale di Franco126, della Lovegang delle origini, in quel primo conclamato capolavoro della New Wave trasteverina, trap e cantautorale, lirica e poetica, tra autotune e pulsione neomelodica, composto dai 10 pezzi di Polaroid (2015-2016, Soldy Music, quindi Bomba Dischi) che poi portarono ai dieci mila assiepati e canterini nel live di Roma Brucia, luglio 2017. Perché la Lovegang CXXVI è oramai un culto: rude, poetica, posse pagana, con il cuore ben piantato a Trastevere e liriche e musiche di una colonna sonora universale che accompagna ragazze e ragazzi, tra amicizia e scazzi, deliri e dipendenze, passioni e sofferenze, amori e depressioni, miseria e ricerca quotidiana della svolta giusta.

Ma torniamo ad oggi, con un primo, approssimativo, catalogo di una dozzina di pezzi emblematici di quest’anno appena trascorso, ma aperti alla primavera 2020 e oltre. Di questa teppa musicale romana sospesa sull’abisso di una città che sembra sprofondare con tutta sé stessa e tutti noi, tra egocentrica autopromozione e nichilistica autodistruzione, solare convivialità cittadina e cupa dipendenza da sostanze, accidiosa chiacchiera e sepolcrale silenzio, disagio solipsistico ed eterna diffidenza nei confronti dell’ordine costituito, delle sue quotidiane forze e dei suoi millenari poteri. Con in più l’aggravante, pronta per ogni wave musicale, dal punk in poi, dal rock’n’roll in poi, in realtà, che questa, «che non è musica», sia demoniaca, violenta, degradante, maschilista, saturnina, individualista, misogina e misantropica, da disadattati, ubriaconi, drogati e criminali, in definitiva.

Poi c’è il sole di Roma, fuori, nelle piazze e nei bar dove ti ritrovi insieme agli altri, in un Do It Yourself al plurale e collettivo, e quindi il buio e il fumo delle stanzette dove una miriade di giovanissimi produttori sonda e sprofonda alla ricerca di suoni che a noi evocano i bassi cavernosi della più cupa, cangiante elettronica e le dilatazioni dub più oscure e insondabili e così citiamo al volo solo i primi che ci vengono in mente, tra questi produttori: Drone126, G Ferrari, NikeNinja, Pino Brown, Close Listen, Dr. Cream, Il Tre, Fettina, lo stesso (Ke)Tama, con accanto gli oramai più famosi Carl Brave, Frenetik & Orang3, Sick Luke, Boss Doms, Tha Supreme.

Con quella spavalda e arrogante sensazione che siano tutti autori di dischi e pezzi perfetti, pur sapendo che così non potrà essere, eppure così è già stato ed oggi sembra di nuovo così: «non puoi attribuire a un disco più valore che a un altro, non mentre l’ascolti; ciascuno è la fine del mondo, la creazione del mondo, completo in sé stesso. Ogni buon disco punk fatto a Londra nel 1976 o nel 1977 ti può persuadere che è la cosa più fantastica che tu abbia mai sentito perché ti convince che tu non dovrai mai ascoltare nient’altro finché vivi: ogni disco sembra dire tutto ciò che c’è da dire. Finché dura il sound, nessun altro sound, neppure il ricordo di un’altra musica può penetrare» (secondo il classico Greil Marcus, Tracce di rossetto, 1989). Londra tra il 1976 e il 1977, Roma tra il 2019 e il 2020. Qui siamo. Punk’s not dead e Trap do it better?

