Uno sguardo non-allineato

Intervista a Marco Scotini

Sven Stilinoviå, Flag, 198485, mixed media, 350 x 470 mm, Marinko Sudac Collection
Sven Stilinoviå, Flag - Marinko Sudac Collection.

Elvira Vannini: Una modernità non-allineata come quella jugoslava, nel suo continuo «oscillare nella recinzione tra Est e Ovest» (Denegri) avrebbe prodotto una versione del socialismo indipendente dal modello sovietico, una sorta di ibrido ideologico e politico anche se, come sostiene Boris Buden «non si tratta di un caso indentitario in between ma piuttosto di una contingenza storica. […] Quando si divise dal blocco sovietico nel 1948, il partito comunista jugoslavo non aveva idea di cosa fare. La sola cosa che sapevano con certezza era che non potevano più seguire il modello sovietico. Così, in uno stato di panico hanno cominciato a leggere i socialisti utopici, gli anarchici, a studiare la storia della Comune di Parigi fino ad arrivare alla conclusione che il sistema sovietico era, cito: «[…] una forma di capitalismo monopolistico di Stato che è anche peggio di quello occidentale. Ed è dallo stesso panico storico che hanno inventato l’auto-gestione e presto raggiunto il movimento dei Paesi Non Allineati. Hanno agito nella contingenza storica, non per una conoscenza della storia. Erano come analfabeti che improvvisamente si sono trovati sulla scena di un dramma storico con un pubblico in attesa che loro agissero. E hanno agito, non occupando uno spazio ibrido tra il comunismo orientale e il capitalismo occidentale, ma trovando la propria strada per il futur1. Come hai cercato di mettere in scena la dimensione estetico-politica dello spazio culturale jugoslavo, che oggi è un concetto superato dal punto di vista storico e geopolitico?

M.S. Sì, la Jugoslavia è oggi una memoria cartografica e, al tempo stesso, un modello politico-culturale che stiamo cercando di rileggere nei suoi differenti assetti e nelle possibili declinazioni. Il fatto stesso che questa «terra degli slavi del sud» non sia più una Repubblica Federale e che al suo posto si sia istituita una proliferazione di stati nazione non impedisce appunto di riguardarne il proprio passato socialista come un’alternativa ancora attuale. Ma il problema dell’esposizione ad FM, nel caso specifico, è stato quello del confronto con la scena artistica dell’intera area e dei suoi bordi internazionali: l’ordinamento dei suoi materiali, le narrative possibili, la sua graduale messa a fuoco.

Vojin Bakic, Monument to the uprising of the people of Kordun and Banija, 1981 – Marinko Sudac Collection.

Questo spazio in between, più o meno empiricamente definito, non è solo politico ma anche artistico. Dunque la nostra domanda è stata fin dall’inizio: quale costellazione privilegiare? Quale itinerario tracciare? Come mappare quest’ampia regione balcanica e mitteleuropea? Quali concatenazioni perseguire in modo tale da rendere evidente questa incompleta assimilazione jugoslava tanto ad Est che ad Ovest? Abbiamo, dunque, aperto la mostra con l’immagine del monumento di Petrova Gora di Voijn Bakic della fine dei ’60 perché ci riportava direttamente alle sue radici culturali: alla Torre di Tatlin, al Monumento alla Terza Internazionale del ’20. Abbiamo chiuso l’esposizione, invece, con una saletta dedicata agli spazi alternativi (ufficiali e non) dove la neo-avanguardia allora si presentava. È una piccola sala che raccoglie documenti della galleria polacca NET, della Galleria Permafo, della ungherese Balatonboglar, del Centro Studentesco di Belgrado o della casa di Rudolf Sikora, il First Open Studio. Naturalmente tutti spazi fuori dal mercato dell’arte, dunque distanti dal modello occidentale di valorizzazione. Al centro del percorso compare invece una sorta di Cortina di Ferro, ricostruita attraverso l’articolazione di un’opera di Stano Filko, che segna il passaggio fisico dalla Jugoslavia all’ex Blocco Sovietico. Per noi è stato importante fornire questa cornice «socialista» alla mostra perché se ne potesse verificare il contenuto in termini contestuali. Un contenuto che, altrimenti, risulterebbe assimilabile al linguaggio artistico occidentale: astrazione, body art, poesia concreta, arte concettuale, ecc. Di fatto, non è così. Se volessimo essere sinceri, tutte le opere in mostra sono – in realtà – una sorta di apertura integrale sull’arte concettuale, quasi un alveo della smaterializzazione oggettuale che l’occidente avrebbe raggiunto solo successivamente. Ma anche in questo caso sorge la domanda: è giusto parlare di arte concettuale? Per strana ironia della sorte quest’arte avrebbe trovato solo ora quel carattere di grande attrazione che esercita ai nostri occhi. Una espressione, cioè, fatta di quasi-nulla e fuori dalle pressioni e dalle false dinamiche del mercato. Un’arte che farebbe ora da contraltare all’epoca della massima finanziarizzazione dell’oggetto estetico. Andrebbe bene tutto ciò se questa pur giusta impressione non ci impedisse, altrimenti, di capire la ricchezza strutturale e la natura autonoma di questa produzione per anni rimasta marginale ma che, tra poco, sarà destinata a cambiare gli assetti delle storie ufficiali. O comunque qualcosa che sarà tale da mettere in crisi il predominio indiscusso del canone occidentale.

