13 Tesi

E qualche commento sulla politica mondiale

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Cesare Pietroiusti, Scuola Quadri - Laboratorio intensivo di formazione per uomini e donne che intendono fare, o che stanno facendo, attività politica professionale. CCCS Strozzina, Firenze, ottobre-dicembre 2011.

A seguito del movimento contro la «loi travail e il suo mondo», esploso nella primavera del 2016, nella metropoli parigina sono fioriti una serie di spazi di approfondimento e di elaborazione teorica, immanenti alle lotte ed espressione di un’effervescenza intellettuale che fa del sapere un’arma di rilancio del conflitto sociale. Il ripensamento di una serie di categorie, necessarie per l’analisi dell’attuale fase capitalistica e per ponderare le alternative strategiche dei movimenti, è andato di pari passo al confronto con la storia dei conflitti sociali e delle iniziative autonome del recente passato. In questo solco si inserisce l’intervento di Alain Badiou nel quadro del seminario «Conséquences», svoltosi nella primavera scorsa tra l’École des Beaux Arts e l’École Normale Supérieure di Pargi. Il testo esce nei prossimi giorni in Francia per l’editore Fayard, qui ne pubblichiamo una versione trascritta e tradotta in italiano.

Tesi 1: La congiuntura mondiale consiste nell’egemonia territoriale e ideologica del capitalismo liberale.

Commento: l’evidenza, la banalità di questa tesi mi dispensano da ogni commento.

Tesi 2: Questa egemonia non è per nulla in crisi, né tantomeno in uno stato di coma irreversibile, ma si trova in una fase particolarmente intensa del suo dispiegamento.

Commento: A proposito della globalizzazione capitalista oggi completamente egemonica, ci sono due tesi che si oppongono, entrambe false. La prima è una tesi conservatrice: il capitalismo, soprattutto se combinato con la «democrazia» parlamentare, è la forma definitiva dell’organizzazione economica e sociale dell’umanità. È la fine della storia, nell’accezione di Fukuyama. La seconda è la tesi secondo la quale il capitalismo è entrato nella sua crisi finale, o addirittura per la quale esso sarebbe già morto. La prima tesi non è che la ripetizione del processo ideologico nel quale si sono impegnati, a partire dalla fine degli anni Settanta, gli intellettuali rinnegati degli «anni rossi»(1965-1975), e che è consistito nell’eliminazione pura e semplice dell’ipotesi comunista dal campo dei possibili. Questa ha permesso di semplificare la propaganda dominante: non c’è più bisogno di vantarsi dei meriti (dubbi) del capitalismo, ma basta sostenere che i fatti (l’URSS, Stalin, Mao, la Cina) hanno mostrato che nient’altro è possibile, se non un «totalitarismo» criminale. Di fronte a questo verdetto di impossibilità, la sola azione che ci è richiesta è di ristabilire l’ipotesi comunista nella sua forza e nella sua capacità di liberazione, al di là degli esperimenti frammentari del secolo scorso. È ciò che succede e succederà inevitabilmente e, come sapete, mi impegno in questo senso. Le due forme assunte dalla seconda tesi, il capitalismo esangue o il capitalismo morto, si basano spesso sulla crisi finanziaria del 2008 e sugli innumerevoli episodi di corruzione che si presentano quotidianamente. Ne concludono che il momento attuale è rivoluzionario, che è sufficiente una forte spinta perché il sistema affondi, oppure che basta un passo a lato, che basta ritirarsi, per esempio in campagna, e percepire allora che vi si possono organizzare delle nuove «forme di vita», poiché la macchina capitalista gira a vuoto nel suo niente definitivo. Tutto ciò non ha il minimo rapporto con la realtà. In primo luogo, la crisi del 2008 è una crisi classica di sovrapproduzione (si sono costruite negli USA troppe case, vendute a credito a gente insolvente), la cui propagazione permette, impiegando il tempo necessario, un nuovo slancio del capitalismo, rimesso in ordine e amplificato tramite una forte fase di concentrazione di capitale, con i più deboli fatti a pezzi, i forti rafforzati e, en passant – ed è questo un passaggio molto importante – le «leggi sociali», approvate alla fine della seconda guerra mondiale, largamente liquidate. Una volta realizzata questa dolorosa messa in ordine, la ripresa è in vista. In secondo luogo, l’estensione dell’impresa capitalista a vasti territori, la differenziazione intensiva ed estensiva del mercato mondiale, è lontana dal suo completamento. Quasi tutta l’Africa, una buona parte dell’America latina, l’Europa dell’Est, l’India: tanti altri luoghi «in transizione», sono pronti a diventare zone di saccheggio oppure paesi «in decollo», nei quali l’introduzione su larga scala del mercato può e deve seguire l’esempio del Giappone o della Cina.