TrapTevere 2019: un primo catalogo è questo

Come al solito, conviene partire dalla fine, dagli ultimi mesi del 2019. Con Max Pezzali – dagli 883 della Milano pop dei primissimi Novanta – che scende a Roma, per omaggiarla con una claudicante ballata in salsa pseudo-romanesca In questa città, girando un po’ impacciato per l’Urbe, con la copertina realizzata dalla matita romana antagonista di Zero Calcare e quindi accompagnato – forse in cerca di legittimazione? – dal rapper e produttore romano Ketama126 nel remix (In questa città – Roma Milano remix). Con la chiacchierata tra i due posta in coda al video, dove considerazioni intorno a fallimento, disagio, città depresse e impoverite – dalla Detroit dell’apocalisse fordista, alla Roma della millenaria stagnazione e rendita burocratica – con la strutturale assenza di lavoro e soldi, il dilagare di tempo libero ed un mix di noia, lentissima cooperazione sociale, inedia e creatività finiscono per generare l’invenzione musicale e poetica, dalla techno USA alla trap romana, dall’operosa Milano, all’oziosa Capitale. Ecco che quindi l’anno si chiudeva con Milano, la città ben amministrata in crescita illimitata, costretta a scendere a Roma, la città malamente amministrata in stagnante depressione, con la 126 che batte quel che rimane degli 883. Una piccola, inequivocabile, fotografia di una inversione di tendenza, forse, dopo anni di romani in fuga verso Milano? Per tornare alla nostra Roma che è meglio di Milano, come diceva il Maestro di tutti noi, Remo Remotti. O forse, più semplicemente, per riconoscere quello che l’oramai arci-famoso e milanese di adozione Achille Lauro, dal Quarto Blocco di Vigne Nuove, spiattella in faccia a chi vorrebbe fare un’intervista da simil-questurino: Roma «resta bellissima, ma solo per i privilegiati. In periferia non c’è molta criminalità; c’è molto disagio. La gente è nelle mani del Signore. Si percepisce un senso di abbandono, di decadenza che per me è arte. A Roma nascono le cose, a Milano partono. Ora vivo a Milano, che è il luogo dell’innovazione, delle persone che credono e investono nelle idee. Qui spunta l’albero. Ma il seme nasce dalla decadenza di Roma».

Anche se la decadenza romana pare misera e sterile, oramai. E di questo accidentato – e non certo pacificato percorso – tra inedia e decadenza romana è emblematico il parlare gesticolante, nel video di Max Pezzali, di Ketama126, musicista, producer, (t)rapper tra i più talentuosi, crudi e schietti in circolazione. Autore di una serie di piccoli, urticanti, dinamitardi, sporchi e cattivi LP o CD, come li chiameremmo noi attempati: Ketam-City (2015), Oh Madonna (2017), Rehab (2018) e Kety (2019). Una sorta di figura quasi cristologica, con un’attitudine sospesa tra rude provocazione hardcore, ieratica e indolente parlantina e schietta riflessività esistenzialista, con una voce che sprofonda in litanie sintetiche, riverberi di autotune e sonorità che recuperano (post)punk, electro, noise, bassi profondissimi, campionamenti da Burzum, dilatazioni temporali del dub e assalti sonori che dilagano negli ingovernabili live, come da ultimo l’estate scorsa a Rock in Roma: recenti ricordi che sembrano appartenere ad un’altra epoca.

Ma il 2019 della scena musicale romana latamente intesa era iniziato con la summa di Zero Sei dei produttori Frenetik & Orang3 (per Asian Fake) e la chiamata all’intera scuola romana degli ultimi anni, dai montesacrini Gemitaiz (Serpentara, in realtà) e Achille Lauro (Vigne Nuove, Quarto blocco), arrivando a Venerus e Carl Brave & Franco126, passando per Coez e Noyz Narcos, fino ai genietti del tutto sottovalutati di Sxrrxwland, purtroppo pare oramai sciolti, e molti altri. Un disco potentissimo già il primo mese del 2019, come il contemporaneo piccolo capolavoro di rap romanesco, tra gli anni Settanta di Gabriella Ferri e un Ice Cube di Garbatella, con gli undici pezzi perfetti, oscuri, ironici e poetici, da stornello che parla, di Re senza corona di Gianni Bismark, con la Triplosette Ent. dei sodali della Dark Polo Gang, dal rione Monti la gang è per sempre, che intervengono anche in un pezzo (Vita amara). Quindi il ritornello di So’ finiti i giochi che è diventato l’inno di giovanissimi con tuta e cappuccio tirato su: De quello che dite non ce frega un cazzo/famo un po’ come ce pare. Con Gianni Bismark in introspezione finale, proprio in Re senza corona, che riflette sulla sua svolta musicale, dopo le difficoltà con la scuola, tra sonorità dark e Spoken Word: Perché invece di sfogarmi sugli altri non mi sfogo su un paio di note? E ora torna con Nati diversi il nostro Gianni nazionale, «co’ quei suoi testi scritti nel quartiere».

