Il Partito Nazionale della Fertilità

Capitale riproduttivo e governo della vita

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Lisetta Carmi, I travestiti, 1965-71, fotografia. Collezione privata

Gli sviluppi conseguiti nei campi della biologia, della genetica, della medicina rigenerativa, e soprattutto della medicina riproduttiva hanno via via consentito di intraprendere migliori, e più aggiornate, modalità di governo economico-politiche della vita, che fossero in grado di valorizzarla in quanto capitale umano, come fonte di plusvalore, e non solo come potenziale forza-lavoro 

Il Piano Nazionale per la Fertilità (PNF) del Ministero della Salute non è che una riproposizione esplicita dell’esercizio del controllo della popolazione di medio e lungo periodo, in chiave sia neoliberista sia neofondamentalista. E nonostante le fin troppo evidenti assonanze, come molti hanno fatto notare, con le misure mussoliniane, la popolazione è materia d’interesse della ragion di stato da molto prima del Ventennio; lo è almeno dal XVIII secolo. Da Von Justi a Beatrice Lorenzin, passando per Mussolini, tuttavia, gli sviluppi conseguiti nei campi della biologia, della genetica, della medicina rigenerativa, e soprattutto della medicina riproduttiva hanno via via consentito di intraprendere migliori, e più aggiornate, modalità di governo economico-politiche della vita, che fossero in grado di valorizzarla in quanto capitale umano, come fonte di plusvalore, e non solo come potenziale forza-lavoro.

Le tecnologie della vita, in questo senso, sono esse stesse tecnologie di potere che si rivelano particolarmente adatte a governare le trasformazioni culturali occorse in seno alle popolazioni, non solo occidentali, a partire dagli anni Settanta del Novecento. L’auto-terapia, oggi sempre più diffusa grazie agli sviluppi della medicina predittiva e preventiva, non è che una delle più subdole modalità di controllo sociale, come ci ricorda Nikolas Rose ne La politica della vita (2008). Si tratta di una tecnologia di potere che ha radici tortuose, che nasce con la cura di sé e che diventa sguardo clinico introiettato e performato dalla soggettività stessa (Foucault, Storia della sessualità. La cura di sé, 1984). Oggi l’auto-terapia coincide con l’ingiunzione a ingurgitare pillole, a tenersi in forma, a seguire una «dieta ipocalorica ma varia», nonché a sottoporsi a continui controlli diagnostici. Il Fertility Day del prossimo 22 settembre, in questo senso, non è che una grande ingiunzione a controllare il buon funzionamento del proprio apparato riproduttivo. Un’ingiunzione che è anche una messa a verifica. La governamentalità neoliberista, dopo anni di deregolamentazione e privatizzazione del welfare, e di contemporanea diffusione nel corpo sociale di norme comportamentali para-medicalizzanti, vuole oggi verificare che gli individui siano comunque in grado di garantire spontaneamente ciò che da essi ci si è sempre atteso, ossia la riproduzione della nazione, anche a fronte della precarizzazione di ogni sostegno in quella direzione.

Infatti, nonostante il governo Renzi mostri questa sensibilità nei riguardi della nostra fertilità e ci esorti a «procreare», in molte e in molti hanno fatto notare l’assenza, all’interno del PNF, di riferimenti, e di finanziamenti, alle condizioni materiali e infrastrutturali di supporto alla riproduzione. Tali posizioni hanno messo in rilievo quali possano essere le difficoltà della scelta riproduttiva quando non c’è un reddito o una casa a rendere possibili i tuoi percorsi di autodeterminazione; quando non c’è lavoro, e quando c’è è precario, e dunque, se sei una donna, ci sono spesso le dimissioni in bianco; e quando c’è molta resistenza nei riguardi della redistribuzione materiale e simbolica tra i generi della vulnerabilità connessa alla genitorialità, che in Italia è interamente sbilanciata a carico della «donna», inteso come ruolo che coincide strettamente, stando alla legislazione sociale che disciplina i congedi genitoriali, con quello di «madre».

