Work is a Shame

Una conversazione di Elvira Vannini con Vlado Martek

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Vlado Martek (Group of Six Authors), Poetic action Optimist Exhibition - action on the Republic Square Zagreb, 19-10-1979 - Courtesy Laura Bulian Gallery.

Elvira Vannini: La fenomenizzazione del linguaggio, della semiotica e della geopolitica sono al centro dei tuoi interessi di artista e di «pre-poeta» – come ami definirti. Quale era il potenziale radicale dei modelli estetici della «nuova arte», che avrebbe trovato un terreno fertile nel quadro ideologico dell’autogestione socialista della Jugoslavia e il cui avversario non era lo Stato, come raccontano le più tipiche narrative che riguardano l’Est Europa, quanto il vecchio concetto di arte borghese e narcisista. Tanto che ai tuoi esordi con il Group of Six Authors (1975-1984) negli anni Settanta avete praticato un atteggiamento di dilettantismo anti-estetico, anti-istituzionale e anti-gerarchico che si identificava con una «arte proletaria» (per dirla con il lavoro di Željko Jerman, tra i componenti del gruppo). Quale è stato il tuo primo approccio alla poesia sperimentale, anzi alla pre-poesia?

Vlado Martek: In Jugoslavia, un paese con molteplici e forte diversità, la scena artistica era simile a quella di altri paesi dell’Est e dell’Ovest. Dalle ingenue deviazioni, condotte attraverso un accademismo modernista, alle infinite variazioni informali fino agli inizi delle pratiche artistiche concettuali. Di tutto questo in me, giovane studente di filosofia e letteratura, in particolare, ha avuto una forte influenza il radicalismo visivo informale come lo spazio dove si toccano il mondo visuale e il mondo testuale e discorsivo dei personaggi, delle parole. Ho sentito questa osmosi come una polarità (duplice rispetto alla mia vocazione iniziale). I miei primi esperimenti con il medium poetico, sono stati compiuti sulla base della scrittura, sia sul formato di un libro, sia assolutamente fuori dal libro come, per esempio, in un poster. Poi ho sperimentato la scrittura su superfici in rilievo come specchi, vetro, carta di cellophane, invece di scrivere su supporti neutri. Incombeva il controllo, l’importanza sociale e le ripercussioni di tali scelte di scrittura. È stato una sorta di azionismo (e sicuramente di attivismo): la scrittura pubblica su vetro come il substrato trasparente invece che sulla carta come mezzo privato, non trasparente. Erano i simboli politici e sociali al servizio di un’attitudine: I WILL NOT….

EV: Con il Group of Six Authors tra il 1975 e il 1979 avete realizzato una serie di ventuno «exhibition-actions», per le strade e le piazze, nei luoghi pubblici aperti, nelle spiagge, nelle sponde del fiume o nei corridoi universitari, nei quartieri residenziali, avvicinandovi, a quella che è stata definita come la «new art practice», attraverso una posizione comune che era anti-estetica, anti-programmatica e anti-professionale nel concepire la produzione e la ricezione artistica. La prima delle presentazioni auto-organizzate dal gruppo è avvenuta la notte del 9 ottobre 1974, quando insieme a Demur e Jerman siete intervenuti in un billboard sotto il ponte ferroviario lungo il viale Savska a Zagabria e in questa azione, Jerman ha creato il suo slogan «Questo non è il mio mondo». Nel maggio del 1976 avete svolto una «azione-camminata» portando i vostri dipinti, le fotografie e gli oggetti d’arte per le strade, e in questo contesto hai realizzato una performance che consisteva nello strappare una banconota accompagnata da una dichiarazione: «A mio parere non c’è più grande contraddizione della contraddizione tra il mare come realtà e il denaro come astrazione». L’interesse del gruppo era diretto verso un concetto di arte smaterializzata, interrogando gli oggetti, le agitazioni e la gamma di linguaggi – fotografia, testi e interventi effimeri – con un approccio sovversivo contro le limitazioni sia dell’arte che del contesto sociale e rivolto a un pubblico anonimo. Mladen Stilinović ha dichiarato che una parte delle opere concepite per le mostri-azioni «non erano né prodotte, né annotate, o tantomeno memorizzate. Erano vissute con gli amici»……

