Lottare contro se stessi *

1.182,5 kW h

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Attributed to Gianluca Belloni presently 86,90 kW h stringifascine, from left to right: n.1, n.2, n.3, n.4, n.5, n.6 - Galleria Le Vite (2019).

La riflessione che pubblichiamo nasce dalla mostra che lo stesso autore, l’artista Gianluca Belloni ha allestito presso la Galleria Le Vite a Milano. Il titolo, 1.182,5 kW h, è la quantità di energia termica che si libera sfruttando la combustione di una cubatura di legno di 293 x 545 x 4 cm. Le opere in mostra sono semplici gruppi di legni di uguale misura (293x4x4cm) ricavati dalla scomposizione in senso verticale di una tavola di larice delle stesse dimensioni (293 x 545 cm) che sono le dimensioni dell’opera Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. Parte dei legni sono stati raggruppati e sospesi attraverso la pressione esercitata da sei stringi fascine applicati al muro. Il riferimento all’opera di Pellizza ricorda che quest’ultima si può considerare come un esempio in cui la preoccupazione dell’artista per la destinazione e la fruizione determinano la corporeità dell’opera. La superficie così voluminosa dimostra la volontà irremovibile dell’autore di escludere un possesso privato e la sua collocazione in un salotto. Per finire, tutte le opere in mostra sono soggette a delle particolari Condizioni Generali di vendita, che si possono leggere per intero qui. Le caratteristiche principali di queste Condizioni Generali si concentrano in particolare modo nel passaggio numero 3 di questo documento, nella quale sono affrontati i temi sul Diritto d’autore e la Paternità dell’opera. Questo punto recita che l’acquisto dell’opera comporta che su espressa volontà e relativa autorizzazione da parte dell’artista i Diritti morali vengono espressamente attribuiti in capo all’Acquirente. Significa che l’acquirente dove persone fisica e/o giuridica dovrà acquisire oltre che i diritti di carattere patrimoniale anche i diritti morali, diventando a tutti gli effetti autore dell’Opera e conseguentemente gli verrà attribuita la paternità della stessa. Queste Condizioni Generali vengono suggellate vincolando le parti alle relative obbligazioni da un Contratto sottoscritto dall’artista e dall’acquirente. Il contratto responsabilizza l’acquirente in quanto essendo a tutti gli effetti non solo il possessore dell’opera, ma anche l’autore, sarà di conseguenza l’unico a poter usufruire dei diritti morali connessi quindi a gestire e salvaguardare la vita dell’opera nel suo stesso interesse, abbattendo una forma di possesso distaccata e disinteressata. Quanto all’artista, il contratto non gli permetterà di accumulare valore e forme di dominio sul suo lavoro.

Mario Tronti in Lotta contro il lavoro! contenuto in Operai e capitale del 1966 ribadisce che si parla di «lavoro» come «classe contenuta nel capitale»1, di individuo contenuto nel sistema in quanto produttore. Dunque non si tratta più di lavoro contenuto nella merce prodotta, quanto piuttosto di lavoro contenuto in se stesso, nel suo essere forza lavoro.

Questo paradigma spiega quanto «l’essere dentro» fosse in quel momento l’estrema forma di produttività raggiunta dal sistema capitalistico. Testimonianza evidente di tutto ciò sono gli scioperi, astensioni collettive dal lavoro; l’individuo si riconosceva come energia utile al funzionamento della macchina e al mantenimento della struttura. Scioperare era «negare se stessi», «porsi fuori», avendo compreso l’impossibilità di scindere se stessi dal proprio operare. Produrre significava dunque «partecipare alla costruzione della storia». Si trattava di una vera e propria produzione attraverso l’esistenza che avveniva simultaneamente dal momento in cui si assumeva un ruolo dentro quell’assetto. L’essenza umana stessa era riconosciuta come un prodotto del lavoro e quindi immanenza nel mondo del lavoro. La produzione capitalistica era mossa da una precisa idea di sviluppo retta su delle opposizioni binarie, dettata da dualismi. Dalla scienza all’industria, dalla geografia all’arte, la produzione si concretizzava nella tensione dialettica fra un dentro e un fuori, fra nuovo e vecchio, fra prima e dopo, fra evoluto e obsoleto, fra ciò che c’era e ciò che ancora non c’era.