Il welfare viene inteso quale «prodotto finale», ciò che noi stesse siamo chiamate a produrre attraverso l’ingiunzione a «procreare» 

Il PNF, in altre parole, è una tecnologia biopolitica che non prevede nessun reale incentivo alle strutture di welfare che, oggi, potrebbero consentire di realizzare l’auspicio governativo di tutela della fertilità e di ripresa della natalità. Ciò, tuttavia, accade perché, come si legge dal testo del PNF, il welfare viene inteso quale «prodotto finale», ciò che noi stesse siamo chiamate a produrre attraverso l’ingiunzione a «procreare». Infatti, sarebbe stata proprio la defezione a questo dovere, secondo la propaganda di governo, ad aver reso precarie le nostre odierne condizioni materiali di esistenza: «l’attuale denatalità mette a rischio il welfare», si legge. «In Italia, la bassa soglia di sostituzione nella popolazione non consente di fornire un ricambio generazionale. Questo determina un progressivo invecchiamento della popolazione».

Entrambe viviamo in questo mondo, dunque non ci viene affatto difficile pensare che molte donne differiscano la maternità, o vi rinuncino, perché precarie e perché assoggettate a un’economia del debito e del ricatto che può avere la forza di ostacolare, tra le molte altre cose, la realizzazione del desiderio di maternità, allo stesso modo in cui può avere la forza di dar vita anche alla realizzazione del desiderio di non volere figli. D’altronde, se esuliamo per un momento da certe mistiche del desiderio, noi crediamo che esso si dia sempre come forma di acquiescenza o, al contrario, di strenua resistenza a condizioni date e che precedono il soggetto – tra cui i rapporti di forza economico-sociali, o l’ordine cis-eteronormativo dei generi, entrambi egualmente rilevanti ai fini di questo discorso. E crediamo soprattutto che al di fuori di tali condizioni, materiali e simboliche, si possa dire veramente poco, a proposito del desiderio.

Tuttavia, è importante sottolineare che non è affatto «neutrale», dal punto di vista politico, incitare a una ricostruzione del welfare – nonché proporre una mobilitazione dei saperi medici, psicologici e pedagogici – secondo l’impellente priorità dettata dalla tutela della fertilità. È in tal senso sintomatico, al contrario, che l’indagine dell’Istat citata dal Ministero della Salute (Rapporto annuale 2014) tenti di mostrare una correlazione tra il differimento del desiderio di maternità e il peso che la crisi del welfare eserciterebbe sui desideri riproduttivi in un modo che, in quanto studiose, definiamo scientificamente discutibile e, in quanto attiviste definiamo politicamente in malafede. Né nel Rapporto annuale 2014, né nell’Indagine campionaria sulle nascite e le madri viene infatti posta alle donne intervistate una domanda che tenti di far luce sui motivi della rinuncia alla maternità, per quanto complicata possa essere la sondabilità di questo dato, che richiede una sensibilità qualitativa, e non solo quantitativa. E tale domanda viene forse omessa perché il campione selezionato si compone di donne che non hanno propriamente rinunciato alla maternità. Si tratta, al contrario, di donne che sono già madri di un figlio e che hanno dichiarato in maggioranza (77%) di aver rinunciato al «secondo» perché si trovavano in difficoltà economiche.

Che vi fossero difficoltà economiche, ripetiamo, lo avevamo chiaro da prima che ce lo dicesse il governo. Che possa esservi un punto di vista sulla rinuncia alla maternità da parte di chi non è madre, invece, non è nemmeno contemplato dall’indagine. Nessun riferimento viene fatto ad altre ricerche, come ad esempio a quella dell’Eurisko, Lunadìgas, la quale tenta di indagare le ragioni e le condizioni di vita di un campione di donne di età compresa tra i 18 e i 55 anni che non hanno alcuna intenzione di essere madri. Nessuna legittimazione, il Ministero, accorda pertanto alla posizione di coloro che figli non ne hanno, relativamente ai motivi per i quali non ne hanno avuti, o voluti. Sappiamo molto bene, invece, che l’uso della statistica non è, e non è mai stato, neutro, ai fini del governo della popolazione. Quella «popolazione» che la statistica pretende di fotografare, infatti, è sempre il frutto di una accurata selezione e sempre necessita di una rappresentazione che, nella maggior parte dei casi, sono proprio i governi a costruire, e a usare al fine di rafforzare l’ideologia dominante.

