Un archivio vivente

Vivien Sansour e Maria Thereza Alves

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Vivien Sansour, Raccolto dei cavolfiori, Hebron, 2020. © Vivien Sansour - Palestine Heirloom Seed Library.

La Palestine Heirloom Seed Library è un archivio di sementi, ideato da Vivien Sansour, per salvaguardare antiche varietà minacciate di estinzione. Artista, attivista e antropologa, dagli Stati Uniti dove si era trasferita con la famiglia, è tornata in Palestina, dove da diversi anni ricerca e raccoglie sementi che stanno scomparendo, sostituite da varietà modificate e ogm. Per la Sansour le sementi sono dispositivi narrativi che parlano dell’occupazione israeliana e del mancato rispetto e salvaguardia delle specie autoctone. Per diffondere l’archivio ha ideato la Travelling Kitchen, che le permette di raggiungere remoti villaggi della Palestina e città internazionali. Un’installazione riguardante la Palestine Heirloom è presentata a Palazzo Boncompagni a Bologna, parte di Foto/Industria, Biennale dedicata alla fotografia dell’Industria e del Lavoro fino al 28 novembre.

In Palestina si coltivavamo centinaia di varietà di grano, ma dalla fine degli anni Quaranta, con la modernizzazione dell’industria agricola, se ne è progressivamente ridotta la varietà. Ora se ne coltivano solo due e una di queste è israeliana. Cerco le sementi autoctone nei villaggi e quando li trovo, insieme agli agricoltori, le piantiamo per reintrodurli nei campi, nei mercati e sulle nostre tavole.

Ha affermato la Sansour nell’incontro pubblico alla Fondazione MAST, con Francesco Zanot. E ha aggiunto:

Ogni raccolto è una pratica culturale, con la scomparsa della varietà dei semi e del cibo si perde non solo la loro coltivazione, ma anche parte della nostra storia. Il mio compito è riattivare le nostre tradizioni, perché la biodiversità organica è anche diversità culturale e patrimonio storico. Insieme all’artista Ayed Arafah abbiamo progettato e costruito nel 2014 una piccola Travelling Kitchen in legno, che può essere smontata e caricata in auto. La allestisco in città e nei villaggi, cucino le sementi ritrovate, incontro le persone e racconto loro quello che sto facendo, è accaduto in Cisgiordania, Giamaica, Inghilterra, Stati Uniti. Gli incontri e le conversazioni possono essere animati, perché quello che propongo può sembrare utopico, anche se sono consapevole che per gli agricoltori utilizzare questi semi è meno vantaggioso rispetto alle monoculture. Voglio però uscire della narrazione univoca che i paesi colonizzati devono mangiare hamburger, anche se dove sono cresciuta in Palestina, al posto degli uliveti ora c’è Popeye’s Fried Chicken e Domino’s Pizza. Penso che questa sia la vera tragedia, la vittoria della violenza e della colonizzazione. I semi possono essere rivoluzionari. Contengono frammenti della nostra storia, l’essenza di chi siamo, che possiamo rivendicare e riportare in vita. Quando vivevo negli Stati Uniti mi dicevano che la Palestina non esiste, e invece non è cosi. I semi sono per me una cura e un insegnamento, perché la vera rivoluzione è pensare che sia possibile cambiare la storia narrata dai vincitori. E credere che qualcosa destinato a scomparire, come le varietà dei semi nativi, cancellati dal neoliberalismo che annulla le biodiversità, possano di nuovo essere coltivati. E questo non accade solo in Palestina, ma anche in Canada, dove i nativi sono stati espropriati delle loro terre e delle loro tradizioni, cosi come per altre comunità indigene sistematicamente represse e mistificate.

Vivien Sansour, Palestine Heirloom Seed Library, 2020.

Ascoltandola penso a quanto le sementi siano determinanti nel mettere in discussione questioni riguardanti l’identità e la storia coloniale di un paese, per contrastare la modalità riduzionista e restituirne la complessità. Mi chiedo quali sono le narrazioni socio-politiche che identificano il concetto di appartenenza e di seme nativo? Visto che i semi possono restare dormienti per decenni e persino per secoli, dormienti ma non morti, come ha affermato la botanica Heli Jutila, di cui mi ha parlato l’artista Maria Thereza Alves, quando l’ho intervistata alcuni anni fa. I lavori della Alves analizzano la storia coloniale e la rete di relazionali economiche dei paesi in cui ha lavorato (Senegal, Brasile, Messico, Europa) attraverso indagini di carattere geografico, botanico ed economico. Analisi che l’hanno portata ad analizzare diciassette diversi aree di Berlino, perché dopo la caduta del muro la città era diventata un cantiere a cielo aperto. In seguito alla rimozione dell’asfalto furono riportati in superficie sementi dormienti, una banca di semi in attesa di essere scoperta. Con Seeds of Change si è occupata della flora delle zavorre delle navi da cargo. Pietre, terra, sabbia, legno e mattoni, usati come zavorra per rendere stabili le navi mercantili, scaricate nei porti europei, contenevano semi provenienti da altre parti del mondo che germogliavano e crescevano, contribuendo allo sviluppo del paesaggio, per creare quello che Alves chiama una «storia senza confini».

Rispetto alla cancellazione della storia di cui parla la Sansour, penso invece al film-saggio Jaffa: The Orange’s Clockwork di Eyal Sivan, che analizza la storia della Palestina e di Israele attraverso un simbolo condiviso da israeliani e palestinesi: l’arancia di Jaffa. Se gli israeliani la identificano come simbolo dell’impresa sionista, per i palestinesi è invece un simbolo della distruzione della propria terra. Il film, composto da materiale d’archivio e interviste, riflette anche sulle fantasie occidentali legate all’Oriente e alla Terra Santa, per narrare una storia dimenticata, di quello che un tempo non era solo un simbolo ma un’industria in comune. Penso inoltre alla straordinaria filmografia di Elia Suleiman, Avi Mogravi, Khaled Jarrar, Emily e Annemarie Jacir, ma anche a Fahrenheit 451, di Francois Truffaut. Nel film, basato su l’omonimo romanzo distopico di Ray Bradbury, la conoscenza del sapere era tramandata dagli «uomini libro», che imparavano il contenuto dei libri a memoria, visto che ne era vietato il possesso e la lettura, e il sapere era diffuso unicamente attraverso il network televisivo.

Maria Thereza Alves, Seeds of change, 2000.

Le sementi raccolte dalla Sansour sono un archivio «vivente» che intende riattivare una pratica culturale-agricola e proporne nuovi utilizzi. Mette in discussione il valore dell’archivio, che è frutto di «incontri» e «scoperte» e non di un sapere tassonomico, con un posizionamento partigiano che riattiva un sapere. Indaga negli interstizi e nell’ambiguità della storia e non nelle narrazioni ufficiali, perché gli archivi non sono innocenti, ma costruzioni politiche che sistematizzano un sistema di potere culturale che i paesi dominanti impongono ai dominati. E la violenza della storia giace nel disconoscimento dell’esistenza di pratiche subordinate alle esigenze economiche dell’agenda politica internazionale. Per far germogliare le pratiche e le sementi, la Sansour ha affermato al termine dell’incontro, di non credere nella centralità di un unico luogo per la loro raccolta. «Il fatto che siano in più luoghi è più sicuro, in Iraq e in Afghanistan c’erano importanti banche di sementi che sono state distrutte nei vari conflitti. Non basta congelarli e conservarli alla Svalbard Global Seed Vault sull’isola di Spitsbergen, in Norvegia, perché l’apocalisse è ora e bisogna agire adesso».

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