Prendere l’uomo alla radice
Le domande di Elvio Fachinelli
Alla borghesia i propri figli si presentano come eredi;
ai diseredati come soccorritori, vendicatori, liberatori—Walter Benjamin
La nostra è una generazione sfortunata, deve ammetterlo anche Mario Draghi, e sta diventando superfluo ripeterlo. Così sfortunata che, oltre alla disoccupazione, al working poor, gli tocca in sorte la psicoanalisi di Stato, Massimo Recalcati e molto altro. Non bastavano il primato delle neuroscienze, il trionfo della psicologia al servizio della «mediazione», pure la riscoperta dei tabù, della Legge e del Nome del Padre: non c’è che dire, un vero e proprio accanimento.
Un volume da poco in libreria, edito da DeriveApprodi, ci ricorda che la psicoanalisi italiana ha vissuto momenti decisamente migliori: si tratta degli scritti politici di Elvio Fachinelli, dal titolo, bello quanto i testi raccolti, Al cuore delle cose (DeriveApprodi, 2016). Una penna affilata, quella di Fachinelli, che ha trasformato, tra gli anni Sessanta e Settanta, la psicoanalisi in un campo di battaglia; di più, l’ha resa arma utile per farla finita con la famiglia e il Leviatano. Psicoanalista, giornalista, militante politico: una grandissima figura del Novecento italiano ed europeo, di cui, neanche a dirlo, è stata in buona parte smarrita la memoria.
Di certo è ricordato da una parte delle istituzioni psicoanalitiche, di certo non sanno chi sia, o quasi, i giovani militanti del nostro tempo, e la filosofia accademica continua a non leggere i suoi testi fondamentali sul tempo, la ripetizione, l’estasi. Al cuore delle cose, completando e arricchendo la nota raccolta, Il bambino dalle uova d’oro, edito nel 1974 da Feltrinelli e oggi di nuovo disponibile per i titoli di Adelphi, rende finalmente possibile la «rammemorazione», lascia finalmente scoccare «l’ora della leggibilità» di questo autore, consegnandoci con forza l’attualità della sua ricerca, della sua lingua.
I blocchi tematici che articolano il volume sono davvero molti, proviamo a indicare, perciò, i più rilevanti: la riflessione sul Sessantotto e la rottura generazionale; la centralità, politica e psicoanalitica, dell’infanzia e l’«educazione proletaria»; la droga; le nuove «istituzioni d’amore»; le «estasi metropolitane». Prima di addentrarci tra i testi, preferiamo individuare le domande utili per orientare la nostra fugace esplorazione. Non è quella di Fachinelli d’altronde, così come segnalato nel suo testo programmatico del 1970, Cosa chiede Edipo alla sfinge, una «psicoanalisi interrogante»? Un «processo» aperto, un «lavoro», piuttosto che un sapere corporativo, cristallizzato nel feticcio positivistico dell’obiettività dei dati?
Ebbene sono due le domande che, a nostro avviso, attraversano per intero queste pagine di Fachinelli – la loro ricerca pratica oltre che teorica. La prima compare nelle battute introduttive de L’Erba voglio (il libro, 1971), nel volume DeriveApprodi titolate Quale autorità nella scuola?: «ma allora, conviene impegnarsi in esperienze scolastiche autonome, fuori dall’apparato istituzionale, come gli asili autogestiti – oppure in un’azione nella e contro l’istituzione scolastica esistente»? La seconda, esplicita in un articolo breve e potente dal titolo Single, ripete la domanda arrogante che i vincitori (siamo ormai negli anni Ottanta) non smettono di ripetere ai vinti: «dove siete finiti? Siete falliti, non è vero?».
La prima questione nasce in primo luogo dall’esperimento, straordinario, dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano. Momento di lotta, condiviso con Lea Melandri e Luisa Muraro, ma anche di istituzione alternativa. L’interrogazione, posta nel mezzo di una pratica situata, colpisce per la sua attualità e, come un taglio, segna tanto la psicoanalisi quanto la politica, indicandone la più intima delle giunture. D’altronde, già nella traduzione e commento, per Quaderni piacentini (1969), dell’allora inedito benjaminiano, Programma per un teatro proletario di bambini, il punto dirimente di tale interrogazione viene scorto e chiarito: seguendo le parole di Benjamin, è nel «gesto infantile» che bisogna individuare il «segnale segreto dell’avvenire», quello «veramente rivoluzionario».