Non è forse parte di un’ideologia più ampia la legittimazione di un PNF a mezzo di una statistica che restringe il campione alle pluripare mancate, «che avrebbero voluto, ma non hanno potuto»?  

Non è forse parte di un’ideologia più ampia la legittimazione di un PNF a mezzo di una statistica che restringe il campione alle pluripare mancate, «che avrebbero voluto, ma non hanno potuto»? A cosa serve stabilire, ancorché implicitamente, questo legame tra la crisi del welfare e il calo del desiderio di avere tanti figli, privilegiando, ed elevando a sistema, il punto di vista di chi figli ne ha già e ne avrebbe voluti di più? A cosa serve, soprattutto, alla luce del fatto che questo stesso governo che oggi promuove un piano che con strafottenza incoraggia a far figli, da giovani, non ha affatto ostacolato, ma anzi ha accelerato, lo smantellamento di uno stato sociale in grado di sostenere tali, e magari anche altri, percorsi?

Questo è il paradosso, a nostro avviso. Questo è il paradosso dinanzi al quale, tuttavia, occorre resistere alla seduzione di replicare che «se lo stato ci sostenesse, i figli li faremmo anche», né che «la genitorialità è affare personale e non di stato». La prima replica, infatti, è del tutto funzionale ai non meglio chiariti propositi del governo di gettare le basi per questa ricostruzione di lungo periodo di un sistema di welfare se possibile ancora più familistico di quello che, nel breve periodo, sta demolendo. La preoccupazione del governo non riguarda l’immediata ripresa delle nascite, ma la reinvenzione su tempi più lunghi di un sistema socio-sanitario, assistenziale e previdenziale, nella consapevolezza che le pensioni riservate alle generazioni oggi a lavoro non saranno mai sufficienti a garantire le necessarie cure, affettive e assistenziali, di domani. L’invito è a fare figli oggi, perché qualcuno ci badi un domani – e a tenerci in forma, perché non sia troppo costoso curarci. Fate un Bambino come fosse un debito, in nome di una futura ricompensa. Fate un Bambino come un investimento: il capitale raddoppierà a trent’anni dalla nascita! Queste le ingiunzioni implicite che ci consentono di leggere sotto una nuova luce «il fascismo del volto del Bambino», di cui parla Lee Edelman nella sua teoria queer antisociale (No Future, 2004).

La riproduzione biologica viene sostenuta pubblicamente al fine di garantire la riproduzione sociale, e la riproduzione sociale, per poter andare avanti anche nei momenti di crisi, deve poter contare su un quadro epistemico e regolativo intrinsecamente cis-eterosessuale, fatto passare pubblicamente per «biologico» 

La seconda replica, invece, ci sembra che rischi di reiterare quella funesta coincidenza tra l’emancipazione e la libertà intesa come fatto del tutto personale. Che non debba essere lo stato a decidere se e quando far figli è facilmente condivisibile. Che la genitorialità sia invece una questione personale è piuttosto opinabile. La genitorialità, infatti, è una questione politica per almeno due motivi. Il primo è perché si tratta di un’esperienza che richiede il supporto di strutture, di tecnologie e di figure professionali che qualcuno potrà anche permettersi di domandare al settore privato, ma per la maggior parte è pubblico, ossia finanziato collettivamente. Il secondo è perché nonostante vada di gran moda, nel lessico neoliberista, la «libera scelta», non deve essere dimenticato che la genitorialità, e specialmente la maternità, restano imponenti norme simboliche, tutt’altro che personali, e occupano un posto non irrilevante nel governo delle forme di soggettivazione, di realizzazione «personale», di organizzazione sociale e, in larga parte, dell’organizzazione eterosessuale dei generi e delle relazioni tra i generi. La riproduzione biologica, in altre parole, viene sostenuta pubblicamente al fine di garantire la riproduzione sociale, e la riproduzione sociale, per poter andare avanti anche nei momenti di crisi, deve poter contare su un quadro epistemico e regolativo intrinsecamente cis-eterosessuale, fatto passare pubblicamente per «biologico».