VM: I miei lavori per la strada erano oggetti poetici. Attraverso loro, mi trovavo per tutto il tempo della mostra-azione a parlare con il pubblico. Questa è stata la matrice principale di ogni nostra esecuzione: la comunicazione e l’eco nel pubblico. Infatti, nel ciclo poetico Predpoezija l’esposizione sulla strada e l’importanza del dialogo con il pubblico non professionale hanno tuttora un valore incommensurabile. Ho realizzato una campagna per la poesia nei luoghi pubblici (nello spirito del lavoro di Majakovskij), riferendomi agli effetti del comportamento artistico e le idee dell’artista nel contesto del carnevale di strada. Si tratta di una grande tradizione a cui mi sono adattato. Il pubblico ha risposto attraverso tutta un’ampia gamma di reazioni dall’approvazione e perfino alla critica, spesso nella mediocre riluttanza verso il cambiamento, ma complessivamente è stato entusiasta. L’arte è cambiamento performativo e ricerca di libertà.

EV: Vorrei conoscere altre operazioni degli anni Settanta. Maj 75, per esempio, era una «rivista-catalogo» auto-prodotta insieme al Group of Six Authors: un altro neologismo per superare le forme convenzionali e istituzionalizzate di presentazione ed esposizione dell’arte ufficiale. Quando sei stato più efficace? Dopo la forte esperienza dei volantini di agitazione (in cui il paradigma estetico e sociale era un retaggio avanguardistico ancora capace di agire dentro il tempo presente) e l’iniziale distanza dalle istituzioni accademiche e artistiche, hai cambiato atteggiamento nei confronti del sistema dell’arte?

VM: Una delle azioni più efficaci e comunicative è stata la serie di agitazione poetica (1978-1979). Le tele serigrafate erano illegalmente e anonimamente incollate nel centro della città (Belgrado, Zagabria, Lubiana). I messaggi erano: «Leggete le poesie di Majakovskij», «Leggete le poesie di Rimbaud», «Leggete Malevič». E le persone scrivevano realmente nei manifesti: lo faremo, non lo faremo, ecc. Era una comunicazione perfetta in cui l’identità (o l’ego) dell’artista si manifestava con la massima discrezione. Questa è anche l’essenza della mia poetica iniziale, ma queste azioni non erano e non sono performance, perché imperava l’anonimato e l’illegalità piuttosto che l’attenzione al concetto. L’atteggiamento verso il sistema dell’arte è per natura delle cose anarchico, soprattutto se dal punto di vista di un artista rocker amante delle ragazze e del vino.

EV: Elaborando una posizione di artista e poeta sperimentale nella scena croata concettuale e post-concettuale, all’interno di uno specifico sistema di valori – la società, la lingua, il potere – il tuo lavoro fornisce un commento provocatorio e pessimista sull’assurdità di un cliché monodimensionale di democrazia, storia e multiculturalismo, occupando una zona di confine tra arte e intra-medialità. Un approccio performativo verso la semiotica, la filosofia e la poesia che è anche etico e morale, in cui non estetizzi la forma, ne mai monumentalizzi il linguaggio o le immagini….

VM: Il confine ma anche la stretta vicinanza del linguaggio con le immagini sono presenti fin dall’inizio, come elemento centrale della mia ribellione e anche innovazione (per esempio: la scrittura di slogan e poesie su vetro, specchio, carta cellophane, neve, sabbia, o nei libri intesi come oggetti…). L’impostazione di Nietzsche sulla verità come questione di prospettiva (o di punti di vista), l’elaborazione di Heidegger sull’importanza della poesia/pjesnika, queste erano le proposte iniziali per la mia avventura di un allargamento del corpo nella letteratura e nel demistificare l’ispirazione di ogni sguardo sul lavoro per distinguere la verità dalla conoscenza. Lo studio della filosofia mi ha aiutato nell’involuzione nello stato linguistico e speculativo verso il concettualismo. Il concettualismo era il posto perfetto per espandere il corpo della poesia e la demistificazione dell’ispirazione e quindi individuare la prospettiva da cui osservare il lavoro. La ricerca della poesia e della coscienza sono state la spina dorsale su cui si è fondato all’inizio l’approccio al mio lavoro (e certamente ho ampiamente studiato i testi di Valery, Majakovskij e Bachtin).