Stano Filko, Freedom 1965 – 1968 – Marinko Sudac Collection.

E.V. Hai affermato, infatti, che la mostra crea le condizioni per decostruire il nostro modello universalista ed egemonico della modernità, per scoprire i paradigmi che lo hanno affermato come indiscusso e reso invisibili altri sistemi, confermando una asimmetria costitutiva nella scrittura della storia dell’arte e non solo nelle narrative formaliste. La storiografia non è mai un’attività neutrale e oggettiva (Igor Zabel, 1999) e la divisione in blocchi durante la Guerra Fredda è stato un cliché usato con l’obiettivo di una strumentalizzazione ideologica, quando il processo della sua storicizzazione doveva essere compiuto.

Premettendo che oggi non si può più pensare a una storia «ontologica» dell’arte quando le categorie implicate sono di natura politica ed economica, l’Est Europa è stato recepito come l’oggetto di una lettura Occidentale e come una forma di colonizzazione culturale, per una meta-narrativa che aveva imposto una visione univoca delle fenomenizzazioni in atto. Cosa significa parlare oggi dell’Est Europa quando i parametri di analisi sono storici, ideologici e politici (post-comunismo) o rimandano a una proiezione geografica ormai dissolta: quali nuove narrazioni hanno preso il posto di questo blocco contrapposto Est/Ovest dopo l’89? La tua mostra aggiunge un importante capitolo a questa revisione…

M.S. Spero che la mostra aggiunga qualcosa. Di fatto è una delle prime volte in cui si cerca di esporre questa storia artistica nella sua completezza, definendo un percorso cronologico e parallelo a quello occidentale. Ma il problema rimane aperto. Che cos’è o cos’è stato l’Est? È ancora il punto di vista dell’Ovest? Qualcosa cioè che si definisce tale soltanto per la sua relazione dualista con l’Ovest? È ancora il segno di una politica di divisione, di esclusione o di marginalizzazione? Tanto più: rispetto all’ambito dell’arte si impongono ancora altre domande. Perché quando si fanno mostre d’arte contemporanea del Nord America o dell’Europa non si parla di arte dell’Ovest? L’arte cosiddetta occidentale è per definizione universale, omogenea, neutrale. Come l’idea di modernità occidentale risulterebbe la modernità in quanto tale; così l’arte occidentale sarebbe semplicemente «arte». L’est da questo punto di vista rappresenterebbe qualcosa di etnico, di arretrato, un deficit di valori che per diventare trascendenti dovrebbero essere tradotti nell’idioma occidentale.

In questo senso la catena di interrogativi che ogni mostra storica sull’arte sotto il socialismo pone sono davvero molti. Per ciò abbiamo deciso di intervenire con la scena jugoslava, perché di per sé è una realtà alternativa ad entrambi i poli e ci costringe a formulare in maniera diversa una serie di problemi. Con il termine non-allineamento che abbiamo preso dalla linea politica di Tito a partire dagli anni ’60, abbiamo voluto indicare non solo la cultura che ne sarebbe sorta all’interno ma una tendenza artistica più ampia che include anche le forme non-ufficiali di arte della Polonia, dell’Ungheria, dell’ex Cecoslovacchia, ecc. La fonte per tutte le opere esposte è stata la Collezione Marinko Sudac di Zagabria, che è una raccolta immane di tutta l’arte radicale e neo-avanguardista dell’intera regione.