In terzo luogo, il capitalismo è corruzione nella sua stessa essenza. Come può una logica collettiva le cui sole norme sono «il profitto prima di tutto» e la concorrenza universale di tutti contro tutti evitare la corruzione generalizzata? I «casi» di corruzione non sono che delle operazioni laterali, oppure delle purghe locali propagandistiche, o ancora, sono dovuti a un regolamento di conti tra cricche rivali. In verità, il capitalismo moderno, quello del mercato mondiale, che con alcuni secoli di vita è storicamente una formazione sociale recente, non fa altro che cominciare la conquista del pianeta, dopo una sequenza coloniale (dal XVI al XX secolo) nella quale i territori conquistati erano asserviti al mercato limitato e protezionista di un solo paese. Oggi, il saccheggio è globalizzato, come anche il proletariato, che proviene ormai da tutti i paesi del mondo.

Tesi 3: Tre contraddizioni attive attraversano questa egemonia. Uno: la dimensione oligarchica estremamente sviluppata del possesso del capitale lascia sempre meno spazio all’integrazione di nuovi proprietari in questa oligarchia. Ne consegue la possibilità di una sclerosi autoritaria. Due: all’integrazione dei circuiti finanziari e commerciali in un unico mercato mondiale si oppone il mantenimento di figure nazionali che entrano inevitabilmente in rivalità. Ne consegue la possibilità di una guerra planetaria perché sorga uno Stato chiaramente egemonico, anche sul mercato mondiale. Tre: non è certo che il Capitale, nella sua linea di sviluppo attuale, possa valorizzare la forza-lavoro della totalità della popolazione mondiale. Ne consegue il rischio della costituzione, a livello mondiale, di una massa di persone totalmente indigente e, per questo stesso motivo, politicamente pericolosa.

Commento: Sul punto uno: siamo in una situazione nella quale 264 persone possiedono tanto quanto tre miliardi di persone. Anche qui, in Francia: il dieci percento della popolazione possiede nettamente più del cinquanta percento del patrimonio nazionale complessivo. Sono delle concentrazioni di proprietà senza equivalenti nella storia dell’umanità. E sono processi di accumulazione di ricchezza non ancora compiuti. Sul punto due: l’egemonia degli Stati Uniti scricchiola sempre più. La Cina e l’India possiedono da sole il quaranta percento della massa operaia mondiale. Il che indica una de-industrializzazione devastante in Occidente. Di fatto, gli operai americani non rappresentano che il 7% della massa operaia totale, e l’Europa meno ancora. Da questi contrasti risulta che l’ordine mondiale, ancora dominato per ragioni militari e finanziarie dagli USA, vede apparire dei rivali che vogliono la loro parte di sovranità sul mercato mondiale. I conflitti sono già cominciati, in Medio Oriente, in Africa, e sul mare cinese. Continueranno. La guerra è l’orizzonte di questa situazione, come è stato mostrato dai massacri del secolo scorso.

Sul punto tre: già oggi esistono probabilmente tra i 2 e i 3 miliardi di persone che non sono né proprietari, né contadini senza terra, né salariati appartenenti alla piccola borghesia, né operai. Vagano per il mondo alla ricerca di un luogo dove vivere, e costituiscono un proletariato nomade che, se politicizzato, diventerebbe una minaccia importante per l’ordine stabilito.

