Bambini di guerra

La medaglia della coniglia e il suo rovescio

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Verita Monselles, Ecce Homo, 1976, sequenza fotografica, cm 14,5x11 cad.

Durante una lunga estate feroce, tra le più dolorose di anni faticosi entro i quali ci aggiriamo disorientate, abbiamo dedicato tempo a discettare sulla schiavitù delle donne musulmane costrette al velo e a tenersi coperte sotto il sole delle spiagge d’agosto. Il documento e la campagna del ministero della Sanità con l’indizione di un giorno della fertilità accompagnato dall’esortazione alla procreazione di massa ci ha riportato crudamente a noi e alle nostre fragili libertà di donne occidentali. Penso e scrivo «fragili» nella prospettiva di un ordine neoliberale dietro il quale si legge, da una parte e dall’altra, la caparbia volontà di imporre modelli non solo illiberali ma determinati a catturare la delicata rete della vita, attraverso il ricorso a molti addentellati, e a comprimerla dentro un’idea di opposizione, di scontro, di guerra. Le donne italiane a cui viene indicato di farsi fattrici di bimbi autenticamente italiani, con un corollario iconografico di pance e mani sul ventre e clessidre che segnano lo sgocciolare degli attimi, non è meno intrisa di un nazionalismo fondamentalista d’emergenza di quanto lo sia il ricorso a quei simboli di appartenenza che tanto scandalizzano il nostro laico ed emancipato Io.

Il compito della donna, in questa filosofia della guerra, neppure così strisciante, è quello di farsi garante della tradizione e della trasmissione, quindi anche di procreare, di invertire gli indici di denatalità, di consentire la continuazione della razza 

Il compito della donna, in questa filosofia della guerra, neppure così strisciante a ben guardare, è quello di farsi garante della tradizione e della trasmissione, quindi anche di procreare, di invertire gli indici di denatalità, di consentire la continuazione della razza. I bambini di guerra che interessano a Lorenzin e a Renzi non sono figli di immigrati e, nel richiamo al «privilegio della maternità», sentiamo il respiro della nazione, anacronisticamente considerata più forte e più ricca in base al numero di figli che siano frutto di lombi nostrani. Si può ricordare allora, con qualche trasalimento, la medaglia d’onore per le madri di famiglie numerose istituita nel 1939, premio per «sette figli viventi oppure morti in guerra», noto anche con il nomignolo umiliante di «medaglia della coniglia». Una conferma degli immaginari di destra degli attuali governi di sinistra.

Le donne, insomma, costituiscono ancora il nodo dove si fronteggiano concetti come la libertà, l’uguaglianza, il senso di appartenenza «nazionale», ma anche la moralità e l’onore, il valore dei costumi e della cultura, con tutto ciò che comporta per il ruolo delle donne stesse all’interno della società. Abbiamo così il tentativo di ridestare pervicacemente, contro ogni buon senso e ogni concreta esigenza, perfino economica, dualismi arcaici fra mondo del lavoro, dell’istruzione, della modernità e l’ambito della casa, della famiglia e della tradizione.

Non la ragione ma il sentire comune si attaglia al clima di guerra. Un sentire che prescinda da ogni comprensione. Dunque soffrire, indignarsi, emozionarsi: da un lato il soldato e la guerriera che si batte contro il nemico, l’Isis, dall’altro la mamma 

D’altra parte, non la ragione ma il sentire comune si attaglia al clima di guerra. Un sentire che prescinda da ogni comprensione. Dunque soffrire, indignarsi, emozionarsi. Recuperare figure epiche, commoventi, tra mito onnipotente e psicanalisi: da un lato il soldato e la guerriera che si batte contro il nemico, l’Isis, dall’altro la mamma. La mamma, rimossa, «nell’accelerazione infosferica», «corpo che introduce al linguaggio» la cui affettività si trova oggi «catturata dal lavoro salariato», per usare le parole di Franco Berardi, riaffiora nei dispacci ministeriali, nel Piano nazionale per la fertilità e viene «celebrata» in quanto «culla del futuro». Echi lontani di canzoni alpine del fronte: che la patria, il battaglione e la mamma possano avere in eredità i pezzi del corpo del capitano, e così sia.