Di tutto ciò, il PNF non è forse la conferma? A essere in gioco, in questo paradosso, non è esattamente l’incoraggiamento a un’eterosessualità che deve essere in grado di resistere sia di fronte alle minacce queer, e di parte del femminismo, sia di fronte a un welfare che non le consente più di rispecchiarsi e che non è più in grado di sostenerla? Che cosa resta a una nazione che si appresta a rottamare gli ultimi scampoli del suo stato sociale, se non il germe «procreativo» naturalmente insito nella modalità egemonica di soggettivazione e di relazione tra individui? L’obiettivo del PNF, d’altronde, è manifesto: educare le giovanissime donne e i giovanissimi uomini attraverso una propaganda che renda di nuovo desiderabile riprodursi. Perché è di questo che si tratta, di orientare i desideri in direzione della ri-produzione biologica e sociale, economica e politica. Non sprecare in giro i tuoi gameti, non indugiare in rapporti non eterosessuali, la sopravvivenza della nazione conta su di te! Questa azione del governo non è forse il più grande e, finalmente, esplicito appello performativo alla tenuta dell’eterosessualità anche, o meglio, proprio, nell’ora in cui le trasformazioni culturali, la crisi, nonché gli stessi tagli del governo alla spesa pubblica, mettono a dura prova la sua resistenza?

Molti definirebbero, e definiscono, tali allusioni «ideologiche»: il PNF, infatti, dichiara semplicemente di voler tutelare la fertilità, sia femminile sia maschile, e lo fa ricordando alle donne che l’orologio biologico a un certo punto si ferma, e ricordandoci – attraverso un gesto linguistico che attesta l’importanza politica della risignificazione – che anche la maschilità è invero più vulnerabile di quanto possa sembrare. E altri, sulla stessa linea, rispondono alle nostre allusioni ricordandoci che non necessariamente la procreazione ha bisogno di un rapporto etero-sessuale. Ma questo, noi, lo sappiamo già. Proprio perché lo sappiamo, essendo già argomento dell’agenda trans-femminista queer, ricordiamo che in Italia il 70% dei medici è cattolico e obiettore nei riguardi della L. 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza, e presso tante farmacie e consultori già dilaga l’obiezione nei riguardi della somministrazione della pillola del giorno dopo; e ricordiamo anche che la L. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita esclude esplicitamente le donne single e le coppie omosessuali, nonché espressamente l’ipotesi di gestazione per altre/i, essendo la sua unica finalità quella di porsi come rimedio all’infertilità, appunto, delle coppie eterosessuali; e ricordiamo, infine, che la L. 76/2016 sulla regolamentazione delle unioni civili omosessuali ha potuto essere approvata dal parlamento solo a patto che venisse escluso l’articolo sulla stepchild adoption – ossia, solo a patto che venisse espunto l’articolo che più di tutto il resto, secondo le destre, avrebbe minato la stabilità dell’ordine simbolico.

Dunque: se una donna resta incinta contro la sua volontà (ad esempio a seguito di un non infrequente caso di stupro) o se per qualunque motivo vuole interrompere la gravidanza, ciò le viene reso piuttosto complicato, e se abortisce al di fuori di un ospedale pubblico può incorrere in una sanzione di diecimila euro. Se si intende usufruire della legge sulla PMA ma non si fa parte di una coppia eterosessuale, la cosa è impossibile. Se le coppie gay e lesbiche contraggono l’unione civile, infine, possono non solo scordarsi di ricorrere alla PMA, alla gestazione per altre/i, o di avviare le pratiche per l’adozione, ma possono scordarsi anche solo di adottare il figlio, già nato, del/della partner. Sulla base di quale argomento, dunque, la genitorialità, la fertilità e la riproduzione sono cose distinte dall’eterosessualità? Nell’Italia che oggi vara il PNF sembrerebbe di no. Con ciò, si badi bene, non intendiamo osannare ipotetici «altrove». Come dovrebbe essere chiaro, non necessariamente a un quadro normativo formalmente meno ansioso di tutelare l’ordine eterosessuale dei ruoli di genere corrisponde un ordine simbolico effettivamente più disteso. Ma, in ogni caso, questa panoramica sul vigente quadro normativo italiano non ribadisce, inequivocabilmente, una stretta coincidenza tra ordine giuridico e ordine simbolico, tra la tutela della fertilità e quella dei ruoli di genere, tra riproduzione e sessualità?