Tesi 4: Negli ultimi dieci anni, i movimenti di rivolta contro questo o quell’aspetto dell’egemonia del capitalismo liberale sono stati numerosi e talvolta vigorosi. Ma sono anche stati riassorbiti senza grande difficoltà.

Commento: Questi movimenti sono stati di quattro tipi.

1. Sommosse brevi e localizzate. Ci sono state delle sommosse selvagge nelle banlieues delle grandi città, per esempio a Londra o Parigi, di solito a seguito di omicidi polizieschi dei ragazzi dei quartieri. Queste sommosse non hanno beneficiato di alcun sostegno ampio, in un contesto di opinione pubblica impaurita, e sono state represse in modo spietato, o sono state seguite da grandi mobilitazioni «umanitarie» riguardanti la violenza della polizia e largamente de-politicizzate.
2. Movimenti più duraturi ma senza creazione organizzativa. Altre sollevazioni, in particolare nel mondo arabo, sono state socialmente ben più larghe e sono durate settimane intere. Hanno preso la forma canonica delle occupazioni delle piazze. Sono state di solito ridimensionate dalla tentazione elettorale. Il caso più tipico è quello dell’Egitto: movimento di grande ampiezza, apparente successo della parola d’ordine unificatrice «Mubarak vattene» – Mubarak lascia il potere ed è anche arrestato, impossibilità di riconquistare la piazza da parte della polizia, unità esplicita dei cristiani copti e dei musulmani, neutralità apparente dell’esercito… Ma alle elezioni è il partito presente tra le masse popolari – e poco presente nel movimento – che la spunta, cioè i Fratelli Musulmani. La parte più attiva del movimento si oppone a questo nuovo governo, e apre così la via a un intervento dell’esercito , che rimette al potere un generale, Al Sissi. Quest’ultimo reprime spietatamente tutte le opposizioni, i Fratelli Musulmani prima di tutto, i giovani rivoluzionari subito dopo, e ristabilisce di fatto il regime precedente, in una forma ancora peggiore di prima. Il carattere circolare di questo episodio colpisce particolarmente.
3. Movimenti che danno luogo alla creazione di una forza politica nuova. In certi casi, il movimento ha potuto creare le condizioni per la nascita di una forza politica nuova, diversa dagli habitués del parlamentarismo. È il caso della Grecia, dove le sommosse sono state particolarmente numerose e radicali, con Syriza, e della Spagna con Podemos. Queste forze si sono dissolte nel consenso parlamentare. In Grecia, il nuovo potere, con Tsipras, ha ceduto senza grande resistenza alle ingiunzioni della commissione europea, e ha rimesso il paese sulla strada dell’austerità senza fine. In Spagna, Podemos è pienamente inserita nel gioco delle combinazioni tattiche, che siano maggioritarie o d’opposizione. Nessuna traccia di vera politica è potuto emergere e affermarsi da queste nuove organizzazioni.
4. Movimenti di lunga durata ma senza effetti positivi riscontrabili. In alcuni casi, a parte qualche episodio tattico (superamento delle manifestazioni classiche da parte di gruppi equipaggiati per affrontare la polizia per qualche minuto), l’assenza di innovazione politica ha avuto come effetto un rinnovamento della reazione. È il caso degli USA, dove il contro-effetto dominante di «Occupy Wall Street» è l’arrivo al potere di Trump, o della Francia, dove il saldo finale di «Nuit debout» è Macron.

Tesi 5: La causa di questa impotenza è l’assenza di politica in questi movimenti, la presenza, anzi, di un’ostilità per la politica, sotto diverse forme e riconoscibile sulla base di alcuni sintomi.

