Immanenza e politica, crisi di un rapporto
Almanacco di Filosofia e Politica
L’Almanacco di Filosofia e Politica (Quodlibet, 2019), diretto da Roberto Esposito, sarà presentato giovedì 16 maggio alle 17.00 a Villa Mirafiori (via Carlo Fea 2, Aula IV) all’interno del Seminario permanente di Filosofia Teoretica dell’Università di Roma La Sapienza. Intervengono Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Marcello Mustè, Mario Tronti, Elettra Stimilli. Modera Roberto Ciccarelli. Qui anticipiamo un estratto dell’introduzione dei curatori del primo numero, dedicato alla Crisi dell’immanenza.
Perché i conflitti che ci interessano significano solo se stessi, perché il Ruanda, la Jugoslavia, le primavere arabe significano solo se stesse, sono eventi illeggibili, pure vittime, mentre la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa, anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia. Per questo guardo il viale e passo ad argomenti prossimi, per questo voglio sentirmi credibile e presente – i miei problemi, la forma dei suoi occhiali, la chemioterapia di un amico, la gravidanza di un’amica, un altro neonato. Ci salutiamo così.
(Guido Mazzoni, Angola)
1. Dopo il ’68
Sul piano della teoria la spinta propulsiva del Sessantotto sembra essersi esaurita. L’immanenza, e la ricerca di una politica radicata in essa e solo in essa, hanno visto venire progressivamente meno la loro funzione. Si è consumato così un grande progetto di liberazione. Quello sessantottesco è stato, se colto da questo punto di vista, il tentativo di costruire un pensiero del tutto privo di gerarchie: condizione ritenuta essenziale per la creazione di un mondo radicalmente egualitario. Di qui l’immanenza come, ad un tempo, premessa e fine del lavoro filosofico, depurato di universali sovraordinati o di fondamenti celati sotto la superficie del visibile. Questo tratto complessivo assumeva tuttavia due accezioni in parte divergenti: da un lato riprendeva la sperimentazione delle scienze umane del dopoguerra, tesa nel suo insieme a pensare sistematiche del tutto orizzontali, ma pur sempre sistematiche. Un’eredità modernista ancora persuasa della possibilità di un ordine egualitario, che ordine restasse. Dall’altro si apriva a un processo poi risultato prevalente, almeno in ambito continentale: la distruzione di tutti gli assoluti filosofici che non fossero la singolarità isolata e quasi tribale visibile ancora oggi, in un movimento di pensiero libertario che ha teorizzato la disseminazione e la proliferazione delle differenze, approssimandosi alla decostruzione complessiva dei fondamenti della tradizione filosofica. Su una dotazione di senso egualitaria ha così prevalso la superficie dispersa. Sul piano politico questo è progressivamente divenuto l’ideale regolativo guida ma anche l’obiettivo pragmatico da conseguire.
Nel corso del tempo questa prevalenza ha prodotto un cambio di segno del processo in corso, che è stato assunto e non rigettato dal potere. Il rifiuto dell’autorità si è trasformato in individualismo possessivo, l’abolizione di ogni orizzonte complessivo in presentismo immutabile, la valorizzazione delle differenze nella soppressione di ogni soggettività collettiva. La confisca di un processo dunque, piuttosto che un suo vizio di forma.
