Professione detective

Una filosofia del negativo

Radomir Damnjanović Damnjan, In Honour of Avant-Garde, 1973, Marinko Sudac Collection
Radomir Damnjanović Damnjan, In Honour of Avant-Garde, 1973 - Marinko Sudac Collection.

True detective è un oggetto strano e complesso. Strano perché la serie tv andata in onda sul canale HBO a partire dal 2014 – la terza e più recente stagione essendo stata trasmessa a partire dal gennaio 2019 – benché confezionata all’interno di stilemi hollywoodiani concepiti per intrattenere un pubblico molto ampio, è attraversata da atmosfere cupe e ansiogene, relativamente insolite per un prodotto di ampio consumo. Complesso perché nella messa in scena di questa tonalità emotiva non c’è il compiacimento estetizzante di chi si affaccia sulla voragine da un punto sicuro; al contrario, l’autore Nic Pizzolatto esplora metodicamente il nonsenso dell’essere al mondo, analizza quello che considera un errore dell’evoluzione ovvero l’inciampo per il quale si è formata, nella nostra specie, la disfunzione che chiamiamo coscienza, evidenzia la vanità di ogni sforzo teso a guardare un mondo assurdo attraverso un prisma di valori del tutto illusori. Le sue argomentazioni sono serrate ed esaustive: elementi estetici come le atmosfere caliginose delle wastelands in Louisiana, le musiche, le vicende torbide che compongono il plot cortocircuitano con dialoghi e monologhi che si rifanno, più o meno esplicitamente, a testi letterari, scientifici e filosofici che vanno da Lovecraft a Chambers, da Nietzsche a Eraclito, passando per la teoria delle stringhe e le Upanishad.

Insomma non è proprio di intrattenimento che si tratta: Pizzolatto vuol trattenere il suo pubblico sul divano e fargli compagnia, ma anche spingerlo in un abisso alla fine del mondo. Sono queste stranezza e complessità a fare di True detective un oggetto eminentemente filosofico, cioè una cosa concreta nella quale si cristallizzano elementi di senso, categorie per capire il presente.

Il profilo di Antonio Lucci, giovane ricercatore che ha scritto libri su Sloterdijk e Lacan, e in Germania, dove vive e lavora, si occupa di scienze della cultura, con particolare attenzione all’universo della medialità, era il più adatto ad analizzare un oggetto siffatto. Il suo libro True detective. Una filosofia del negativo, edito da poco da il melangolo, è una lettura competente e penetrante della prima stagione della serie, a dire di molti la più bella. Con una scrittura agile e distesa, Lucci dà conto di tutti i riferimenti nascosti nelle parole e nelle immagini, sviluppando ampiamente, e con notevole capacità di chiarezza e sintesi, le varie linee concettuali che si sviluppano lungo gli otto episodi. Non è però un lavoro di mera estrazione, teso a far emergere contenuti dissimulati nell’opera. Lucci, infatti, intende elaborare una vera e propria «filosofia dei media, in cui il genitivo dell’espressione va preso in senso possessivo forte: vale a dire [la] filosofia che i media posseggono, [che] in quanto tali sono in grado di veicolare tramite i loro peculiari mezzi espressivi, che – nel nostro caso – non sono quelli della testualità scritta, ma quelli di una specifica forma di audiovisivo, la serie televisiva antologica» (p. 11). La serialità come dimensione nella quale non solo si sedimentano, ma si producono raffinati contenuti concettuali: questa la tesi che anima il saggio di Lucci. Secondo il quale la serialità audiovisiva è la forma che occorre indagare per comprendere il presente, proprio come il romanzo poteva essere l’arte per eccellenza del XIX secolo, e il cinema quella del secolo successivo.

La tesi merita di essere presa sul serio. Quando la precarietà diventa forma di vita, ciò che chiamiamo arte non può avere uno spazio autonomo, puro e distaccato dalle dinamiche del quotidiano, ma deve necessariamente insinuarsi in un tempo sincopato, nel quale produzione e riproduzione si sovrappongono. Si può guardare alla serialità di oggi con l’occhio ipercritico di Adorno e biasimare quella che lui chiamerebbe industria del dopolavoro; ma si può altresì, ed è forse più produttivo, considerare questa nuova forma, estremamente agile, di intrattenimento come un modo per le soggettività contemporanee di interrompere quella temporalità completamente votata all’utile, priva di soste e scansioni ritmiche, che uno studioso come Jonathan Crary di recente definiva 24/7, proprio a marcarne il carattere totalizzante. Insomma oggi non è semplice, e forse non fruttuoso, separare il pensiero dal divertissement.