Commento: Come sintomi di una soggettività politica estremamente debole, possiamo rilevare in particolare:

1. Delle parole d’ordine unificatrici esclusivamente negative: «contro» questo o quello, «Mubarak vattene» «abbasso l’oligarchia dell’uno per cento», «rifiutiamo la loi travail», «a nessuno piace la polizia», ecc.
2. L’assenza di una temporalità ampia: tanto per quanto riguarda la conoscenza del passato, praticamente assente nei movimenti salvo qualche caricatura, e di cui nessun bilancio costruttivo è proposto, quanto per quanto riguarda la proiezione verso l’avvenire, limitata a delle considerazioni astratte sulla liberazione o sull’emancipazione.
3. Un lessico preso a prestito dall’avversario. È principalmente il caso di una categoria particolarmente equivoca, come quella di «democrazia», o del ricorso alla categoria di «vita», delle «nostre vite», che non è che un inefficace investimento nell’azione collettiva di categorie esistenziali.
4. Un culto cieco per la «novità» e un disprezzo per le verità. Questo punto è il frutto diretto del culto mercificato della novità dei prodotti e di una costante convinzione che si «comincia» qualcosa che ha già avuto luogo molte volte. Ciò vieta simultaneamente di trarre la insegnamenti dal passato, di comprendere il meccanismo delle ripetizioni strutturali, e di non cadere nella trappola del cartellone pubblicitario delle «modernità» fittizie.
5. Una scala temporale assurda. Questa scala, plasmata sul circuito marxista «denaro-merce-denaro», suppone che si risolveranno, in qualche settimana di «movimento», dei problemi, come quello della proprietà privata o della concentrazione patologica delle ricchezze, che sono in sospeso da millenni. Il rifiuto di considerare che una buona parte della modernità capitalista si declina come la versione moderna del trinomio messo in campo, qualche migliaia di anni orsono, a partire dalla «rivoluzione neolitica», cioè: Famiglia, Proprietà privata, Stato. E che dunque la logica comunista, quanto ai problemi centrali che la costituiscono, si situa su una scala secolare.
6. Un rapporto debole con lo Stato. Ciò che è in causa qui è una costante sottovalutazione delle sue risorse, paragonate a quelle di cui dispone questo o quel «movimento», tanto in termini di forza armata, quanto in termini di capacità di corruzione. Si sottostima in particolare l’efficacia della corruzione «democratica», il cui simbolo è il parlamentarismo elettorale, come sottinteso del dominio ideologico di questa corruzione sulla schiacciante maggioranza della popolazione.
7. Una combinazione di mezzi disparati senza alcun bilancio del loro passato, lontano o prossimo. Non è tratta alcuna conclusione che possa essere resa popolare a proposito dei metodi messi in opera almeno a partire dagli «anni rossi» (1965-1975), anzi, negli ultimi due secoli, come le occupazioni delle fabbriche, gli scioperi sindacali, le manifestazioni legali, la formazione di gruppi il cui obiettivo è rendere possibile lo scontro localizzato con la polizia, l’assalto dei palazzi, il sequestro dei padroni nelle fabbriche… Ma nemmeno i loro corrispettivi simmetrici statali: per esempio, nelle piazze invase dalla folla, le lunghe e ripetitive assemblee ultra-democratiche, dove ciascuno è costretto, quali che siano le sue idee e le sue risorse linguistiche, a parlare tre minuti e la cui posta in gioco non è che prevedere la ripetizione di questo esercizio.

Tesi 6: Bisogna ricordarsi delle più importanti esperienze del passato, e riflettere sui loro fallimenti.

Commento: Dagli anni rossi a oggi.

Il commento della tesi 5 sembra senza dubbio molto polemico, anzi, pessimista e deprimente, soprattutto per i giovani che possono legittimamente rendere entusiasmanti, per un certo tempo, tutte le forme di azione di cui richiedo un riesame critico. Si comprenderanno queste critiche se ci si ricorda che personalmente, nel maggio ’68 e nei suoi sviluppi, ho conosciuto e partecipato con entusiasmo a delle cose del medesimo genere, e che le ho potute seguire per un tempo sufficiente a misurarne le debolezze. Ho allora l’impressione che i movimenti recenti si esauriscano nel ripetere, presentandoli come novità, degli episodi ben noti di ciò che possiamo chiamare la «destra» del movimento del maggio ’68, che questa destra sia uscita dalla sinistra classica o da questa ultra-sinistra anarchica che a suo modo parlava già di «forme di vita», e i cui militanti erano chiamati «anarco-desideranti». Nel ’68 si sono sviluppati, in realtà, quattro movimenti distinti.

