Varcare i confini della paura

Per un'etica partigiana del desiderio

Alfredo Jaar Be Afraid of the Enormity of the Possible (2015)
Alfredo Jaar, Be Afraid of the Enormity of the Possible (2015).

Se il Ministro della Paura (già anni fa Antonio Albanese chiamava così il titolare di un dicastero) è oggi Matteo Salvini, il filosofo della paura è da sempre Thomas Hobbes. Lo ha ricordato anche di recente Rocco Ronchi: l’autore del Leviatano è il solo a non mascherare il potere, il peso, la posizione centrale in ogni comportamento umano di questo sentimento costitutivo1. Hobbes aveva anche intuito che l’unica strategia per difendersene è contrastarla con altra paura. Per dirlo con i termini della logica immunitaria proposta da Roberto Esposito, da essa ci si vaccina ancora e solo con la paura. Da Hobbes in poi, il compito dello Stato moderno è consistito nel proteggere i propri sudditi, garantendo loro innanzitutto sicurezza. Se invece la paura è il sentimento diffuso dominante, significa che lo Stato non espleta sufficientemente uno dei suoi compiti essenziali.

L’insicurezza percepita dai cittadini può dipendere da una minaccia interna o da una esterna. In quest’ultimo caso, significa che lo Stato non riesce a far osservare i propri confini contro chi non solo li pressa, ma li varca e li infrange, sia esso il nemico o un’epidemia. La necessità di confini statuali nasce proprio dal dovere di tutelare i cittadini: solo se il confine è certo, lo Stato può farlo rispettare. Solo se la frontiera è marcata, chi ne è al di qua può dirsi al sicuro. C’è poi un’altra condizione che può essere vissuta come intimidazione, questa sì propriamente «interna»: quella su cui è tornato di recente Sergio Benvenuto, per la quale il soggetto è comunque braccato dall’Altro2. Anche se il confine col mondo esterno viene sprangato, l’Altro è in grado di rendersi comunque minaccioso oltrepassando un altro limite, quello che separa il soggetto dal suo «al di qua», vale a dire il corpo stesso. Non è detto che un Governo titolare della paura non sappia far fruttare a proprio vantaggio anche questa estrema angoscia dell’Altro.

Questa materia, in apparenza stabile, è invece esposta come poche altre ai tempi. Per secoli la difesa delle frontiere e la volontà di travolgerle ha connotato la storia euroasiatica. Se il confine è una realtà relativamente razionale, risultando dall’intreccio di una molteplicità di contingenze storiche, come appunto guerre, carestie, invasioni, è anche vero che sui confini sono state sacrificate milioni di vite negli scontri tra i nazionalismi che hanno segnato la nostra storia3. Nel secondo dopoguerra, la buona volontà e gli sforzi della politica internazionale hanno fatto sì che quelle linee fossero meno marcate, che in alcune circoscritte zone del pianeta le frontiere fossero sostanzialmente superate, specie in Europa. Ma anche il più sprovveduto tra i cosmopoliti sa bene che il confine tra gli Stati potrebbe essere definitivamente abbattuto – e ciò accadrebbe in controtendenza rispetto alle propensioni più recenti – solo se il diritto s’incaricasse d’istituire un diverso spazio, stavolta sovranazionale, all’interno del quale i cittadini potessero esercitare la loro autoderminazione politica.

Resta che lo Stato moderno può esercitare la propria potestas proprio in virtù del fatto che è in grado d’intestarsi il monopolio della forza legittima su di un territorio determinato e sopra una popolazione definita, anche se ovviamente esposta a cambiamenti e fluttuazioni. Questa costituisce il suo demos, il suo popolo. Il quale, proprio in virtù di queste de-limitazioni che configurano uno spazio comune, può coralmente autodeterminarsi, qui da noi nelle forme proprie della democrazia contemporanea, liberale e sociale, nota Stefano Petrucciani. Non sempre è stato così: per esempio, del demos ateniese non facevano parte le donne, gli schiavi, i minori e gli stranieri e bisognerebbe tener sempre a mente la lunghissima storia che ha condotto al suffragio universale, specie quando oggi le tentazioni epistocratiche si fanno sentire4. Neppure oggi è così in molti Paesi del mondo, nei quali i confini costringono popoli impedendo quella permeabilità in uscita che connota in primo luogo la liberalità di un regime. Non si dimentichi che diversi muri sono stati eretti per non far scappare i propri cittadini, prima che per impedire l’entrata allo straniero.