Le risorse umane e le energie venivano impiegate, investite e sfruttate per un processo produttivo teso a compiere un passaggio in avanti, un superamento nei confronti di ciò che già esisteva. Tale sviluppo ricadeva in un accumulo di ricchezza di natura sociale, un avanzamento della civiltà, essendo vivide le forme di rappresentanza, i corpi intermedi, le identità nazionali. La modernità fu il serbatoio dentro cui quei traguardi si accumulavano e che contribuirono in maniera determinante alla creazione dell’identità di tutto l’Occidente. Non fu una realtà pacifica, bensì la pietra angolare su cui poggiava la creazione di un monopolio e di una sovranità culturale considerando che buona parte di quella modernità si era costituita attraverso lo sfruttamento, dentro e fuori i suoi confini.

Il fenomeno dello sciopero rappresenta, dunque, non solo l’astensione dell’uomo dal lavoro, ma l’astensione dell’uomo dalla produzione della storia, che fu il movente di quello sfruttamento per l’accumulo di progresso e la creazione di un’identità istituzionale posta al di sopra di ogni singolo. Queste forme di opposizione e di rivolta insorsero per un dilagante sentimento per cui produrre significava compiere sforzi e sacrifici inauditi per interessi non propri. Cos’è lo sfruttamento se non questo? Cos’è, se non togliere la proprietà al lavoratore sul proprio lavoro, subordinarlo, porlo al servizio di qualcun altro che non sia lui stesso? Questi uomini e queste donne hanno coltivato l’idea che nulla potesse rimanere nelle loro mani, che nulla di quello che producevano potesse accrescerli in quanto cosa non loro. L’alienazione è il risultato del rapporto, o meglio del non rapporto, con le cose che a quest’ultimi sono state tolte, ma che tuttavia gli sarebbero spettate.

Gianluca Belloni, Installation view (2019).

Dalla fine degli anni Settanta, Francesco Matarrese (Molfetta 1950) è in «lotta contro se stesso»2. Nell’arte risulta essere una delle testimonianza più chiare dello spostamento da lavoro (opera/merce) a forza-lavoro (artista/operaio). La sua presenza è la massima forma di espressione resa attraverso la «non-partecipazione» in quanto azione riconosciuta come una produttiva presenza dentro ad una totalità. La sua negazione divenuta celebre con il «Telegramma di rifiuto» del 1978 è resa visibile grazie a quella tensione dialettica tra dentro e fuori discussa prima. Il suo non-esserci è un’azione linguistica, una forma di vita produttiva («dare senza più dare») al di fuori di quella imposta come l’unica. Quel «lottare contro se stessi» di cui Matarrese ha parlato nella pubblicazione Greenberg and Tronti: Being Really Outside? come contributo a Documenta13 può essere parafrasato in «lavorare a qualcosa di totalmente proprio», quel «se stesso» contro cui lotta indica qualcosa di non suo. Il resistere nel suo rifiuto apre e costituisce un dimensione totalmente parziale, una «verità assoluta di parte». Devia quell’energia che da ognuno veniva estratta per l’accrescimento di quell’identità autoritaria, istituzionale, «assoluta in generale» posta al di sopra del singolo, verso la propria e individuale.

Lottare «non» per se stessi

Il completamento della modernizzazione afferma la fine delle opposizioni binarie, o per lo meno le indebolisce notevolmente. In termini di produzione la fine della modernità coincide con il passaggio da una dialettica qualitativa ad una di tipo quantitativa. Allo stesso modo lo sviluppo è riconosciuto in termini di «accrescere il più possibile ciò che già esiste», abbandonando il «rinnovamento» che caratterizzava lo scambio tra vecchio/nuovo, esistente/non-esistente. Una superficie uniforme, libera dalle divisioni dualistiche sostituisce gli spazi circoscritti della modernità. Non vi sono più confini apparenti tutto è riportato alla singolarità dell’individuo. In questi termini vien da sé che nella produzione, l’atto cumulativo risulta ancor più evidente. L’energia prodotta è privata e viene immagazzinata per poi essere sfruttata, ricapitalizzata per produrne di maggiore. Ne consegue che tale produzione per essere compiuta debba rimanere indiscutibilmente nelle mani del produttore stesso, dato che produzione e accumulo sono l’una la conseguenza dell’altro. Lo sviluppo, in termini di quantità, è raggiunto attraverso la creazione di un monopolio individuale sui beni prodotti e, di contraltare, attraverso un sacrificio calcolato, una privazione consapevole nei confronti dell’altro.