E.V. Lo stesso ordine discorsivo ha investito le manifestazioni espositive. «Le prime edizioni di Documenta erano apparse come una vetrina culturale per il Piano Marshall nel paese che era diventato il centro privilegiato della nuova alleanza tra il nord Europa e gli Stati Uniti»2. Così se si escludono le esposizioni non ufficiali e la rete di realtà parallele e non conformi di una modernità locale rimasta marginalizzata, non c’è traccia di queste storie nelle kermesse internazionali su larga scala. Forse possiamo pensare a Documenta 12 come un punto di svolta nella strategia di riscoperta del concettualismo dell’Est Europa per l’inclusione di un certo numero di esponenti. Come possiamo spiegare la massiccia assenza di questa scena dalle collezioni museali, perché il MoMA non ha mai acquisito prima d’ora le opere di questi artisti?

M.S. Stando ai manuali più aggiornati, come quello di Rosalind Krauss e Benjamin Buchloch, l’Est Europa è presente con il Realismo Socialista degli anni ’30 che pare protrarsi indefinitamente fino gli ‘80 (questo è qualcosa di non scritto ma lasciato intendere visto il silenzio su quell’area). Oppure è presente con figure come Opalka e Abramovic nei ‘70. Cosa è possibile dire in proposito? Direi che cercare risposte plausibili è come trovare degli alibi. C’è un gap storiografico che non capisco, soprattutto rispetto ad interpreti raffinati come quelli del circolo della rivista «October». Pensa già al nome della rivista! Avrebbe dovuto essere un programma culturale quando non ha fatto altro che riconfermare il ruolo dei vincitori e il ruolo di una sola modernità, unica ed esclusiva. Possibile che questo studiosi non abbiano avuto alcun sospetto che qualcosa di non ufficiale (o di alternativo) si fosse mosso anche dall’altro lato della Cortina? Perché riaffermare i due blocchi contrapposti con un anticipo ed un ritardo sulla corsa verso la modernità?

Come risulta evidente dal materiale archivistico in mostra gli scambi con artisti e teorici occidentali erano davvero molti. Inoltre il libro di Klaus Groh, «Aktuelle Kunst in Osteuropa» è del 1972. Credo che la caduta del muro di Berlino, se un ruolo positivo l’ha mai avuto, questo ha coinciso con la nostra totale e pericolosa messa in crisi della modernità. Pericolosa perché mentre stiamo cercando di ricostruire cosa il socialismo avrebbe potuto essere o di vederlo come un capito inconcluso siamo finiti in pieno neofascismo… Eppure l’unico modo per combatterlo sta nel ripartire da qui, da questo connubio di modernismo e socialismo che la versione ufficiale delle nostre storie ci aveva sottratto. Ci vorrà ancora molto per vedere ridimensionato il ruolo artistico degli «americani» che avevano tutte le armi culturali ed economiche dalla loro parte, potevano comprarsi riviste, musei e potere. Ma per far questo ci vorranno anni, oltre che uno sguardo non-allineato senza il quale gli assetti consolidati si sposteranno di ben poco.

E.V. Claire Bishop (riferendosi soprattutto alla scena artistica di Praga e Bratislava e del blocco sovietico senza accenno alla Jugoslavia) parla di un ripiegamento verso un’esperienza estetica soggettiva e privata – dove il collettivismo era un obbligo ideologico imposto dallo Stato – quindi esistenziale e apolitica. Una considerazione ambigua che deriva dal concetto del «metapolitico» di Ranciere come ridistribuzione del sensibile più che di una posizione politica e che rimanda a un vecchia idea di arte. Secondo Bishop dunque, le restrizioni della vita sotto il socialismo e la Guerra Fredda governano anche l’apparenza di questi lavori: sostanzialmente intimi, frugali e temporalmente brevi, come strategie di auto-protezione in una atmosfera costante di insicurezza, in cui ogni cittadino era un co-produttore dello Stato comunista. Penso piuttosto che sostenendo come «molti artisti non vollero avere nulla a che fare con la politica – e anzi rifiutarono persino la posizione del dissidente – e scelsero di operare su un piano esistenziale: rivendicando la libertà individuale, anche nella più sottile e silenziosa delle forme», la Bishop confonda il gesto politico con il contenuto di propaganda. Su questo credo tu abbia molto da ridire, no?

Bosch + Bosch Group (Bálint Szombathy), Lenin in Budapest, 1972 – Marinko Sudac Collection.