1. Una rivolta della gioventù studentesca
2. Una rivolta dei giovani operai delle grandi fabbriche.
3. Uno sciopero generale sindacale che tentò di controllare le due rivolte precedenti.
4. L’apparizione, spesso sotto il nome di «maoismo», e con numerose organizzazioni rivali, di un tentativo di politica nuova il cui principio era tirare la diagonale unificatrice tra le due prime rivolte dotandole di una forza ideologica e combattente che sembrava potergli garantire un reale avvenire politico. Di fatto, ciò è durato una decina d’anni almeno. Il fatto che ciò non si sia stabilizzato su scala storica – cosa che riconosco volentieri – non deve avere per conseguenza che si ripeta ciò che ha avuto luogo in quel momento, senza neanche sapere che lo si ripete. Ricordiamo semplicemente che alle elezioni del giugno 1968, si mise in campo una maggioranza talmente reazionaria da poter dire che si era ritrovata la maggioranza del «bleu horizon» della fine della guerra ’14-’18. Il risultato finale delle elezioni del maggio/giugno 2017, con la schiacciante vittoria di Macron, un servitore del grande capitale globalizzato, deve farci riflettere su ciò che c’è di ripetitivo in tutto questo.

Tesi 7: Una politica interna al movimento deve lavorare su cinque assi, concernenti le parole d’ordine, la strategia, il vocabolario, l’esistenza di un principio e una visione tattica chiara.

Commento: 1. Le parole d’ordine devono essere affermative. Ciò anche al prezzo di una divisione interna, dal momento in cui si supera l’unità negativa.
2. Le parole d’ordine devono essere giustificate strategicamente. Ciò significa nutrite di una conoscenza delle tappe anteriori del problema messo all’ordine del giorno dal movimento.
3. Il lessico utilizzato deve essere controllato e coerente. Per esempio: «comunismo» è oggi incompatibile con «democrazia», «uguaglianza» è incompatibile con «libertà», ogni uso positivo di un vocabolo di ordine identitario, come «francese» o «comunità internazionale», o «islamista» o «Europa», deve essere proscritto, così come i vocaboli di carattere psicologico, come «desiderio», «vita», «persona», così come ogni vocabolo legato alle disposizioni statali stabilite, come «cittadino», «elettore» e così di seguito.
4. Un principio, ciò che chiamo un’idea, deve essere costantemente confrontato alla situazione, in quanto porta localmente una possibilità sistemica non capitalista. Bisogna citare Marx quando definisce il militante comunista nei movimenti: «i comunisti appoggiano, in tutti i paesi, ogni movimento rivoluzionario contro l’ordine sociale e politico esistente. In tutti questi movimenti, pongono la questione della proprietà, a seconda del grado d’evoluzione che questa ha raggiunto, come la questione fondamentale del movimento».
5. Tatticamente, bisogna sempre condurre e fare del movimento un corpo capace di riunirsi per discutere effettivamente della sua prospettiva e di ciò a partire da cui chiarisce e giudica la situazione. Il militante politico, come dice Marx, fa parte del movimento generale, e non se ne separa. Ma si distingue unicamente per la sua capacità di iscrivere il movimento in un punto di vista d’insieme, per prevedere quale deve essere la tappa seguente e anche per non fare concessioni alle concezioni conservatrici, che possono perfettamente dominare, a livello soggettivo, anche un movimento importante. L’esperienza delle rivoluzioni mostra che i momenti politici cruciali si presentano nella forma della riunione, dell’assemblea, in cui la decisione da prendere è chiarita da oratori che possono anche scontrarsi.