In quest’ottica, l’isolamento è una condizione necessaria alla produzione stessa e non si traduce nella semplice mancanza di partecipazione alla società, ma è esclusione dalla società. Non è un dato negativo ma affermativo. Non capita di rimanere esclusi ma lo si subisce da un atto relazionale ben specifico. È un’esclusione che deriva dal comando, dalla volontà di mettere fuori per il mantenimento di determinati standard. Le forme di rappresentanza scompaiono. L’unitarietà costituita dall’idea di «popolo» – realtà attivamente presente nell’epoca moderna – esce di scena. Quell’identità collettiva sfuma nella «massa», soggetto estremamente ingannevole. La «massa» è quella realtà in cui i caratteri e le funzioni delle principali forme associative e identitarie sono sempre meno visibili e sempre meno rilevanti, mentre prevale una caratterizzazione individuale in senso stretto, di singolo individuo accanto a singolo individuo. In ogni sua manifestazione è presente una componente mentale totalitaria: essere per sé quel che si è, e basta3, testimoniando l’estrema difficoltà che c’è nel rivedersi nell’altro, non a causa della diversità incommensurabile, ma per la paura di consumare se stessi, di perdere un po’ del proprio.

Francesco Matarrese, Telegramma (1978).

Se dunque precedentemente l’alienazione era la conseguenza dell’esproprio di tutti i beni, compresa l’impossibilità dell’uomo nel possedersi, quello a cui ci si trova di fronte sembra essere il rovesciamento stesso della medaglia. L’alienazione risulta non più il rapporto tra l’uomo e le cose di cui è stato privato, ma rispetto a quello che ha e che non può non avere. Rispetto ad un dominio, il proprio che risulta essere immanente al suo spirito. L’alienazione oggi sta nell’impossibilità di creare forme di proprietà, nella schiacciante consapevolezza che «tutto ciò che faccio e tutto ciò che sono può essere solo mio, e su di me e dentro di me solo può rimanere». In un fare che non può liberarsi dal rivendicare. Tale stato d’animo prende forma dentro un circuito chiuso senza sfoghi che rende il rapporto con l’atto produttivo – e con l’altro – un rapporto sterile, autoreferenziale e superfluo. Quel «lottare contro se stessi» può essere applicabile solo se letto oggi in altri termini. Se quel «se stessi» indicava qualcosa di «non proprio», al di fuori, ora quel soggetto è «proprio» ed è dentro di noi. Si tratta quindi di compiere un sacrificio calcolato nei confronti di sé, nei confronti di ciò che si ha.

«Lottare contro se stessi» può costituirsi in un «lottare non per se stessi», «lavorare non per se stessi» e ciò non vuol dire abbracciare forme di moralismo estremo, ma piuttosto «pensare una forma di vita» cioè una vita umana sottratta alla presa del diritto e un uso dei corpi e del mondo che non si sostanzi mai in un’appropriazione. Significa pensare la vita come ciò di cui non si dà mai proprietà ma soltanto uso comune. Un tale esercizio esige l’elaborazione di una teoria dell’uso, risalendo quasi ad uno stato di natura, quando comune erano le cose e mai il loro possesso. La proprietà va gestita con animo disposto a rifiutare il dominio attraverso un rapporto intenzionato a non acquisirne la padronanza, limitandosi ad un uso che si dice soltanto di fatto e non di diritto trattando quelle cose volontariamente come non proprie»4.

Occorre compiere uno sforzo di volontà per eludere «un’alienazione del linguaggio che si fonda sull’inganno della parole individuale avendo chiaro che tale aspetto individuale e privato è determinato dal fatto che una data parola è rimessa in opera dal singolo parlante; ma questo rende individuale il lavoro del singolo parlante solo nel senso in cui è tale anche il lavoro del singolo artigiano che, riapplicando un dato modello su materiali, con strumenti e in un ambiente che sono sociali produce quel paio di scarpe […] La lavorazione, quella lavorazione, è individuale perché viene considerata individualmente; ma il modello della lavorazione è e rimane sociale»5.

* Francesco Matarrese, «Struggling against Themselves» in Greenberg and Tronti: Being Really Outside?, Hatje Cantz, 2012, pp.4

Note

Note
1Mario Tronti, «Lotta contro il lavoro!» in Operai e capitale, Giulio Einaudi Editore, 1971, pp. 259
2Matarrese, op. cit., pp.4
3Alberto Asor Rosa, «Il popolo si è dissolto nella massa», in «La Repubblica», Milano, 5 Aprile 2018.
4Giorgio Agamben, Altissima povertà: Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza Editore, 2011
5Ferruccio Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, 1968

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