Il dispiegamento compiuto degli effetti di questa vicenda teorica e politica sembra però oggi avvicinare il suo esaurimento. E, forse, le condizioni per un suo superamento. Se si dovesse indicare una data, del tutto simbolica, in cui tale scarto si è dato, si potrebbe fare riferimento alla crisi economica del 2008 e al decennio che ci separa da essa. Una crisi che ha riportato alla luce la forza dei determinismi dell’economia in quanto quadri impersonali a forte presa collettiva, rispetto ai quali l’immanenza delle singolarità disperse si trova in posizione di strutturale subalternità. Determinismi che nel corso di un trentennio hanno prodotto uno stato di individualizzazione radicale privo di cornici condivise per l’interpretazione e l’organizzazione del presente. Per queste ragioni negli ultimi anni si è talvolta parlato di «momento Polanyi», a richiamare la tesi dell’autore de La grande trasformazione secondo la quale la vicenda politica del Novecento avrebbe trovato origine nell’esigenza condivisa di ordine e protezione rispetto alle forze destrutturanti del mercato libero. Sebbene il passato non sia mai del tutto sovrapponibile al presente, la vicenda filosofica, e dunque regionale, dell’immanenza come progetto teorico-politico d’insieme sembra rappresentare un aspetto di queste trasformazioni della contemporaneità. Forse non il meno rilevante.
Naturalmente un tale sviluppo, pur relativamente anonimo, è stato orientato da interessi e poteri, ha favorito parti e gruppi sociali, ma ha, per così dire, prodotto l’immanenza pura come suo effetto, come percezione di una condizione collettiva, rovesciandone lo spirito emancipativo d’origine. Se, dunque, l’immanenza radicale è la nostra specifica condizione, ed è uno stato di soggezione, non si può pensare di rispondervi con l’immanenza stessa.
2. Crisi dell’immanenza
Questo volume muove dalla constatazione di una crisi delle prospettive immanentistiche, in particolare sul versante della riflessione politica. In prima battuta questa crisi risulta chiara a partire dall’apprezzamento di alcuni effetti che tali posizioni tendono a sviluppare.
Il più noto e discusso tra questi è dato dalla difficoltà nel rintracciare una effettiva politicità del discorso filosofico, a teorizzare insomma uno statuto della politica. Se infatti l’immanenza, l’atto del pensare senza fondamenti e senza universali sovraordinati, prescrive l’installarsi su un piano del tutto orizzontale e unificato, non appare chiaro come individuare l’avversario cui opporsi, l’ordine da costruire, il settore sociale da rappresentare, l’azione da compiere. Un primo effetto delle prospettive immanentistiche è dunque la trasformazione della politica in un’etica rigorista, ossia in un semplice dover essere. Al limite è possibile pensare il gesto politico come disattivazione o destituzione di tutto ciò che non si pone immediatamente sul piano dell’immanenza stessa, sia esso un potere trascendente o un’origine profonda.
Il potere, nel suo anonimato che è non raramente sinonimo di ubiquità ed equivocità (il potere è dovunque e, potenzialmente, ogni cosa), diventa così l’obiettivo polemico di queste opzioni teoriche, la loro alterità radicale. Il che dà luogo a un esito paradossale all’interno di prospettive che si vogliono rigorosamente monistiche – dunque centrate su un piano unificato e omogeneo –, ossia il risultato di una concezione rigidamente dualistica del rapporto tra il potere e la soggettività politica. Variamente nominato e strutturato, tale rapporto designa sempre una pura affermazione della soggettività esterna al potere. Cui segue una immagine di quest’ultimo quale parassita della società, agente di repressione della potenza di questa, sfruttatore del- la sua capacità cooperativa in linea di principio autonoma.
Pertanto il potere, entro tali dimensioni votate all’immanenza, permane sempre come una istanza esterna all’azione della soggettività. Non può, in altre parole, mai essere conteso, disputato e tantomeno egemonizzato o conquistato, pena il tradimento dei fini originari dell’azione politica stessa. Radicalizzando e deformando le tesi delle teorie novecentesche del totalitarismo, queste posizioni assumono ogni potere come tendenzialmente totalitario, producendo forme di storicizzazione e genealogie che ne rintracciano la cifra intimamente autoritaria, di volta in volta alle origini dell’esperienza politica occidentale o nella genesi della sovranità moderna. Un potere spesso identificato con la statualità nazionale, secondo il retaggio di esperienze come il maggio parigino e la strategia della tensione italiana, al quale è dunque possibile unicamente sottrarsi, nella forma attiva della destituzione o in quella passiva dell’esodo, precludendosi ogni eventualità di nuova e diversa istituzione. La prospettiva dell’immanenza relega così la soggettività e la sua azione sempre ai margini della storia e della politica: anche laddove viene pensata come apice di un processo che contribuisce a orientare, essa rimane sempre parte maledetta, pura potenza, incapace di costruzione politica e trasformazione storica.