Tesi 8: La politica è caricata di una durata propria dello spirito dei movimenti, che sia all’altezza della temporalità degli Stati e non si riduca a un semplice episodio negativo del loro dominio. La sua definizione generale è che si organizza nelle componenti del popolo, e sulla scala più grande possibile, in una discussione attorno a delle parole d’ordine che devono essere tanto quelle della propaganda permanente, quanto quelle dei movimenti a venire. La politica porta con sé il quadro generale di queste discussioni: si tratta dell’affermazione secondo la quale esistono oggi due vie per l’organizzazione generale dell’umanità, la via capitalista e la via comunista. La prima non è che la forma contemporanea di ciò che esiste dalla rivoluzione neolitica, avvenuta qualche migliaio di anni fa’. La seconda propone una seconda rivoluzione globale, sistemica, nel divenire dell’umanità. Propone di uscire dall’età neolitica.

Commento: In questo senso, la politica consiste nel situare localmente, tramite un ampio dibattito, la parola d’ordine che si cristallizza nella situazione dell’esistenza di queste due vie. Questa parola d’ordine, in quanto locale, non può che provenire dall’esperienza delle masse. È qui che la politica apprende ciò che può fare esistere localmente la lotta effettiva, quali che siano i mezzi, per la via comunista. Da questo punto di vista, l’istanza della politica non è immediatamente lo scontro antagonista, ma l’inchiesta continua, nella situazione, sulle idee, le parole d’ordine e le iniziative atte a fare vivere localmente l’esistenza di due vie, di cui l’una è la conservazione di ciò che c’è, l’altra la sua trasformazione completa, secondo dei principi egalitari che la nuova parola d’ordine cristallizzerà. Il nome di quest’attività è «lavoro di massa». L’essenza della politica, fuori dal movimento, è il lavoro di massa.

Tesi 9: La politica si fa con le persone, ovunque. Non può accettare di piegarsi alle diverse forme di segregazione sociale organizzate dal capitalismo.

Commento: Ciò significa, soprattutto per la gioventù intellettuale, che ha sempre giocato un ruolo cruciale nella nascita di nuove politiche, la necessità di una traiettoria continua in direzione degli altri strati sociali, i più deprivati, là dove l’impatto del capitalismo è più devastante. Nelle condizioni del presente, la priorità deve essere accordata, nei nostri paesi come su scala mondiale, al vasto proletariato nomade che, come altre volte i contadini dell’Alvernia o della Bretagna, arriva per ondate, al prezzo dei peggiori rischi, per tentare di sopravvivere come operaio qui, poiché non può più farlo altrove come contadino senza terra. Il metodo, in questo caso come in tutti gli altri, è la paziente inchiesta in loco: mercati, cités, case, fabbriche. L’organizzazione delle riunioni, anche se ristrette all’inizio, la fissazione delle parole d’ordine, la loro diffusione, l’allargamento della base di lavoro, lo scontro con le diverse forze conservatrici locali ecc. È un lavoro appassionante, non appena si capisca che l’insistenza e la determinazione ne sono la chiave. Una tappa importante è l’organizzazione delle scuole per diffondere la conoscenza della storia mondiale della lotta tra le due vie possibili, dei suoi successi e dei suoi impasses attuali. Ciò che è stato fatto dalle organizzazioni sorte con questo obiettivo dopo il maggio ’68 può e deve essere rifatto. Dobbiamo ricostituire la diagonale politica di cui ho parlato, che abita oggi una diagonale tra il movimento giovanile, qualche intellettuale e il proletariato nomade. Già ci si impegna, qui e là. Oggi è l’unico compito propriamente politico. Ciò che è cambiato è la deindustrializzazione delle periferie delle grandi città. Questi luoghi sono, del resto, la risorsa operaia dell’estrema destra. Bisogna combatterla su questo terreno, spiegando perché, e come, si sono sacrificate due generazioni di operai in pochi anni, e facendo inchiesta simultaneamente, sul processo contrario, cioè l’industrializzazione estremamente violenta in Asia. Il lavoro degli operai di un tempo e di oggi è immediatamente internazionale, anche qui. Sarebbe a questo proposito estremamente interessante realizzare e diffondere un giornale globale degli operai.