M.S. Come sai, non condivido nulla del libro sull’arte partecipativa della Bishop. Ma in particolare riguardo al capito sull’Est ci sarebbe molto da controbattere. Il contenzioso sta nel ruolo originario che Bishop attribuisce a Guy Debord che per me, al contrario, rimane insuperato. Lo spettacolare diffuso e concentrato non sono altro che due facce della stessa medaglia e oggi parleremmo piuttosto di capitalismo di stato e di capitalismo in generale. Il fatto stesso che non ci sia «partecipazione» ad Est non significa che non si possa parlare del «politico» nelle loro pratiche artistiche, che è come se si volesse leggere il situazionismo in termini apolitici, esistenziali e di libertà induviduale. Al contrario l’arte concettuale dei ’70 soprattutto in Jugoslavia e Ungheria è dichiaratamente politica e quando non è così c’è sempre un sottotesto politico. Che dire di «Lenin in Budapest» di Balint Szombathy, di «Negative Star» di Attalai Gabor, di «Falce e martello» di Pinczehelyi, per non parlare di Sanja Ivekovic, di Stilinovic, del Gruppo dei 6 autori, ecc. La situazione non è molto diversa da quella post-politica che vivevamo anche nel laboratorio italiano. Si scopre che il «politico» è altro dalla rappresentazione marxista classica e si combatte la sinistra da sinistra. Pensa a tutti i riferimenti di questi artisti al costruttivismo originario. Anche il pubblico è politicizzato, altro che sparuto gruppo di amici… Se uno assisteva alle performance violente di Chris Burden finiva su Artforum, chi assisteva a quelle del suo amico cecoslovacco Peter Stembera finiva in carcere. Che dire?

Attalai Gábor, Negative Star, 1970 – Marinko Sudac Collection.

E.V. In una recente intervista sulle esposizioni politiche Peter Osborne in dialogo con Nataša Ilić afferma che: «storicamente, l’arte concettuale è sempre stata associata con l’arte politica a causa della concettualità di quest’ultima e del rifiuto di estetizzazione della prima. C’è un uso strategico dei materiali estetici. C’è qualcosa di intrinsecamente politico circa l’uso strumentale e strategico della dimensione estetica all’interno di un lavoro. Tuttavia, non vi è nulla di sinistra nell’arte concettuale»3, tanto che alcune di queste pratiche performative e concettuali, presenti anche in mostra, sono spesso interpretate come dissidenti in relazione ai regimi dittatoriali, come agenti di autonomia estetica. Il clima di repressione, le aggressioni dei governi, la chiusura degli spazi, la situazione di sorveglianza paranoica: «se non potevano andarsene gli artisti scappavano con la mente attraverso l’arte concettuale»4. C‘è una grande distanza col concettuale occidentale che seppur aveva reso visibili i rapporti capitalistici che sono alla base della produzione e distribuzione dell’arte, in una forte tensione contro il sistema commerciale, era stata proprio la condizione di proprietà dell’opera smaterializzata ad aprire la strada al neoliberismo. È giusto, secondo te, parlare di concettualismo? E sulla questione arte e politica?

M.S. La questione dell’appropriatezza o meno del concettualismo ad Est non è di secondaria importanza. Stando alle pubblicazioni in proposito è solo con la mostra e il catalogo Global Conceptualism presso il Queen Museum di New York del ’99 che si comincia ad includere quest’area centro-europea (oppure quella russa) nel capitolo occidentale sull’arte concettuale. Anche se il ben noto volume di Alexander Alberro, la tiene ancora esclusa. Eppure di fronte a Josip Vanista o Mangelos prima; a Goran Dordevic e Mladen Stilinovic poi, di cosa potremmo parlare se non di arte concettuale? Ma il gruppo Gorgona è della fine degli anni ’50 (quando non ce l’aspetteremmo) e Goran Trbuljak è un caso di institutional critique dove non ci aspetteremmo di incontrarla. A parte questi elementi fuori asse, molti ed eterogenei sono, di fatto, gli elementi che entrano in gioco in questo tipo di produzione che si fonda linguisticamente sulla tautologia, sull’auto-analisi, sulla comunicazione.

Goran Trbuljak, I Don’t Want To Present Anything New and Original, 1971 – Marinko Sudac Collection.