Al di sotto di tali fenomeni di superficie si notano però alcuni movimenti profondi, almeno parzialmente alla base di questi esiti. Complessivamente essi appaiono parte, localizzata e recente, di un processo consolidato nell’ambito della filosofia continentale del ventesimo secolo: la critica generale e necessaria di ogni dotazione comprensiva di senso dall’ambizione sistematica. Come detto, se ancora una temperie come quella strutturalista o posizioni proprie della tarda Scuola di Francoforte maturavano nei Sessanta una critica dei sistemi classici di impianto dialettico in vista di un diverso pensiero della totalità o di una trasformazione del ruolo della negazione, dopo il Sessantotto si assiste, con differenze anche marcate, a un movimento di rottura delle totalità e dei sistemi complessi, in vista di una dispersione colta come innovatrice e liberatrice.
Di qui, nel circoscritto ambito della riflessione sulla politica, l’affermarsi delle autonomie della politica e del sociale, nel convergente sforzo di valorizzazione del ruolo proprio dell’ambito politico separato per un verso dai determinismi dell’economia e della società e, per l’altro, pensato oltre ogni approdo costituito. Ancora, la tendenza alla diffusione della politica oltre i suoi confini tradizionali dello Stato e delle istituzioni: una politica colta nelle relazioni microfisiche entro la società, nelle gerarchie della famiglia e del privato, così come nella strutturazione propria dei saperi e nel campo della teoria. In- fine, una politica autonoma e ubiqua che si presenta come univoca, che viene detta in un solo modo. Lo sforzo di radicare la politica sul piano d’immanenza ha così prodotto una equivalenza tendenziale tra teoria e pratica, strategia e tattica, pensiero e azione, privando di valore ogni riflessione sistematica e complessiva su di essa.
Dall’impossibilità di definizione adeguata del suo statuto, descritta in avvio, si giunge così al venir meno di un orizzonte generale in cui includere la politica. Esito radicale in cui le azioni, le soggettività, i conflitti, significano solo se stessi e sono dotati di valore unicamente quali manifestazioni provvisorie e superficiali di un’immanenza pura.
3. Pensare la politica
Il portato più profondo di questo tipo di posizioni è dunque uno schema dicotomico attraverso cui viene pensata la politica. Quest’ultima è descritta come lo scontro tra due poli contrapposti i quali possono essere declinati attraverso figure diverse. Si hanno allora il potere costituente contro il potere costituito, l’affermazione contro la negazione, la democrazia insorgente oltre lo Stato, la politica contro la polizia, la resistenza prima del potere, il potere destituente contro l’istituzione, l’evento senza la forma. È uno dei due poli, poi, a venire di volta in volta assunto a valore e fine. L’attenzione è così posta sulle capacità costituenti di soggetti in grado di combattere o eccedere l’istituito, o affidata al ritiro in un’inoperosità che abbandona una dimensione sociale considerata ormai muta.