Il rapporto tra comunità politica e territorialità è dunque questione seria, anche abbracciando un’ottica cosmopolitica, almeno fino a quando la politica globale resterà organizzata nella forma di un sistema di Stati che si riconoscono reciprocamente sovrani.

I Romani avevano parole e concetti diversi per esprimere il concetto di confine. I due più importanti erano limes, il confine come barriera, come ostacolo; e limen, la soglia della domus, quel bordo che viene continuamente superato da chi entra in casa. Che esiste per non esserci, per essere sempre travalicato. Vesta contro Mercurio. Esclusivo il limes, inclusivo il limen. Permeabile anche all’estraneo, e ai timori che l’altro genera. È quanto rappresenta anche Il primo Re, il film più recente di Matteo Rovere: tracciando il solco che lo delimita, Romolo ritaglia lo spazio politico, sottraendolo alla baraonda della violenza sopraffattrice. Solo all’interno di quello spazio, quindi di un territorio circoscritto, sarà possibile godere dei privilegi della civitas e delle regole che la comunità sceglie di darsi. Chi ne è al di fuori è, schmittianamente, nemico. Come se la politica fondasse la propria stessa possibilità, com’è noto, proprio sull’opposizione amico/nemico. Da Freud in poi, sappiamo inoltre quanto la fondazione stessa della città abbia a che fare con la pulsione di morte, quanto la sua origine sia imbricata con atti distruttivi quali lo scioglimento dei legami sociali e familiari precedenti, dei vincoli simbolici e delle istituzioni spontanee del vivere e quanto tutto ciò permanga alla base del potere civico.

Ma se il diritto di stabilire i confini del proprio territorio, e quindi del proprio demos, è un diritto di ciascuno Stato, ne consegue forse che anche il diritto di regolare gli accessi e i flussi gli appartiene – per così dire – in forza della sua natura, o si tratta invece di un diritto questionabile? In che misura uno Stato è sovrano sui propri confini? Per stabilirlo, tenendo conto delle dinamiche della globalizzazione, delle spinte economiche mondialiste e della vocazione imperiale che pure continua ad animare gli attori più potenti della scena internazionale, non si può non convenire con Petrucciani nell’avvertire sempre più l’urgenza di una sorta di «contratto globale» sovranazionale che possa essere accettato da prospettive diverse. Stati, imperi e mercati infatti non sono certamente gli unici attori, né i soli a invocare la signorìa sui confini. Oltre che delle macro entità, negli ultimi anni di nuovo sempre più gelose dei loro diritti e delle loro sfere d’influenza politica ed economica, almeno in apparenza, occorre tener conto delle esigenze dei popoli (compresi quelli privi di un proprio Stato, basti pensare ai Curdi o ai Rohingya) e degli stessi individui, latori di istanze spesso diverse sia da quelle degli Stati che da quelle dei popoli e anche dei mercati.

La globalizzazione è in grado di superare qualsiasi spazio fobico costruito per difendersi dal fuori, dall’altro, riportando l’insicurezza nel cuore stesso della città 

La frontiera della paura non coincide col confine statuale. Neppure quando lo si attrezzi e difenda con le misure più estreme e spettacolari, tangibili – come mari incontrollati per acuirne il pericolo, forme di embargo, muri e fossati – o immateriali, come le barriere di censo, lingua e cultura. La globalizzazione è in grado di superare qualsiasi spazio fobico costruito per difendersi dal fuori, dall’altro, riportando l’insicurezza nel cuore stesso della città. Se la paura dunque varca il limen e s’insedia nel contesto sociale della città, ammesso ne sia mai stata espunta, il Governo ha il dovere di rimuoverne le ragioni, ripristinando il senso di sicurezza tra i cittadini attraverso azioni puntuali ed efficaci. Se viceversa il Governo non soltanto non adempie al proprio compito contrattuale, ma paradossalmente attizza la paura con politiche che mirano a rinfocolarla – per esempio tenendo vivo il senso d’incertezza dei singoli espandendo la precarietà, invitando alla giustizia privata e a proteggersi da soli, magari armandosi – viene a contraddire la propria stessa ragion d’essere: il Governo esiste innanzitutto per sollevare i propri cittadini almeno dalle paure emergenti all’interno dei confini.