Per il PNF la sessualità inizia e finisce con la fertilità. La sopravvivenza della nazione assurge a bene comune in nome del quale osservare il dovere di riprodursi. Non è qui il caso di dire quanto la nostra sessualità diverga dall’immaginario ministeriale, né quanto i nostri desideri possano spingersi oltre la riproduzione del biologicamente «identico». È però importante dire a chiare lettere, invece, che il PNF dovrebbe essere letto per ciò che è: un delirio nazionalistico, soprattutto se guardiamo oltre l’ombelico della nazione.

Quando l’Olocene è iniziato, 11.700 anni fa, eravamo sei milioni. Fino al XX secolo l’Olocene ha manifestato una inusuale stabilità. Il cambiamento climatico è iniziato quando la vita umana sulla terra ha iniziato a crescere vertiginosamente, grazie ai progressi medici, agricoli e industriali. Per alcune correnti di pensiero alle quali guardiamo con interesse, tra cui l’ecofemminismo o l’antispecismo, la scelta della non riproduzione coincide con una rinuncia a prendere parte alla ulteriore devastazione della vita sulla terra, animale e ambientale, di cui, se non fosse abbastanza evidente, parlano le nostre stesse vite umane (Donna Haraway, Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin Environmental Humanities, 2015). E dovrebbe indurre a riflettere che altre correnti di pensiero, come quelle del neofondamentalismo pro life, non condividano queste preoccupazioni, ma anzi sostengano energicamente, di solito, programmi di devastazione ambientale (Melinda Cooper, La vita come plusvalore, 2013). Non lottano forse per la tutela della vita, i pro life? Ma di quale vita parlano? La vita di cui parlano non è certo quella dei corpi attualmente viventi, gli unici titolati a vivere, e a prosperare: come per il Ministero della Salute, la vita che li preoccupa è solo quella del Bambino non-nato.

Ci auguriamo che i molti uteri, e i molti corpi, resistenti e anomali, persistenti e alleati, che si sono finora mobilitati contro questa azione del governo continuino a rendersi indisponibili a ogni tentativo di penetrazione non autorizzata 

Nel 2015, al mondo, eravamo 7,3 miliardi di persone. Per il 2030 le stime prevedono 8,5 miliardi di persone, e circa 9,7 miliardi entro il 2050 (ONU, World Population Prospects, 2015). L’estinzione non ci sembra tra i primi problemi dell’agenda del futuro, ammesso che il futuro del Bambino non-nato debba costituire un problema: la popolazione globale è in costante aumento, e il calo delle nascite di cui parla il governo riguarda solo una parte dell’Occidente, tra cui l’Italia e altri paesi europei. A crescere sarà soprattutto l’Africa. Le migrazioni aumenteranno. E i governi occidentali questo lo sanno: proprio per questo le linee che rinsaldano non sono solo quelle delle frontiere, ma anche quelle della razza, e del genere. Ci esortano a riprodurre la bianchezza, e l’eterosessualità è il modo più immediato, e soprattutto meno costoso, per farlo. Tutte le tecnologie di controllo della popolazione passano attraverso gli uteri, e ciò può essere un rischio, per i governi: se gli uteri che si sottraggono a tali forme di controllo sono troppi, infatti, i governi sono costretti a ripartire dalle più elementari forme di propaganda eterosessuale. Non serviva forse a questo, la recente crociata contro il gender? D’altronde, i più accaniti oppositori della teoria gender siedono oggi accanto a Beatrice Lorenzin. Inutile pertanto ricordare che ciò che per loro è un rischio, per noi è occasione di lotta. Speriamo vivamente di correrlo, e ci auguriamo che i molti uteri, e i molti corpi, resistenti e anomali, persistenti e alleati, che si sono finora mobilitati contro questa azione del governo continuino a rendersi indisponibili a ogni tentativo di penetrazione non autorizzata.

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