Se da un lato l’approccio concettuale rispondeva perfettamente ad un deficit di risorse e materiali così come ad una necessità di protezione e sicurezza rispetto alla censura, dall’altro lato, la funzione critica di quest’arte era sempre direttamente politica quando non diventava un sottotesto con una matrice sociale e dunque lontano dal disimpegno dell’arte concettuale occidentale. Il paradigma concettuale (chiamiamolo così) diventa subito appropriato per questa area artistica e consente una grande libertà inventiva nelle condizioni espositive, produttive e ricettive. In mostra c’è tutta una casistica molto ampia che va dalle mostre per strada del Gruppo dei Sei Autori fino ai leggendari Happsoc di Stano Filko. Naturalmente i rapporti con gli artisti e i critici negli anni Settanta sono davvero molti (penso alle visite di Chris Burden, Joseph Beuys, Art and Language, Tom Marioni, molti poveristi o alla corrispondenza con Maciunas, Dick Higgins, ecc.) ma questo non permette di sovrapporre i nostri canoni alla loro produzione autonoma. Penso che anche la scena ungherese abbia dato del suo meglio in questo periodo con Dora Maurer, Endre Tot, Miklos Erdely, Gabor Attalai e Tamas Szentjoby. Certo proprio qui dove i linguaggi sembrano tangenti, più visibile risulta invece il carattere non allineato di quest’altra modernità.

E.V. Rispetto al regime di invisibilità che ha caratterizzato la scena artistica dell’Est in senso più ampio, Marina Gržinić ha parlato di spettralizzazione della storia, dello spazio e del tempo: così la stella rossa diventa un’impronta instabile e un negativo sulla neve con Gábor Attalai, la produzione semiotica del partito si dissolve nei suoi stessi simboli in Radomir Damnjanović Damnjan o in Sándor Pinczehelyi, il teatro invisibile e gli anti-happening (o le cartoline con scritto in verde «SOKIALIZMUS», «ILLUZIONISMUS» come reazione agli eventi tumultuosi del 68 di Praga di Julus Koller) le sculture e le installazioni non hanno nulla di monumentale e assiomatico ma appaiono come la spettrale parodia della teatricalità di Fried, il suo residuo sporco, anti-narrativo, ridondante e working class. Così come Artist at work di Stilinovic del ’78, in cui l’artista dorme in galleria, non è più un soggetto che contribuisce alla costruzione della società socialista ma libera il tempo alienato dall’ideologia del lavoro, o la sottrazione ai dispositivi del patriarcato di Ivekovič, Ladik e Natalia LL, o per tutte la scritta «Questo non è il mio mondo» di Željko Jerman. Un altro rifiuto o ancora una doppia negazione, per dirla con Virno «la negazione di una precedente negazione non è uno strumento della logica ma della prassi»…

Július Koller, Shockialism, 1968 – Marinko Sudac Collection.

Se è vero che uno spettro si aggira per l’Europa dell’Est è altrettanto vero che è quello del comunismo. Le diverse figure che questo spettro assume dagli anni ’60 in poi sono molte. Ce n’è una che più di tutte mi sembra incorporare questo ritorno inquietante ed è l’uso che gli artisti fanno della neve. Sono tanti i segni che vengono inscritti su questa superficie bianca e poi catturati dalle foto. La stella, il quadrato nero di Malevich, le frecce rosse come nel caso di Sikora. Ma la vera metafora è questa stessa dell’avanguardia, quella della tabula rasa ma radicalmente rivista. La superficie innevata promette solo una temporanea omogeneità e inscrizione poi, con il disgelo, la realtà rispunta come prima. Fuori di metafora invece c’è un episodio, tra tutti, che vorrei citare a conclusione, come l’altra faccia della spettralizzazione. Penso al comunismo integrale sviluppato dal gruppo OHO fin dalla nascita, a metà anni ‘60. Qui si stabilisce una vera uguaglianza antigerarchica tra tutti gli esseri: umani e no, minerali e vegetali, realtà visibili e invisibili. Tutto si regge sulla mutua collaborazione e sull’autogestione radicale del comune, fuori da ogni apparato di stato.

Note

Note
1Boris Buden, in Opening Up History, Marta Dziewańska in conversation with Boris Buden, in Springering, isuue 2/16, Parallax Views., 2016
2Catherine David, Documenta X, Introduction, Short guide, 1997.
3«East» as Geopolitical Category, Nataša Ilić and Peter Osborne in Conversation, in Springering, isuue 2/16, Parallax Views, 2016.
4Živko Grozdanić Gera durante il talk inaugurale seguito all’opening.

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