Matteo Salvini è stato capace d’intestarsi il racconto pubblico sul tema dell’immigrazione secondo il quale la nazione è ancora e sempre minacciata alle frontiere, rischiando un’invasione senza controllo che solo la fermezza del Capitano in uniforme può bloccare o differire. Ma sul piano di realtà? Secondo le statistiche ufficiali dell’Istat, gli immigrati in Italia – compresi gli irregolari – sono poco meno di 6 milioni: il 10% sul totale della popolazione. Eppure, grazie anche alla propaganda martellante, i cittadini ne «percepiscono» più del doppio, cioè il 25%, secondo un recente report dell’Istituto Cattaneo. Si tratta della dispercezione più marcata in Europa, abbondantemente superiore rispetto alla media del vecchio continente (pari al 16,7%). Oltretutto, l’errore di percezione – diciamo così – aumenta al decrescere del livello d’istruzione: per i laureati, la percentuale di stranieri sulla popolazione si attesta al 17,9%, mentre per chi ha frequentato solo la scuola dell’obbligo la percentuale balza al 28% . Cosa fa il Governo per correggere questa dispercezione e ripristinare la realtà dei fatti? Nulla. Anzi, coerentemente con i propri obiettivi, l’alimenta. Il Governo è ben consapevole che l‘insicurezza percepita è destinata a crescere nuovamente, così stando le cose, anche grazie allo smantellamento programmatico delle esperienze d’integrazione faticosamente imbastite sul territorio nazionale. Più stranieri allo sbando, più insicurezza percepita, maggiore sarà l’invocazione popolare delle maniere forti nei confronti degli stranieri e degli immigrati.

Ma davvero la paura dell’altro è ancora il sentimento dominante? Demos e la Fondazione Unipolis indagano da molti anni sulle paure e l’insicurezza che pervadono le persone e le società, in Italia e in Europa5. L’insicurezza globale è certamente profonda, specie in Italia (coinvolgendo 3 persone su 4) come anche negli altri Paesi del sud Europa, per quanto in lieve decrescita. Però, la fonte di preoccupazione maggiore è, in Italia, l’insicurezza economica (la soffrono 6 persone su 10). Mentre quella generata dalla criminalità preoccupa il 40% dei cittadini, in calo rispetto ai picchi osservati nel 2012/14. Ilvo Diamanti sostiene che in Italia ci siamo assuefatti alle paure, ormai interiorizzate: resistono, ma generano minore emozione. Ma dal momento che i Governi cosiddetti sovranisti prosperano invece proprio sull’insicurezza percepita del proprio «popolo», è evidente il loro interesse non solo a non far nulla per contrastare quel sentimento, ma ad adoperarsi piuttosto per ripotenziarne le cause, com’è chiaro dalle politiche sociali ed educative messe in campo, o meglio, non messe in campo dal Governo italiano giallo-verde.

Di fronte a stime percepite così clamorosamente errate, è inutile appellarsi alle cifre reali. Tanto meno avrebbe senso se il richiamo venisse dall’opposizione politica che non può certo illudersi di replicare al sentiment diffuso con la realtà dei dati e delle cifre, in via di pura ragione, contrastando a chiacchiere un’azione governativa che non investe un euro sull’università e la cultura, sulla scuola e sull’educazione civica, ma molti invece sulle trasmissioni trash della TV, sui social e sulle fake news. Per chi non è preda di quella narrazione, il punto non è correggerla, ma rifiutarla. Ciò non significa affatto non aver piena consapevolezza del problema dei flussi migratori, questione enorme destinata a segnare il destino dell’Occidente nei prossimi decenni e che proprio per questo ha bisogno di tutto fuorché di politiche emergenziali. Occorre però pensare fuori dai frame suggeriti dalla Destra xenofoba, cercando di offrire rappresentanza politica adeguata a una parte d’Italia diversa, alle prese con problemi altrettanto gravi, come la crisi di futuro che spinge ogni anno oltre 50.000 giovani italiani a lasciare il Paese per cercar lavoro altrove. Per loro, la parola d’ordine «prima gli italiani» non si applica.