C’è ovviamente poco da ironizzare: il rischio è quello di rilanciare l’operazione, pur volendola criticare. Ma d’altro lato, questo affaire induce a osservare la deriva reazionaria verso la quale veniamo precipitati, complici la stanchezza e il bisogno di ancorarci da qualche parte mentre tutto intorno sembra arretrare o slittare tristemente. Allora se, come ha scritto assai bene Carlotta Cossutta su Effimera, tra precarietà e crisi economica, la coppia diventa «isola di felicità che si vorrebbe inscalfibile», in questo caso non siamo neppure di fronte alla forza violenta di un amore malato ma al fascino discreto di una normalità che approfitta di sfaldamenti generati ad arte per impiantare idee zuccherose, stilizzate, pubblicitarie, di bambini, famiglie perfette, posti a tavola e candeline sulla torta.

La crisi del desiderio, il fatto che il tema del «piacere» sia stato progressivamente marginalizzato, il fatto che il sesso attiri poco in un mondo costruito sulla distrazione e sulla virtualizzazione, fanno il resto: la sessualità torna a essere atto riproduttivo e in questa radice ritrova un suo sconcertante, atavico, primitivo fascino.

Si punta a normalizzare, facendo del lavoro un nuovo oggetto di culto, dell’eterosessualità norma obbligata, della gravidanza un impegno e un compito che conferisce ruolo. Così, coppia, impiego e mamma diventano seducenti, il privato è privo di ombre e di contraddizioni e si manifesta come cuore caldo che restituisce sicurezza e conforto, mentre il contesto collettivo, luogo di molte tensioni e di poche immaginazioni, appassisce, si scopre completamente diserotizzato ed è inutile raccontarci ancora che è solo mancanza di tempo.

Questo ci interroga profondamente sulla crisi della politica, sul senso dello stare insieme, sul «ridurre a uno» della precarietà esistenziale che apre la porta alla solitudine. Il richiamo, una volta di più, è alla necessità di stravolgere il percorso, di dare il più grande valore alle esperienze di scambio materiale tra le persone che innervano ancora, nonostante tutto, la realtà quotidiana e che sono assolutamente più avanti dell’ottusità di governanti e chiese. Raccontare, coltivare, potenziare, perciò, gli esercizi di rottura, le esperienze cooperative, le relazioni non familistiche, i tanti esperimenti di convivenza allargata, le storie di amicizia e di cura reciproca al di fuori dei «legami di sangue», abbandonando le autoreferenzialità, lavorando sui tessuti connettivi.

Éric Alliez e Maurizio Lazzarato in un libro che uscirà in Francia a metà ottobre, Guerres et Capital (Édition Amsterdam), scrivono: «L’egemonia neofascista sul processo di soggettivazione viene anche confermata dalla ripresa della guerra contro l’autonomia delle donne e il divenire minore della sessualità (in Francia la “Manif pour tout”) [in Italia, il “Fertility day”, ndr], come estensione del dominio del colonialismo interno (endocolonial) della guerra civile».

Dietro la veemente e orgogliosa difesa del nostro portato culturale, del nostro laicismo, del nostro progresso, della nostra storia antagonista (femminista e anticapitalista) si cela un senso di sconfitta che va affrontato ed elaborato 

Il problema della liberazione delle donne, del protagonismo femminile, dell’autodeterminazione non riguarda solo le ragazze in hijab. Dietro la veemente e orgogliosa difesa del nostro portato culturale, del nostro laicismo, del nostro progresso, della nostra storia antagonista (femminista e anticapitalista) si cela un senso di sconfitta che va affrontato ed elaborato. Mi domando se, alla fine, l’unica battaglia da condurre, propedeutica a tutte le altre, non sia, in questa fase, quella contro i nostri balbettii riguardo lo stato del nostro orizzonte: molteplici esercizi di verità su di noi che riaprano spazi al desiderio (che cosa ci manca? che cosa davvero vorremmo?). Per trovare uno sguardo politico, e complice con altre, capace di cercare oltre i nuovi muri che vengono costruiti dal potere, difesi da sempre più agguerriti sistemi di polizia, uno sguardo rovesciato sull’Io femminile, sulle profondità più oscure del corpo e sulle inedite pulsioni dell’«anima» contemporanea.

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