L’opera di Niccolò Machiavelli è stata non raramente il terreno d’affermazione di tali istanze. L’opposizione proposta nel Principe, nei Discorsi e, diversamente, nelle Istorie fiorentine, tra gli umori dei Grandi e della plebe, è stata la base di una diffusa letteratura pronta a leggervi l’eccedenza del potere costituente, la produttività del desiderio di libertà su quello di oppressione, del conflitto sull’ordine. Il noto elogio dei conflitti del Segretario fiorentino, allora, è divenuto apologia dell’insurrezione, dell’evento contro la forma. Il risultato: un Machiavelli radicalmente democratico primo promotore dello schema dicotomico attraverso cui pensare la politica. Si dimentica però, in questo modo, come la negatività del conflitto divenga produttiva, per il Segretario, nell’incontro con gli ordini, con un sistema complessivo. Si elide così il ruolo della legge e della creazione di ordini nuovi, da cui dipende la dimensione effettuale del conflitto. I più accorti tra questi studiosi sono ovviamente coscienti di tali aspetti dell’opera machiavelliana, ma non rinunciano del tutto a integrarli in uno schema dicotomico. L’esigenza, talvolta presente, di dare conto della reciproca implicazione di ordine e conflitto non è spesso sufficiente a impedire la riattivazione di un modello di tipo dualistico. Ecco allora la politica che si erge contro la polizia, la democrazia insorgente contro lo Stato, l’azione come capacità di avviare un processo completamente nuovo. La politica è così ridotta all’evento, a un momento di affermazione temporalmente circoscritto preceduto e seguito dalla stasi oppressiva del costituito.
Tale schema è strettamente legato a un certo linguaggio assunto dalla tradizione, da cui emerge qualche cosa come un’impasse, niente affatto temperata da esauste e anacronistiche letture di orientamento liberale. Ossia la percezione di un pensiero attardato, di un intero apparato concettuale immobile nel tempo, fermo a una storia che si può dire in buona parte consumata.
Il tentativo di questo volume e della ricerca che lo ha prodotto è dunque superare questo schema di pensiero e l’opposizione binaria che lo comanda, cercando di ripensare il rapporto tra teoria e politica. Condizione necessaria e preliminare di questa ipotesi di lavoro sembra essere un nuovo esame critico delle categorie ereditate, anzitutto quella di immanenza, attorno a cui si è costruita una parte non trascurabile del pensiero politico continentale negli ultimi decenni. Non si tratta di respingere una tradizione, quanto di individuarne sviluppi differenti che alludano a nuove interpretazioni. Una riflessione in grado di render conto della coimplicazione permanente attraverso cui si costituiscono il sociale e la politica, abbandonando autonomie e pure immanenze. Rimettere, insomma, il pensiero alla prova dei suoi pre- supposti per trovare significati più adatti a comprendere e criticare il nostro tempo. Dotandosi così di un orizzonte costruttivo in grado di pensare l’incontro differenziale tra azione politica e congiuntura in ordini e istituzioni. Un lavoro di lunga durata, aperto nei suoi sviluppi e di cui si presentano qui appena gli esordi.
4. Il seminario permanente
Questo volume è il frutto del lavoro collettivo condotto nell’ambito del Seminario permanente di Filosofia e Politica, nato a Pisa nel 2017 dalla collaborazione di studenti, dottorandi e ricercatori della Scuola Normale Superiore, dell’Università degli Studi di Pisa e della Scuola Superiore Sant’Anna. È il risultato di un anno di dibattiti e discussioni tra metodi e percorsi differenti mossi da una medesima esigenza: quella di chiarire il rapporto tra filosofia e politica. Per questa sua conformazione, per il modo stesso in cui è nato, il Seminario non si fa portatore di un punto di vista unitario. Esso è piuttosto l’incubatore di un dibattito che è riuscito a individuare una problematica e un orientamento: una critica del nesso, troppe volte scontato, tra immanenza e politica. Nessuna strategia d’intervento condivisa, ma la produttività teorica che nasce dall’interferenza e dalla contaminazione di ricerche anche lontane, di cui non è dato di prevedere in anticipo la direzione e l’esito.
Un atteggiamento che si riflette nell’Almanacco di Filosofia e Politica qui presentato. Il primo di una serie che cercherà di dare forma scritta e coerente al lavoro che, durante l’anno, viene condotto nel Seminario. La sua eterogeneità, la pluralità di prospettive anche distanti, riflettono la necessità di aprire un dibattito, di segnalare un problema intorno alle modalità con cui oggi la teoria pensa la politica.
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