EV: L’attitudine a ridurre il testo ad una dimensione pre-linguistica, in cui la scrittura è smontata nei suoi idiomi di base, mostra la potenza pura della rappresentazione come tale, ossia come azione significante ma anche fonetica, testuale, grafica. Il tuo interesse per la politica delle forme artistico/poetiche, mette in discussione tutti i confini di campo della poesia, ampliandoli in una direzione che la poesia tradizionale non consente. L’atto stesso di fare poesia, si scontra più con l’etica che con l’estetica. Mi racconti di questo rifugio della poesia nelle arti visive?

VM: Certamente l’arte è una legittima ed esclusiva area di libertà. Ma all’inizio c’è qualcosa di più profondo. Abbiate il coraggio di essere liberi, e il coraggio di sapere. Dunque prima il coraggio e la decisione. Questo è alla base di ogni buona arte e di ogni artista. Uno dei miei slogan dice: «Qualsiasi cosa facciate, siate coraggiosi come gli artisti». Questo è il paradigma. Un territorio immaginario di libertà attraverso l’arte è un inizio direi al di sopra del reale, completo. Certamente è un principio anche se esistono artisti che sono canalizzatori di questa libertà ma anche grandi codardi, che creano per la mappatura del proprio ego. I confini di campo della poesia sono barlumi di etica, propulsivi come le più difficili verità sul senso stesso del produrre opere d’arte. Il ritirarsi, piuttosto che espandersi nel campo delle arti visive deriva da questo. Inoltre, lo spirito del tempo ha dato alla poesia visiva e concreta una spinta potente a partire dagli anni Cinquanta e ha offerto ai poeti inquieti, o a coloro che possiedono la vocazione poetica, la possibilità di uno scambio e non la lettera morta o l’equità nei libri di poesia, che quasi nessuno ormai legge più. Tra l’altro, una nota biografica: ho lavorato 37 anni come bibliotecario, e conosco la verità sul campo, in prima persona intendo.

EV: Hai scritto: «Il lavoro è una vergogna». La liberazione del tempo umano dalla schiavitù del lavoro salariato, teorizzato e praticato soprattutto dall’area operaista come un’arma mortale contro il capitale, è una categoria politica. «Economia del tempo, a questo si riduce, in definitiva, tutta l’economia», diceva Marx, così l’azione del capitale non si esercita più solo sulla fabbrica fordista ma nel governo assoluto del tempo della vita. Che cosa significa questo concetto di «rifiuto del lavoro» – penso anche a un’opera di Mladen Stilinović con uno slogan attribuito a Marx «Il lavoro è una malattia» – rispetto alle ideologie dominanti della società socialista e poi post-socialista? E oggi che questa posizione coincide con il valore del lavoro artistico dematerializzato, è ancora possibile una creatività costruita su un tempo non alienato, su un tempo liberato dall’insistenza capitalista sulla produzione così come dalla glorificazione comunista del lavoro?

VM: Lavorare è vergognoso, ho detto e dirò ancora. Risponderei con alcuni dei miei slogan: Per ogni cosa che avete, oppure comprate, scrivetene il nome; Non sono pazzo a scrivere canzoni borghesi; Fanculo alle opere d’arte di cui ti devi tormentare; Se scegli, tra Dio e le donne, scegli una donna; Più sesso – meno lavoro; Paese, ti strappo l’artisticità; Calmati cara, l’avanguardia non è un miracolo; Paese bugiardo; Politici, uccidetevi tra di voi!; L’arte ha i suoi limiti, questa è una determinazione filosofica per proteggersi «dal cattivo infinito» (Hegel). Idealizzando il confine tra arte e vita. È bene che l’arte ritorni da una cultura in sé, l’arte. Questo sarà il jolly per molte buone transizioni.