Quest’Italia diversa e meno suggestionabile ha dato un segnale importante nel corso del primo weekend di marzo. «People – prima le persone», la manifestazione dei 250.000 a Milano e poi il milione e 600.000 che ha partecipato alle primarie del PD hanno battuto un colpo che potrebbe contribuire a indirizzare diversamente il corso della politica dei prossimi anni. Per due motivi.

In primo luogo, entrambi gli appuntamenti avevano obiettivi per: non erano soltanto reattivi, contro qualcosa o qualcuno, come oggi usa (l’immigrato, la Commissione europea, la casta, le élite), ma per. Per le persone che apprezzano la solidarietà e l’apertura agli altri, per la parità di genere, per valori secolari ultimamente appassiti ma che restano nel dna della Sinistra (lavoro, fraternità, uguaglianza, giustizia sociale, libertà, diritti, rispetto degli altri). Per il tentativo, quasi estremo, di risollevare le sorti di un partito che ha comunque la si pensi radici profonde nella società italiana ed europea. In secondo luogo, rappresentavano senza vergogna le ragioni di una parte, rammentando che la democrazia è il potere dei molti, non di tutti. Nel caso dei due appuntamenti di marzo, di quella parte che preferisce la pace, la solidarietà, l’uguaglianza, il lavoro, l’internazionalismo. Di chi spera che quella parte cresca e diventi una porzione sempre più ampia della popolazione. Ma che non sarà mai tutta la popolazione. Chi condivide quelle idee, quei valori e quegli interessi non è il Popolo, ma un’area che esprime una comune sensibilità politica e che condivide alcuni obiettivi comuni. Tendenzialmente, quella parte potrebbe dar vita a nuovi Partiti, o aggregarsi in un Partito esistente.

Partiti, non movimenti. I primi si rivolgono a tutti, rappresentando però valori e interessi di parte. Pur tendendo ad una qualche universalizzazione dei propri valori, sono consapevoli però della loro origine e del fatto che rappresentano interessi determinati che per loro natura non possono essere condivisi da tutti. Far politica, è decidersi alla finitezza, scegliere. Invece i movimenti si rivolgono a chiunque, aspirando a gettare la rete più larga possibile, in grado di attrarre l’adesione di tutti i cittadini, prescindendo dai loro interessi e dai loro valori. Anzi: la parola d’ordine dei movimenti è la rivendicazione del loro contrapporsi alla parzialità dei partiti in nome di una presunta ecumenicità universale. Ed è così che è invalsa la comica asserzione secondo la quale non esisterebbero più destra e sinistra. Non è affatto vero: come ammoniva Norberto Bobbio, chi dice di non essere né di destra né di sinistra, di solito è di destra.

L’assolutizzazione unificante del popolo, contrapposta al pluralismo della società, è il tropo strutturale del populismo 

Ed è per questo che nel corteo di Milano e in fila ai gazebo c’era molta gente, ma altra mancava. Mancava chi non condivideva quelle idee e quei valori, già di per sé distinguibili anche tra le due occasioni del corteo e delle primarie. Com’è legittimo che accada in democrazia. Perché quest’ultima è la modalità di governo in cui il potere va a una maggioranza popolare, non al Popolo. Quando Salvini urla in piazza del Popolo (nomen omen) che in quella piazza, con lui c’è il popolo, sbaglia. Con lui c’era una parte di una parte, certo oggi consistente e numericamente rilevante. L’assolutizzazione unificante del popolo, contrapposta al pluralismo della società, è il tropo strutturale del populismo, così come è stato della demagogia rispetto alla democrazia diretta degli antichi Greci6. Urbinati ricorda che la demagogia e il populismo sono possibilità permanenti in un regime come la democrazia che si basa sull’opinione e sulla parola.