Tesi 10: Non esiste più, oggi, una vera organizzazione politica. Il compito è dunque di cercare i mezzi per ricostituirla.

Commento: Un’organizzazione è responsabile di condurre le inchieste, di sintetizzare il lavoro di massa e le parole d’ordine locali che vi si producono, in modo da iscriverle in un punto di vista d’insieme, di arricchirne i movimenti e di favorire una tenuta di lunga durata e le loro conseguenze. Un’organizzazione si giudica non per la forma e le sue procedure, come si giudica uno Stato, ma per la sua capacità di fare ciò di cui è responsabile. Riprenderò una formula di Mao: Un’organizzazione è ciò di cui si può dire che «ridà alle masse sotto una forma precisa ciò che ha ricevuto sotto una forma ancora confusa».

Tesi 11: La forma Partito classica è oggi condannata perché si è definita da sola, non per la sua capacità di fare ciò che dice la tesi 9, cioè il lavoro di massa, ma per la sua pretesa di «rappresentare» la classe operaia o il proletariato.

Commento: Bisogna rompere con la logica della rappresentanza, in tutte le sue forme. L’organizzazione politica deve avere una funzione strumentale, e non rappresentativa. Del resto, chi dice «rappresentanza» dice «identità di ciò che è rappresentato». Ora, bisogna escludere le identità dal campo politico.

Tesi 12: Il rapporto allo Stato non è, come appena visto, ciò che definisce la politica. In questo senso, la politica ha luogo «a distanza» dallo Stato. Ciononostante, strategicamente, bisogna spezzare lo Stato, perché è il guardiano universale della via capitalista, in particolare perché è la polizia del diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio. Come dicevano i rivoluzionari durante la Rivoluzione Culturale, bisogna «rompere con il diritto borghese». Di conseguenza, l’azione politica rispetto allo Stato è un misto di distanza e di negatività. Il fine è, in realtà, che lo Stato sia progressivamente accerchiato da un’opinione ostile e da luoghi politici che gli siano divenuti estranei.

Commento: Il bilancio storico di tale questione è molto complesso. Per esempio, la rivoluzione russa del 1917 ha certamente combinato una larga ostilità al regime zarista, anche nelle campagne a causa della guerra, una preparazione ideologica intensa e antica, in particolare nei settori intellettuali, delle rivolte operaie divenute vere organizzazioni di massa, chiamate «soviet», delle sollevazioni di soldati e l’esistenza, con i bolscevichi, di una organizzazione solida, diversificata, capace di tenere delle riunioni con degli oratori di primo piano per convinzione e per talento didattico. Tutto ciò si è intrecciato nelle insurrezioni vittoriose e nella terribile guerra civile vinta infine dal campo rivoluzionario, a dispetto di un massiccio intervento straniero. La rivoluzione cinese ha seguito un corso del tutto differente: una lunga marcia nelle campagne, la formazione delle assemblee popolari, un vero esercito rosso, l’occupazione duratura di una zona lontana nel nord del paese, dove si sono potute sperimentare la riforma agraria e produttiva e dove si è potuto, al tempo stesso, consolidare l’esercito. Il tutto durante una trentina d’anni. Inoltre, al posto del terrore staliniano degli anni Trenta, si è prodotta un’insorgenza di massa, studentesca e operaia, contro l’aristocrazia del Partito comunista. Questo movimento senza precedenti, chiamato Rivoluzione Culturale, è per noi l’ultimo esempio di una politica dello scontro diretto con le figure del potere di Stato. Niente di tutto ciò può essere trasposto nella nostra situazione. Ma una lezione attraversa tutta questa avventura: lo Stato non può in alcun caso, quale che sia la sua forma, rappresentare o definire la politica d’emancipazione.