EV: Credi che un artista abbia una sua responsabilità radicale in queste «buone transizioni»? Un artista cinico che, per autodifesa, insegue la commercializzazione pur essendo consapevole della propria natura ideologica che posizione assume nella società? Mi riferisco a un tuo testo del 1996 dal titolo «Artista, uomo romantico»…

VM: Come ho notato il ruolo dell’arte ha indebolito la crescita della ribellione, e la convergenza di arte e vita nell’inutilità della cultura. Nei suoi confini l’arte è un ghetto con una potenza accumulata, con elementi riconosciuti e distintivi per la diffusione della libertà, come la produzione di ego-interessi e degli interessi del paese per liberare l’arte dal fottuto mercato… Dunque molta di questa nuova arte deve essere eliminata per rendersi conto che non è altro che un surrogato di libertà. L’impero. Suona come una cospirazione, ah, ah, ah, ma non è proprio così. Diciamo che vi è anche una distinzione spirituale.

EV: Come si sono evolute le tue idee politiche? Le strategie caotiche come risposta alle logiche economiche neoliberiste mirano a capitalizzare non solo lo spazio, ma anche le relazioni sociali. Se è vero che tutte le attività culturali riflettono il sistema economico dominante quale può essere l’alternativa?

VM: Naturalmente è il momento per tanti tipi di alternative. Per una rappresentativa, in quanto la coscienza dell’autocensura della produzione di opere d’arte, per favorire atteggiamenti di interessi pubblici e politici cancellati dalle élite che sono non spirituali ma ambiziosi nel promuovere gli ideali culturali. Quali sono le relazioni tra pratica artistica e processi sociali, potrebbe essere la domanda per un saggio, per un libro intero. Da tutta questa proposizione fuoriesce una piccola ambizione e un grande scetticismo. L’arte infatti è rivolta a individui che hanno interessi particolari, direi spirituali. Ricorda che tutti i giganti del XX secolo sono stati coinvolti in tradizioni e pratiche spirituali: Malevič il misticismo ortodosso, Duchamp l’alchimia, Mondrian la teosofia, Klein con Rosae Crucis, Beuys con l’antroposofia, Rothko lo Zen, e così via. Un artista è un esempio di vita transitiva e di pratiche interstiziali coinvolte nella diffusione di libertà positiva. Richiamando i parametri spirituali della pratica che sostiene un artista, la metanoia svolge un ruolo attivo in questa posizione di ritiro (è riconosciuto come quello dell’arte sia un lavoro di sublimazione e simbolizzazione).

EV: «Qualsiasi cosa facciate, siate coraggiosi come gli artisti»: cosa mi racconti della performance che hai realizzato per l’opening della mostra Modernità Non Allineata, presso FM Centro per l’Arte Contemporanea?

VM: Sì, ho indossato una maschera e questo significa ironia, umorismo, distanza verso la mia stessa presenza personale (vale a dire, il testo scritto nella maschera esorta al coraggio ma il coraggio è oscurato dalla maschera). Una passeggiata attraverso la mostra e in mezzo al pubblico produce un’interferenza nella comunicazione. Si tratta di una parte essenziale della mia poetica. Naturalmente, se il clou del paradigma è «artista = coraggio», il lavoro è un idealismo, e credo possa essere efficace come postulato etico. L’ambizione è che l’arte possa diventare un fattore sociale attivo e una sorta di specchio della coscienza e della libertà. Con l’esecuzione di una serie di azioni in occasione dell’opening della mostra, in cui ci sono già le opere e gli artisti che testimoniano il coraggio (esperimento, immediatezza, utilizzo del corpo…), si riduce il tempo dell’atto di scambio con il pubblico.

Traduzione Maria Vittoria Perrelli Kovać

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