E la scuola, sofferta e occupata, insieme con la scalinata dei 126 gradini, pronta ad accogliere pischelli e pischelle, sono al centro del monumentale pezzo e del gran bell’affresco video di Stay Away, prodotto da Night Skinny (dall’album Mattoni che ospita praticamente tutta la scena trap italiana ed è stato «il» disco del 2019), qui con Ketama126, (Dark) Side Baby, fuoriuscito dalla DPG e Franco126, tutti e tre un recente passato da liceali al Virgilio, di via Giulia 38, al centro di Roma, negli stessi anni in compagnia anche di Tauro Boys e Wing Klan, che incontreremo tra poco. È il vero manifesto di quei quindici-diciannovenni romani convocati sulle scalinate per il video, in un misto di lirica malinconia, struggente solarità giovanile, solidale sfrontatezza collettiva di una gioventù sonica che può letteralmente salvarti quando tutti intorno ti dicono, a partire, purtroppo, da insegnanti, genitori e maestri, che sei/eri«quello strano», «che non andavo bene per nessuno», che«ci davano spacciati senza banchi di prova». Con il ritornello di Ketama a tessere il filo «Preside, dacci le chiavi in mano/che questa settimana occupiamo/Poi saliamo sopra i tetti della scuola/Baby, guarda quanto è bella Roma», «dividendo le cuffiette con Franco» in quell’ultimo banco della classe, con quel Franco126 che chiude con una strofa che lascia senza fiato: «Testa contro il muro e non andavo bene per nessuno/Con la meglio gioventù, al Calisto, al Bar Perù, non è più/Piazza della Quercia ora che la quercia l’hanno tirata giù/Passo per le scale e butto un occhio lassù/Rivedo quei bambini con il cappuccio tirato su, uh!».

E «il 38» di via Giulia, il liceo classico Virgilio (Sto con Jo e Max da prima del drop/da prima del 38, già ti accollavi un botto) dove nell’occupazione del 2014 si tenne il concerto di praticamente tutta la Lovegang 126 al completo, è il luogo assolato del video di Bella bro, dal terzo disco dei Tauro Boys, classe 1996, Alpha Centaury (2019), dopo i due formidabili Tauro Tape 1 e 2, qui di nuovo con Side e la mirabile produzione di Close Listen. Con il video che finisce in motorino verso le dune di Capocotta, per il terzetto Tauro visto recentemente dal vivo in una infuocata nottata romana, con due ore di fomento sottocassa, dove si è avuta la netta percezione di essere davanti a un possibile gruppo pop, la classica boy band anni Novanta tra autoironia e provocazione, melodia e rap, con la faccia da monello di Prince che indossava la maglietta dei Take That e zainetto Pikachu, mentre Yung Pawa dominava con la sua voce e Maximilian dirazzava nel solito tedesco.

E in quella stessa sera, mentre la fila fuori dal locale era ancora infinita e assolutamente mal gestita, abbiamo sfruttato la nostra nomea da reporter, con biglietto comprato però, sia chiaro, per entrare di corsa a vedere la spalla del duo Wing Klan, classe 1995, Tommy Toxxic aka Goya, autore di uno dei migliori debutti 2019 con l’oscura e cangiante scrittura di Ghost e Joe Scacchi, suo l’ottimo Marketing, in un set brutale, direbbero i teenager, da rapper old school, cappuccio tirato su e salti sul palco, con il producer e dj NikeNinja a dettare i tempi serrati e rumorosi di una postura live a metà tra Beastie Boys trasteverini e Public Enemy di Monteverde resa al massimo in una Sad urlata e sofferta, anche senza la presenza di Ugo Borghetti sul palco. Li abbiamo ritrovati il 14 febbraio al mitico Goa di Via Libetta, in quel di Ostiense, con un fomento irrefrenabile, alle 2 e 20 di mattina, un set di 45’ con pogo sfrenato sotto il palco e finalmente Ugo presente in Sad, per la gioia di tutti: Wing Klan, Lovegang/Becco Bebbo al Calisto/Quando esce il mio disco/Sarò morto o sarò ricco/Sad, sad, capelli biondi e mascara/Sad, sad, troppo piccola e strana.