Ebbene la serie tv presa qui in esame è una filosofia, una filosofia del negativo. Come scrive perfettamente Lucci, «in tutta la prima stagione di True detective è [la] tonalità esistenziale tipica della gnosi più oscura a dominare: quella per cui non c’è salvezza possibile in questo mondo, perché sia la natura che l’uomo (inteso tanto come singolo che come collettività) sono fin dall’inizio condannati. I tre livelli – la natura, gli uomini, l’uomo – sono inscindibilmente connessi, annodati assieme nello stesso orizzonte di negatività. Se il mondo, di per sé, è un oscuro viluppo formato da un caso cieco e da una natura rappresentata come ostile, macchiata da un’ombra di marcescenza, dai tratti disumani, anche gli uomini, dal canto loro, contribuiscono a rabbuiare questo quadro già di per sé terribilmente lugubre» (pp. 43-44). Gli episodi compongono «un trattato antigenealogico per immagini in sé compiuto» (p. 108), una lucida meditazione sull’inconveniente di essere nati, per dirla con Cioran, un invito a lasciare il mondo.

Probabilmente il saggio di Lucci eccede nel lavoro di spiegazione, riportando, cioè, la fenomenologia di True detective a un’ampia costellazione testuale, che l’Autore maneggia con rara disinvoltura; d’altra parte ciò non sarebbe in contraddizione con l’assunto iniziale di una filosofia dei media, immanente a essi: ciò che ha natura mediale non può che rimandare ad altro da sé. Sicuramente, però, il saggio di Lucci si segnala per un elemento di forte originalità rispetto a una letteratura millenarista, attualmente à la page. Mentre inserisce la serie in un contesto più ampio – dando conto dei prestiti che Pizzolatto prende dagli autori suddetti, ma anche, e soprattutto, da Thomas Ligotti e Robert William Chambers – questo libro fa emergere una contraddizione che attraversa tutto lo script.

A un primo livello True detective mette in opera questa contraddizione attraverso il perfetto dosaggio degli elementi narrativi. I due poliziotti protagonisti, Rustin Cohle (un colossale Matthew McConaughey), un uomo magnetizzato dal lato oscuro del cosmo, divorato da un ineffabile cupio dissolvi, e il collega Martin Hart (il bravissimo Woody Harrelson), un perfetto Sancho Panza a riequilibrare le bizzarrie del compagno attraverso massicce dosi di senso comune, incarnano perfettamente «la dicotomia luce/oscurità, quella dicotomia che ossessionava i popoli antichi e sulla cui lotta, alternanza, separazione si basano molte delle religioni apparse agli albori della storia umana» (p. 18). La dicotomia luce/tenebra attraversa profondamente True detective, ne è un vero e proprio leitmotiv.

Ma a un secondo livello la contraddizione si fa generativa, e nel bel mezzo del negativo fa capolino un bagliore. Lucci, infatti, mette in risalto «l’etica minima» che anima il pur disilluso Rustin Cohle, un’etica che «anche nella cloaca che è questo mondo, mira a minimizzare il dolore» (p. 87). La prospettiva antiumanista di True detective non si risolve in semplice disinteresse e fuga dal mondo. Al contrario, è in questa dissociazione, «in questa Spaltung tra orrore metafisico e impulso etico» (p. 81) l’elemento più potente della serie. Il cui titolo, d’altronde, può essere illuminante. Il vero detective – questa la conclusione che si può trarre dalla visione della serie e dalla lettura del bel saggio di Lucci – è quello che non si limita a seguire le procedure standard della sua professione, ma che si appassiona ai dettagli fino a empatizzare con le persone e i luoghi in cui si imbatte.

La verità del detective non è esattamente la sua bravura, la sua produttività fatta di casi risolti: l’aspetto più paradossale della storia che si dipana lungo otto episodi è il fatto che i due investigatori, al lavoro su omicidi seriali compiuti da una misteriosa setta occultista, diventano eroi nazionali perché affrontano con coraggio una serie di vicissitudini che si stendono su un arco ventennale, ma di fatto, al di là di ottimi risultati, non risolvono il caso. Stavolta, insomma, i buoni non vincono, non del tutto almeno, e il male continuerà a fare il suo corso. Ma Rustin e Martin sono veri detective per la loro capacità di aderire a un contesto, per quanto morboso e respingente. Il loro insegnamento travalica le tecniche di polizia e parla a tutti, ha a che fare col dire sì alla vita.

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