La dialettica completa di ogni politica vera comporta quattro termini:

1. L’Idea strategica della lotta tra le due vie, la comunista e la capitalista. È ciò che Mao chiamava la «preparazione ideologica dell’opinione», senza la quale, diceva, la politica rivoluzionaria è impossibile.
2. L’investimento locale di quest’idea o principio da parte dell’organizzazione, sotto la forma del lavoro di massa. La circolazione decentralizzata di tutto ciò che produce questo lavoro in termini di parole d’ordine e di esperienze pratiche vittoriose.
3. I movimenti popolari, sotto forma di eventi storici, all’interno dei quali l’organizzazione politica lavora per la loro unità negativa così come per l’affinamento della loro determinazione affermativa. 4. Lo Stato, il cui potere deve essere spezzato, tramite lo scontro o l’accerchiamento, se è uno dei fondamenti del potere capitalista. Se è invece stabilito dalla via comunista, deve deperire, tramite i mezzi rivoluzionari abbozzati in una situazione di fatale disordine dalla rivoluzione cinese, se necessario. Inventare, nella situazione, la disposizione contemporanea di questi quattro termini è il problema, simultaneamente pratico e teorico, della nostra congiuntura.

Tesi 13: La situazione del capitalismo contemporaneo comporta una sorta di stallo tra la globalizzazione del mercato e il carattere ancora largamente nazionale del controllo poliziesco e militare delle popolazioni. Detto altrimenti: c’è una faglia tra la disposizione economica delle cose, che è globale, e la sua necessaria protezione statale, che resta nazionale. Il secondo aspetto risuscita le rivalità imperialiste, ma sotto nuove vesti. A dispetto di questo cambiamento di forma, cresce il rischio della guerra. Del resto la guerra è già presente in larghe parti del mondo. La politica a venire avrà anche per compito, se può, di impedire che esploda una guerra totale, che potrebbe questa volta mettere in gioco l’esistenza dell’umanità. Si può dire anche che la scelta storica è: o l’umanità rompe con il neolitico contemporaneo che è il capitalismo e apre su scala globale la sua fase comunista, oppure resta nella fase neolitica, e sarà così esposta a scomparire in una guerra atomica.

Commento: Oggi, le grandi potenze, da un lato, cercano di collaborare alla stabilità degli affari a livello mondiale, in particolare lottando contro il protezionismo, ma, dall’altro lato, lottano tacitamente per la loro egemonia. Ne risulta in particolare la fine delle pratiche direttamente coloniali della Francia o dell’Inghilterra del XIX secolo, così come l’occupazione militare e amministrativa di paesi interi. Propongo di chiamare la nuova pratica «zonage»: in zone intere (Iraq, Siria, Libia, Afghanistan, Nigeria Mali, Centro Africa, Congo) gli Stati sono messi in difficoltà, annientati, e la zona diventa una zona di saccheggio, aperta a delle bande armate così come a tutti i predatori capitalisti del pianeta. Oppure lo Stato è composto da affaristi legati da innumerevoli rapporti alle grandi compagnie del mercato mondiale. Le rivalità si mescolano in vasti territori, con dei rapporti di forza costantemente mutevoli. Basterebbe in queste condizioni un incidente militare incontrollato perché si sia subito sull’orlo della guerra. I blocchi sono già disegnati: gli Stati Uniti e la loro cricca «occidental-giapponese», da un lato, la Cina e la Russia, dall’altro, le armi atomiche ovunque. Non posso allora che ricordare la sentenza di Lenin: «o la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra provocherà la rivoluzione». Si potrebbe così definire l’ambizione massima del lavoro politico a venire: che per la prima volta nella Storia sia la prima ipotesi – che la rivoluzione impedirà la guerra – che si realizza, e non la seconda – che la guerra provocherà la rivoluzione. È stata in effetti questa seconda ipotesi a materializzarsi in Russia nel contesto della Prima guerra mondiale, e in Cina nel contesto della Seconda. Ma a che prezzo! E con quali conseguenze di lungo corso! Speriamo, agiamo. Non importa chi, non importa dove, può cominciare a fare della politica vera, nel senso che le ho attribuito in questo testo. E può, a sua volta, cominciare a parlare di ciò che fa. È così che tutto comincia.

 

Traduzione e cura di Matteo Polleri

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