E Ugo, Bebbo Borghetti, il campione dei Guasconi della Lovegang, l’amico che tutti vorrebbero vicino per un bicchiere insieme, con il suo sguardo malinconico, il sorriso sulle labbra e l’andatura scanzonata, è il protagonista indiscusso, da attore in fieri quale potrebbe diventare, dello splendido video dal sapore anni Settanta-Ottanta di San Siro, regia di Antonio Marenco, fenomenale pezzo pop con E io ancora faccio slalom tra i miei guai/e qualcosa si è guastato tra di noi … Voglio solo respirare un altro po’ del tuo fumo passivo/e non tornare a casa / sbagliarmi apposta al bivio, uno tra i pezzi più belli del praticamente perfetto disco da vero cantautore di Franco126, Stanza singola, produzione del grande Stefano Ceri per la sempre meritoria Bomba Dischi, reso in modo meraviglioso anche nel live di luglio, sempre a Rock in Roma. Quel Franco126 che a noi ricorda l’ironico, eppure profondamente politico, poetare di Stefano Rosso, mischiato ad una lontana eco della Trastevere di Victor Cavallo, ma con quella capacità di parlare a tutta Italia, dalla provincia al rap, con Fabri Fibra nell’inno provinciale 2019 di Come mai , col suo ritornello Giuro è l’ultimo bicchiere/ah a chi la do a bere.

Ma torniamo ai Guasconi di Trastevere, con Ugo Borghetti e Asp126 nel bel disco, ancora una volta per Bomba Dischi, dal titolo Senza ghiaccio, produzione del Fettina e quintessenza di vita trasteverina, che abbiamo visto il 17 gennaio agli ex-Magazzini all’Ostiense, con spalla l’ottimo, giovanissimo Security, e poi alla consolle Drone126, nel live forse più assurdo, strampalato ed entusiasmante cui mi sia mai capitato di assistere negli ultimi tempi. Dove lo stesso Ugo è sbottato in «quanta pazienza che c’avete!» dinanzi alla vistosa difficoltà di chiudere le strofe e Franco126 sul palco a ribadire«è il concerto più guascone mai visto», con la comparsa della Lovegang al gran completo, da Ketama a Pretty Solero, che chiude con CXXVI dal disco di Drone126 e quindi con un entusiasmante ritorno alle origini, tra i cori di Tarallucci e vino con praticamente una trentina di persone sul palco, anche Gianni Bismark, a sostenere il debutto stremato di Ugo&Asp: Ladies and Gentlemen, ecco a voi i Guasconi. Mentre poco prima avevamo fatto in tempo a commuoverci, tutti abbracciati, campari&gin nei nostri bicchieri, su note e parole di Campare di Campari, omaggio, anche nel bel video di Beatrice Chima, tra i 126 gradini e il cimitero del Verano, all’immenso Vichingo, quel Luigi Marchetti sempre in giro per Trastevere, che da un paio di anni è venuto a mancare, a partire dal ritornello di Asp126, Vorrei fa’ come Er Vichingo e campare di Campari, fino alla tragicamente lirica e melanconica strofa, strozzata in gola dal pianto, di Bebbo nostro.

Si tratta anche di un inno al bar San Calisto e alla vita libera e collettiva, alla giornata, per le strade di una Trastevere che, seppure sempre più irriconoscibile, rimane culla di un comune sentire romanesco, fatalista e scanzonato, emotivamente ancora molto legato al passaggio libertario, creativo, ozioso, pericolosamente anche autodistruttivo, degli anni Ottanta e Novanta del Novecento che Franco126 e Ketama portano a vette apparentemente irraggiungibili con la base nostalgica e riverberata di Don Joe in Cos’è l’amore, pensato a partire dal ritornello del loro amato Maestro Franco Califano in quello che forse è stato uno dei più bei singoli dell’anno appena passato. Vera e propria Hauntology, verrebbe da dire citando la nostra amata triade Derrida-Fisher-Reynolds, se non preferissimo alla cupezza franco-albionica l’abbacchio con le patate dal fu Augusto, attuale Sandro, sotto il sole di piazza de’ Renzi, sempre Trastevere, quanto ci manca in questa primavera in quarantena!