Allora l’infanzia diventa il luogo che fa la differenza. Allora la prassi sovversiva non può che essere anche, e soprattutto, auto-formazione, educazione non autoritaria, discontinuità antropologica, proliferazione istituzionale oltre e contro le istituzioni dello Stato
E Fachinelli, che usa il Sessantotto e Benjamin (non casualmente riscoperto dal movimento studentesco tedesco) per ripensare la psicoanalisi, approfondisce: «se infatti è vero, come ritengo, che la crisi della psicoanalisi della risposta sia cominciata, e sia destinata ad aggravarsi, a livello della secessione giovanile, allora il primo e unico luogo privilegiato della psicoanalisi interrogante sarà dato dalla giovane generazione. Penso innanzitutto ai punti in cui, appena superato il rapporto biologico, tra virgolette, con la madre, comincia una fase di socializzazione che in realtà è di apprendimento, precocissimo, delle regole vigenti nella nostra società in via di massificazione». Allora l’infanzia diventa il luogo che fa la differenza. Allora la prassi sovversiva non può che essere anche, e soprattutto, auto-formazione, educazione non autoritaria, discontinuità antropologica, proliferazione istituzionale oltre e contro le istituzioni dello Stato. Allora la psicoanalisi deve smettere di essere «istituzione tabù» normativa, semplice «sistema genitoriale accessorio», per farsi, invece, «lavoro senza fissa dimora», per rompere la sua immagine più consolidata, «quella della segregazione in un rapporto duale socialmente e culturalmente privilegiato», quella di un «settore specializzato […] detentore di un sapere-potere separato, la psicologia» appunto.
Prestar fede all’infanzia, muoversi e lavorare all’interno del suo «continente», significa assumere fino in fondo il gesto davvero sovversivo di Freud, quello che cercava nelle «tracce del banale, del comune a tutti» le condizioni del cambiamento, della trasformazione dell’esistente
Proseguendo nella direzione indicata da Benjamin, la possibilità della rivoluzione è indissolubilmente legata con la costruzione di un’altra pedagogia e, quindi, di un’altra antropologia: prestar fede all’infanzia, muoversi e lavorare all’interno del suo «continente», significa assumere fino in fondo il gesto davvero sovversivo di Freud, quello che – secondo le parole del bellissimo testo sul fondatore del movimento psicanalitico (Adelphi, 2012) – cercava nelle «tracce del banale, del comune a tutti» le condizioni del cambiamento, della trasformazione dell’esistente. In altri termini e, soprattutto, riscoprendo in tutta la sua serietà l’ispirazione antropologica marxiana, «politica radicale» vuol dire «prendere l’uomo alla radice», là dove «la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso». Soltanto dall’interno del processo medesimo di costruzione dell’umano è possibile immaginare l’uomo nuovo.
La seconda domanda riguarda le nuove «istituzioni d’amore» degli anni Sessanta e Settanta, in primo luogo; più in generale, a nostro avviso, i movimenti, le grandi rotture esistenziali e politiche. Ci si avvicina alla fine degli anni Ottanta, risuona con forza la boria dei vincitori, la paccottiglia postmoderna che dichiara finita la Storia, e Fachinelli tenta di riannodare i fili del «desiderio dissidente». Contro la famiglia («luogo chiuso, coatto, defecatorio»), negli anni della lunga Comune italiana sono spuntati ovunque i «gruppi di affinità, di simpatia, di bizzarria o anche solo di intolleranza per gli altri, che vanno avanti per un po’, poi si dissolvono, spariscono per ricomparire eventualmente un po’ più in là».
Simili – ed ecco una eccellente definizione di istituzioni non statali – «a quelle strutture chiamate cristalli liquidi». La voce odiosa degli anni Ottanta non si fa attendere, interrompe il ricordo: «siete falliti, non è vero»? La risposta di Fachinelli è netta: «non c’è fallimento, non c’è scacco, non può esserci, dal momento che quelli lì andavano secondo un altro ritmo, seguivano un’altra logica, piuttosto enigmatica, a volte tragica, quella del desiderio, o della libertà». Ma cosa sia questa logica, e come costituisca i gruppi, nella loro proliferazione libera, ostile all’unificazione sovrana, Fachinelli lo aveva chiarito proprio nel Sessantotto, facendo i conti – lui sì seriamente – con la «secessione giovanile».
Se c’è morte del gruppo, quella è la morte del desiderio. E un desiderio morto, per dirla col filosofo, è una potenza interamente incarnata, senza resti. In una potenza che sa rimanere inattuale, in una richiesta che non smette di chiedere ancora, lì c’è il movimento, nonostante la sconfitta, nonostante l’inverno
L’esodo dalle forme di vita consolidate, per un’intera generazione, prende le sembianze di una sorta di gruppo-processo dove «ciò che conta non è la meta, non è la proposta in sé, più o meno reale […] non è l’oggetto del desiderio, ma lo stato del desiderio». Se c’è morte del gruppo, quella è la morte del desiderio. E un desiderio morto, per dirla col filosofo, è una potenza interamente incarnata, senza resti. In una potenza che sa rimanere inattuale, in una richiesta che non smette di chiedere ancora, lì c’è il movimento, nonostante la sconfitta, nonostante l’inverno.
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