Una lezione

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Gerardo Fromanger, Boulevard (2016).

La quarantena si divide in epoche geologiche. Quando è iniziata, milioni di anni fa, abbiamo trovato nelle nostre case tesori inesplorati, siamo persino stati un po’ euforici per questa vita autarchica, dove dipendevamo solo da noi stessi. La nuda vita, ci piaceva dire scoprendo la prepotenza della primavera. La sospensione, il vuoto e la meraviglia sono durati poco però. E questa esperienza non è stata poi così ascetica. Nella seconda epoca della quarantena ci siamo trovati a lavorare nelle ore più svariate, mentre i figli facevano le lezioni in orari a caso, ed era tutto spegni il microfono e poi accendilo per parlare. Dibattiti senza contraddittorio, la scuola senza poter indovinare dallo scatto del corpo la bugia o il guizzo. Sessioni di palestra e un po’ imbecilli abbiamo bevuto assieme tra gli schermi. Nella terza epoca della quarantena le cose hanno cominciato a degenerare. Una paura collettiva e innominata ha cominciato a dilagare e non a torto. La diseguaglianza sociale è esposta come fili scoperti di una presa elettrica. Dove sono gli ambulanti delle strade, dove sono i bambini che vivono nelle tante occupazioni. Come fanno a mangiare, cosa succede se nell’edilizia accalcata delle periferie esplode il virus. Non sono cose che si mettono a posto accendendo zoom. Non c’è modo di sistemare queste cose se non con i metodi di sempre, la rivoluzione dei cuori.

Ora, che siamo nella fase della quarantena che nemmeno sappiamo nominare (è una porta di uscita o una porta cieca?) scopriamo di aver paura persino di uscire. Ed è una paura che fa male scoprire, perché ci fa credere che sia possibile per l’animale in gabbia dimenticare la spudoratezza del sole o la temperanza di un albero. La gioia del bagnarsi, l’infinita gioia dei corpi quando hanno a che fare tra di loro. Non è sbagliata quella paura. Non dobbiamo correre per non averla. Dobbiamo esplorarla. Perché se la teniamo in bocca a un certo punto non potremo che sentire il gusto amaro dell’ingiustizia. Per cosa nasce uno stato, per cosa si sopporta il divieto se non per togliere alla natura il suo lato osceno e capriccioso, per non destinare il debole alla morte sicura. Ebbene su questo lo stato ha fallito e miseramente.

Non ci ha difeso dalla malattia, non ci ha difeso dalla povertà. E poteva farlo. Potevamo avere pensato a una sanità per tutti, senza quella privata e sarebbero stati milioni i tamponi, milioni gli esami, più celere la ricerca, più forti le infrastruttura, più numerosi i medici. E potevamo avere una società in cui il ricco non è così ricco e il povero non è cosi povero. Dove l’accumulazione non si può fare, è fuori legge, per l’appunto. È questo il comunismo, non è altro. E va costruito con l’affetto, non con la paura. Dalla paura dobbiamo liberarci. Una volta per sempre.

E non dobbiamo tornare a quello che c’era prima perché ha fallito e ha fallito alla grande. Ci vuole un mondo nuovo e non questo circuito di morte. Che è morte dell’ecosistema, morte dei corpi, morte delle visioni, morte dei sogni. O si dice questa verità, o si sposa questo programma, o non servono a niente queste ordinanze, se non a tappare buchi che continuano a lacerarsi. Fare finta di non vedere, però, ora sembra davvero impossibile. Abbiamo bisogno di un sogno collettivo. Di creare valore. Con questo progetto nelle tasche si può essere felici di uscire.

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