Ma queste sonorità, malinconicamente e poeticamente effettate e riverberate, vengono ulteriormente dilatate e compresse dal giovane, brillante, produttore Dr. Cream, con le sue basi perfette per il talento di Quentin40, da Giardinetti, dal gran bell’album, troppo sottovalutato, 40, con il pezzo Le darò un passa’ e il suo caratteristico rappare troncando le parole, Le darò un passa’/una di ‘ste se’/Nella no’, non lo sa, io lo so/Scusa ma’, perdo lei, perdo me, che imparammo a conoscere con il capolavoro Thoiry.

E scandagliando tra i giovanissimi, ecco due cantori rapper e produttori classe 2001 (come il titolo del loro EP di esordio, sempre la meritoria Bomba Dischi), ancora alle superiori, il romano Lil Kaneki aka Caravaggio e il napoletano Drast che sono gli Psicologi, all’attivo oramai diverse canzoni come Alessandra, provocatoriamente dedicato ad Alessandra Mussolini, vere e proprie hit quasi di neomelodico cantautorato esistenziale e (Sound) Cloud trap, con intorno Roma vista tra amore e insofferenza, qui in Futuro: E il futuro ci spaventa più di ogni altra cosa/E la fine ci spaventa più di ogni altra cosa/Il fallimento ci spaventa perché i vincitori/sono gli unici che scriveranno la storia/E non mi dire di calmarmi che non è cosa/Il problema dei ragazzi non è la droga/Non ti aspettare che ti porti una rosa/Ti porto il mio cuore a metà ed il mio sangue che cola.

Il 2020 potrebbe essere il loro anno e speriamo potrà esserci il loro live romano, con Tredici Pietro e Security, tra gli altri e la generazione di SounCluod trapper che verrà e che è già qui, pensando alla Lobby e al loro giro. Ma quest’anno sarà decisivo anche per il perfetto disco di esordio, Merce funebre (42 Records), per quel Tutti Fenomeni, già Skamarcho, al secolo Giorgio Quarzo Guarascio, compagno di età (1996) e di ballotta dei Tauro Boys (in pezzi come Pinguini, Bondage e nel formidabile singolo 2004/2005 ad esempio) che in un suo oramai storico – e corrosivo e insopportabile – pezzo, così chiosava – sto per dirti una cosa ridicola/per quanto ti amo ti compro il Gianicolo – e che sembra ricordare una sorta di stralunato, strampalato e strafatto poeta citazionista post-surrealista, come testimonia il singolo Trauermarsch con alla produzione (anche dell’intero disco) quel Niccolò Contessa de I Cani che qui si sbizzarrisce citando passaggi musicali da Mozart e Chopin. Ci sarà da divertirsi, con pezzi come Valori aggiunti, Mogol (dal punto di vista culturale/l’Italia è già a pezzi), Marcel (Libri di Proust accanto al bidet), Reykjavik, Diabolik, tutti veri e propri potenziali singoli, come già Qualcuno si esplode, dove ci ricorda che Sto ancora aspettando qualcuno che si espone/brindiamo alla mia e alla tua generazione/Sto ancora aspettando qualcuno che si esplode/Brindiamo alla mia e alla tua reputazione. Ed era sold out il live poi annullato dalla quarantena del 12 di marzo al Monk di Roma per il concerto di apertura del tour di Tutti Fenomeni che a noi ricorda un Garbo postmoderno, una visionaria e lisergica collaborazione Contessa/Guarascio sulla falsa riga di Pasquale Panella e Lucio Battisti, quindi delle produzioni minori, gioielli incantati, di Franco Battiato e Giusto Pio, come Oppio di Sibilla e le splendide Valery e Roma di Alfredo Cohen. Per questo brindiamo alla mia e alla tua generazione!