La maggioranza invece è la norma del processo decisionale democratico. Si tratta pur sempre di scegliere, in politica, e la democrazia altro non è che l’articolazione di posizioni di parte. Le scelte diverse costituiscono maggioranze destinate a comporsi e a scomporsi, a formarsi e a sciogliersi. Altrimenti, s’incorre nell’errore tragico che già fu di Creonte, alle origini della Politica, convinto che il mandato della sovranità fosse il «voler fare il bene di tutti»7. Il populismo sovranista tende a eclissare la regola della maggioranza come procedura che permette di assumere decisioni particolari, a vantaggio di un dominio totalitario della maggioranza, attraverso l’esaltazione dell’opinione egemonica e identificando quest’ultima con il vero, con l’autorità legittima. L’arena delle convinzioni particolari, e partitiche quindi, dovrebbe venir spazzata via, a vantaggio – secondo i populisti – di un’unica narrazione significante, erodendo del tutto il dominio simbolico delle istituzioni e dei corpi intermedi8. L’opinione dei più diverrebbe così volontà del popolo intero, vale a dire della parte impolitica dello Stato.

Scegliere una parte, rispettando regole e procedure, non significa però accontentarsi. La politica di parte non è affatto una politica di piccolo cabotaggio. Anche se si deve ogni volta prender partito (TAV o no-TAV, acque pubbliche o private, reddito di cittadinanza sì o no), piegando necessariamente verso ciò che è possibile, sarebbe bene che a innervarla restasse sempre quella dimensione etica del desiderio che già Kant nella morale aveva scoperto come impossibile. Una dimensione del desiderio e del godimento che Freud ha poi messo al centro dell’umano, come sua verità ultima, capace di arrivare fino a sporgersi sull’orlo del reale proprio in quanto impossibile.

L’importante, avrebbe detto Jacques Lacan, è tradire con costanza i propri desideri parziali, in modo da preservare davvero il desiderio, lasciandoci attrarre da quel reale che è già sempre qui, dietro e dentro di noi, articolando quella struttura con la quale cerchiamo di avvicinarlo9. Una politica in grado quindi di varcare quegli altri, altrettanto angusti confini nei quali lo Stato tardocapitalista tenta continuamente di imbrigliare il desiderio («Cari sudditi, per i desideri ripassate più tardi!»), spacciando come godimento null’altro che le forme di consumo produttivo. E sì, perché anche del godimento autentico il capitalismo non sa proprio che farsene.

Se ci si deve accollare rinunce, sia per poter non più rinunciare. Tanto, lo si sa: regime democratico e tragedia vanno insieme, e non a caso Platone li accumunava in un’unica condanna10.

 

Note

Note
1Ronchi R., Che cos’è la paura, «doppiozero», 4/3/2019.
2Benvenuto S., Il confine tra Estia ed Ermes, «doppiozero», 23/2/2019.
3Petrucciani S., Territori, confini, migrazioni. Di prossima pubblicazione in: «Iride», 2, 2019.
4Cfr. ad esempio Estlund D., Democratic Authority: a Philosophical Framework, Princeton University Pres, Princeton NJ 2007; Brennan J (2016), trad. it. Contro la democrazia, LUISS University Press, Roma 2018.
5Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, sondaggio Demos & Pi per Fondazione Unipolis. Gennaio 2019 (n° casi: 1.012).
6Urbinati N, Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità, Università Bocconi Editore, Milano 2016, p. 189.
7Moroncini B., Diffrazioni (Due). La psicoanalisi tra Kultur e civilizzazione, fedOA Press, Napoli 2018, p. 110.
8Vedi Laclau E., La ragione populista, Roma-Bari, Laterza 2008, p. 157.
9Zupančič A., Etica del Reale. Kant, Lacan, Orthotes, Napoli 2012, p. 165.
10Come ci rammenta Bruno Moroncini, Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014, p. 111.

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