E di Generazioni X, Y e Z in conflittuali dialoghi mancati parlammo a partire dal comune Io evaporato delle diverse generazioni precarie, ricordando i Ragazzi Madre di Achille Lauro che con l’album 1969 e la sua splendida Roma ha accompagnato il nostro cinquantennale di irrisolti lunatici, ben prima dell’exploit di San Remo. Perché le parti più fortunate e volonterose di generazioni dei genitori e dei figli continuano a incontrarsi, scontrarsi, parlarsi, sentirsi, malgrado tutto e tutti. Malgrado i fallimenti della Famiglia tradizionale ci direbbe il formidabile trio Sxrrxwland, tra elettronica cupamente sinfonica, beat cristallini e laconica voce da crooner post-moderno, non certo da rapper tradizionale (Sto assumendo sostanze/Stai assumendo il mio gender/Siamo le nuove ragazze/Non chiamateci rapper): Vengono fuori più sociopatici/Dalle famiglie amorevoli/Che dalle coppie difficili/Ogni statistica mi sembra fatta solo per deprimermi.

Centosettanta anni fa ecco che, dopo le lotte repubblicane, Ciceruacchio e i suoi due figli lasciano Roma assoggettata alla reazione papalina, seguendo Garibaldi nella strenua resistenza dell’ultima Repubblica italiana, quella di Venezia, finendo tutti e tre ammazzati dagli austriaci nelle acque salmastri sotto la laguna. Nel 2019, molto più prosaicamente, genitori rapper, di famiglie non tradizionali con passati complicati, e figli producer, con un futuro scintillante, si incontrano, come il rapper romano Duke Montana, del giro anni Zero di Truceklan – prima della lite e dei dissing con Noyz Narcos e Chicoria, quest’ultimo successivamente nei seminali In The Panchine, altri due beniamini delle attuali generazioni – che torna a infilare barre al fulmicotone su di una base strepitosa da old school del venticinquenne figlio Sick Luke, brillante produttore di oscuri suoni (di DPG, Gianni Bismark e molti altri), in Lafayette, Il mero mero, l’antagonista, l’anticonformista, il ribellista, purista de ‘sto rap vero! con la maglietta Wu Tang Clan, hip hop delle origini, romanità varia e video girato a Milano, nel cortocircuito logistico già incontrato prima.

Cortocircuito che vira in contaminazione provinciale e sempre intergenerazionale con il ventenne rapper casertano Barracano (il Rafilù sodale di Speranza) che nel suo primo gran bel disco autoprodotto Figlio di Scar (2019) ospita proprio Chicoria in Vodka (produzione serrata e spedita di Crookers & Nic Sarno), nel bel video romano della solita Beatrice Chima in cui C’è qualcosa di sbagliato nel mio «c’era una volta»/a me mi hanno battezzato nella vodka di Barracano precipita nello spettacolare attacco hardcore di Chicoria C’è qualcosa di sbagliato nel mio «c’era una volta»/a me mi hanno battezzato con la droga. E Chicoria in questi ultimi anni gira per le scuole romane a incontrare le giovanissime generazioni, per parlare di rap, vita di strada, affanni, amori, scazzi, dipendenze, studio, carcere e di come lo stare insieme, tra musica e parole, possa dare forza e salvare dagli affanni e dalle scelleratezze di vite e famiglie, tradizionali o meno.

Perché il germoglio hip hop da cui discendono queste sonorità che continuano ad accompagnarci nel duraturo festeggiamento della nostra Repubblica romana al tempo del Covid-19 sta lì ad indicarci che basta una base, un mixer, un paio di casse, qualche microfono, l’autotune, birra, dj & MC a volontà, quindi una posse più o meno«intonata» e vogliosa di raccontare il proprio immaginario, per rendere operativo il Do It Yourself dell’imperitura dichiarazione di libertà e socialità dei Beastie Boys di tutto il mondo, ad ogni latitudine e tempo: (You Gotta) Fight for Your Right (to Party). E in lontananza, qui a Roma, ecco l’eco del Tamburino repubblicano, dai 126 gradini, sui sampietrini, a tarallucci e vini, sotto la benedizione di San Giovanni Peroni, per rovesciare la città urbi et orbi. Contro tutto e tutti, ‘sta trap romana se la comanda. In alto i nostri Campari col gin e il volume delle casse. Anche alle 18, dalle nostre finestre di reclusi nella lotta comune al Covid-19: lunga vita alla Teppa della Repubblica Romana Autonoma Poetica e Precaria. In saecula saeculorum.

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